One Bridge to Idomeni è un'iniziativa promossa da un gruppo di persone di Verona, nell'intento di creare una ponte tra Verona e Idomeni. L'accorato resoconto di un volontario
Il primo obiettivo di 'One Bridge to Idomeni' è quello di creare delle connessioni con i profughi e con le associazioni già presenti a Idomeni e per questo, in questi giorni, è presente ad Idomeni una prima missione esporativa. Qui di seguito il racconto di Jacopo, uno dei volontari, pubblicato sulla pagina Facebook dell'iniziativa:
“Edoardo ci scuote, siamo in ritardo, non abbiamo sentito la sveglia. Io e Nicola usciamo con le prime gocce di pioggia che picchiettano sulla tenda già umida dalla notte. Giulio era già operativo, sta lavando delle pentole. Arriviamo per la colazione nel Park Hotel già affollato di persone indaffarate davanti ad agende, computer e macchine fotografiche. Qualcuno ha comprato altri posacenere da mettere sui tavoli. C’è da cucinare e da aiutare Barry per un nuovo pasto. Apro con Dadino alcuni barattoli di conserva da 2 litri, poi mi sposto in cucina per aiutare Luke con le sue quattro pentole da 60 litri che sono già sui fornelli. Mi dice di mescolare continuamente con i mestoli lunghi un metro, perché non si attacchi nulla sul fondo. In cambusa non si respira, in pochissimo tempo qualsiasi cosa tu abbia addosso diventa bollente, così si rimane in quattro senza maglietta. Anche se fuori ci sono 10 gradi, dentro è una sauna.
Edoardo tagliuzza carote. Nicola aiuta a scaricare del materiale nel parcheggio vicino. Giulio mi si avvicina dicendomi di aver conosciuto una famiglia di migranti, padre madre e 6 figli a cui servirebbe un passaggio in macchina fino ad Idomeni: Vai- gli dico - ma non possiamo salvarli tutti. Ricordalo. Giulio è così. Li porterebbe in Europa uno ad uno se fosse per lui.
Il ragazzo gallese che aiuta Luke mette su della musica, non la conosco, mantiene alto il morale. Sento e vedo elicotteri che continuano a ronzarci sopra la testa come api sui fiori, poi capisco. Davanti al Park Hotel sono arrivati circa 500 migranti, forse 600 non so. Al coro di “Open the Borders!” stanno manifestando contro questa sorda Europa. Fermatisi, alcuni si siedono, in testa al gruppo ci sono i bambini, le loro voci bianche spiccano tra le altre. Tengono in mano i cartelli, quasi come se sperassero che a loro, almeno a loro, qualcuno presti ascolto. Su alcuni annunciano lo sciopero della fame, probabilmente non è una decisione loro, ma ne sembrano convinti, sono disposti a tutto, ma lo meritano?
“We stand in solidarity with Belgium against terrorism”. E’ come se sapessero che in quest’Europa la strumentalizzazione di un atto terroristico per irrigidire ancora di più le frontiere è uno scenario più che probabile. Hanno una fottuta paura che questo accada, che quello che è successo a Parigi, Ankara e Bruxelles possa diventare il mezzo per rendere questo mondo sempre più a compartimenti stagni. Abdullah, un ragazzino di Eko Camp, ieri lo diceva chiaramente: da casa mia deve andarsene Assad, ma anche l’Isis, non è solo l’Europa ad essere colpita da questa guerra, lo siamo pure noi.
“Where is the Humanity? 45.000 refugees to where?” Che schifo. Quarantacinquemila? Si parla di milioni di profughi. Di che cosa ha paura l’Europa? Li rispediamo in Turchia? Li teniamo in campi concentramento sotto la pioggia e il freddo di questi giorni o sotto il caldo dei futuri mesi estivi? Sarebbero soluzioni queste? O mere contrattazioni politiche giocate sulla pelle di chi non ha più niente da perdere?
“We ask to the political leaders to try our tents” E hanno ragione, vorrei vederli quelli dell’ultimo vertice UE del 17-18 marzo scorso in mezzo a questa merda. Hanno fatto una partita a dadi seduti su comode poltrone, vorrei vederli tra questo fango e questa pioggia. Che vengano qua a contrattare miliardo più, miliardo meno. Passano ambulanze in questo momento, direzione Idomeni, un brivido al pensiero che a qualcuno dei bambini visti prima sia successo qualcosa, non c’è il tempo per soffermarsi su ogni cosa che si vede perché il minuto dopo ne accade già un’altra, le ore sembrano giorni. Vedo un uomo disteso per terra davanti ad un camion, mi avvicino per fotografarlo con Nicola, ci si avvicina una donna, si chiama Manar, ci scambia per giornalisti, ci chiede un parere: stavano valutando se è una buona idea chiudere la strada e impedire il passaggio ai mezzi di trasporto che già formano una lunga coda sulla strada che porta ad Idomeni. No, aspetta. Perché lo chiedi a me? non posso dirti io che cosa devi fare. Guardo Nicola, per cercare un briciolo di suggerimento su che cosa dirle. Chi può trovarsi preparato ad un momento come questo?
For the European people that afraid of us, is it good or a bad idea?- Cosa puoi rispondere quando ti chiedono una cosa simile? Vorresti dire loro che dovrebbero fare di tutto, che il problema degli europei (o almeno una buona parte di loro) è che hanno la mente bacata, che pensano solo ai loro interessi. Rispondiamo che non sappiamo se è una buona o cattiva idea, perché la situazione è complicata. Ma un cosa è importante: “Don’t do stupid things”. Non fate cazzate, mantenete una situazione pacifica, non ribellatevi in modo violento, chi è spaventato in Europa, non lo è per colpa vostra, lo è per colpa di un sistema che macina soldi e interessi politici sulla paura, quindi -Try to maintain the situation peacefully- le diciamo.
Altri volontari come noi le confermano la cosa, un ragazzo traduce per gli altri e cominciano a formare un cordone che tuttavia fatica a rimanere compatto. Qualcuno distribuisce acqua o mantelline contro la pioggia che sempre di più bagna e spegne, almeno momentaneamente, l’impeto di questa manifestazione. L’acqua viene rifiutata e fatta rifiutare dai maschi adulti, provo a parlare con quattro di loro. Almeno le donne o i bambini, vi prego, almeno loro. Ma è la disperazione che muove la loro fermezza, glielo si legge negli occhi, sia dei padri che dei figli. Sempre meglio che bruciarsi vivi penso, ma quale perverso meccanismo mi ha portato a pensare ad una cosa simile? Non dovrebbero esistere né l’una né l’altra possibilità. La manifestazione si spegne, cominciano a ritornare indietro, un padre mi chiede di essere fotografato con i suoi figli, -perché tutti vedano- penso. Ma dov’è la madre dei suoi figli? Ho paura all’idea di sapere la risposta. Altri bambini mi chiedono di farsi fotografare con i loro cartelli, sembrano andarne così fieri, paiono essere consapevoli della potenza del messaggio che possono trasmettere.
Arriva un signore italiano in collegamento Skype con una scuola elementare di Fumane. Un’aula piena di bambini, 9 anni circa, ho ancora negli occhi quelli della manifestazione che tenevano i cartelli. Fanno qualche domanda a Nicola, a Edoardo, poi a me. Parliamo con Sara, Matilde e Davide. Mi chiedono a quanti anni si può venire a fare una cosa così, che cosa si può rispondere? Quantomeno cercate di essere maggiorenni, da qui non si torna come si è partiti, siatene consapevoli, prendete coscienza prima di venire. E la seconda domanda: come si può essere utili da qua? Gli diamo le indicazioni della pagina. Seguitela, spargete la voce, ma soprattutto siate fratelli tra di voi, qui ci sono bambini più piccoli che chiedono solo di avere una casa e amici con cui giocare, perché non potete già esserlo li? Siatelo, siate amici e non chiudete le porte in faccia a nessuno. Anche con il vostro compagno di banco che magari è straniero, non emarginatelo, coinvolgetelo. Parte un applauso. Questa è una bella lezione, la solidarietà dovrebbe essere una materia da insegnare a scuola.
L'Europa si è fermata ad Idomeni.