Una cooperativa formata in prevalenza da donne serbe e musulmane ha dato vita ad una solida realtà economica nella Bosnia orientale, attraverso il coinvolgimento di una rete di partner italiani e bosniaci
La cooperativa agricola "Insieme", nata a Bratunac nel maggio 2003, riunisce donne serbe e musulmane in una delle zone più delicate della Bosnia Erzegovina, l'area di Srebrenica. Nata per sostenere i ritorni di profughi e sfollati, è oggi un'importante azienda di produzione di frutti di bosco, distribuiti sul mercato interno ed internazionale. La direttrice, Rada Zarkovic, ci ha raccontato la storia dei "lamponi di pace", che da anni sono il simbolo della cooperativa.
Quando è nato questo progetto?
Nel 2000. Qui i ritorni non erano ancora cominciati, il peso che gravava sull'area di Srebrenica e Bratunac, dopo la guerra, era ancora troppo forte. Abbiamo fatto un viaggio nella zona con alcune donne che erano sfollate a Sarajevo e Tuzla, per valutare insieme la possibilità che rientrassero nelle proprie case. Al tempo le politiche di sostegno ai ritorni si limitavano alla ricostruzione dei tetti, nessuno si preoccupava di rendere quei rientri sostenibili nel tempo.
Di cosa si occupava lei in quel periodo?
Sono sempre stata un'attivista della rete delle donne contro la guerra, e allo stesso tempo lavoravo per il Consorzio Italiano di Solidarietà, l'ICS.
Cosa è successo dopo il viaggio che avete fatto a Srebrenica?
Ho parlato con Skender, mio collega all'ICS. Abbiamo pensato a cosa avremmo potuto fare per aiutare quelle donne a rientrare, e abbiamo capito che senza una base economica per loro non ci sarebbero state possibilità.
Quindi?
Abbiamo avviato un'indagine per capire quali attività avrebbero potuto radicarsi in quel territorio, nella Bosnia orientale. Abbiamo quindi cercato la collaborazione del Forum delle donne di Bratunac e di un'altra associazione di donne, Zene Podrinje. In breve tempo è emerso chiaramente che una delle tradizioni più solide di questa zona, per la quale c'erano sia risorse che conoscenze, era la coltivazione dei lamponi.
C'era anche un aspetto di tipo simbolico: le donne che cominciavano a tornare, dopo un breve periodo, spesso ripartivano, non riuscendo a far fronte alle difficoltà. Ma la pianta di lampone dà frutti per 15 anni. Se la si pianta, significa che ci si impegna e si è davvero deciso di restare.
Qual era la situazione che avete incontrato da un punto di vista sociale?
Nella zona c'erano moltissime madri sole. Nel 2002, quando abbiamo iniziato, erano 1.080 nel solo territorio di Bratunac. Oggi sono sicuramente molte di più, dato che i ritorni nel frattempo sono continuati.
Il problema delle donne sole riguardava solo la comunità dei rientranti, i bosniaco musulmani?
Naturalmente no. Per le donne serbe che non ricevevano pensioni, ed erano rimaste senza marito, in un certo senso la situazione era anche più difficile. Diciamo che le donne musulmane entravano nella nostra cooperativa anche e soprattutto per cercare sicurezza, in una zona che ovviamente era molto delicata. Le donne serbe d'altro canto erano guidate da una forte motivazione di carattere economico. Noi ci siamo costituiti come cooperativa multietnica, aperta a tutti. Questa era la nostra unica discriminante. Chi non se la sentiva di stare insieme, non si presentava.
Come avete trovato i fondi per il progetto?
All'inizio autofinanziandoci. Poi abbiamo coinvolto la rete di contatti con le associazioni italiane che si era costituita durante e dopo la guerra. Hanno accettato subito Assopace e Agronomi senza Frontiere di Padova e Verona, insieme alle Donne in Nero di Verona. Con loro, e l'Associazione Cooperazione allo Sviluppo (ACS) di Padova, abbiamo presentato un progetto alla regione Veneto che ci ha consentito di assumere un agronomo per seguire i produttori, e nel 2003 abbiamo ufficialmente fondato la cooperativa. Questo è stato l'inizio...
E oggi?
Nel tempo la rete di sostegno italiana si è trasformata, sono entrate importanti realtà del Trentino come l'associazione La Ventessa di Lisignago Val di Cembra e la stessa Provincia autonoma di Trento, che ha finanziato un vivaio per la produzione di piante madri. Oggi abbiamo più di 400 famiglie associate nell'impresa, e la cooperativa garantisce assistenza tecnica ai produttori, formazione e naturalmente le piante.
Quante raccolte fate?
Due all'anno. Oltre ai lamponi abbiamo more e mirtilli selvatici, e in questo momento stiamo sperimentando i mirtilli coltivati. Alla base restano comunque i lamponi.
Qual era lo stato delle risorse che avete incontrato a livello locale, dal punto di vista tecnico e delle conoscenze?
I produttori locali avevano esperienza, ma purtroppo dal punto di vista delle conoscenze erano rimasti fermi al '91-'92. La guerra aveva interrotto tutto, non c'erano più stati aggiornamenti. Per questo il lavoro di rete con l'Italia per noi è stato fondamentale. L'incontro decisivo direi che è stato quello con l'agronomo Ilario Ioratti, ex direttore della cooperativa S. Orsola di Pergine Valsugana.
Tramite lui siamo stati in grado di riaggiornare e sviluppare la produzione. Oltre ai lamponi Wilamete, che sono la varietà più diffusa a livello locale, abbiamo infatti introdotto anche gli Heritage, che sono una coltivazione tardiva, inizia quando finisce l'altra.
Cioè?
Qui le famiglie non si possono permettere grandi appezzamenti o l'aiuto di lavoratori stagionali, devono operare su terreni di dimensioni ridotte. Avendo due cicli di prodotto si possono ottenere due raccolti invece di uno solo, con la manodopera disponibile e sullo stesso terreno, senza la necessità di allargare il fondo. Il lavoro diviene più stabile senza sconvolgere la tradizione locale.
Quanti lamponi vengono raccolti dalla rete della cooperativa?
Nei periodi più intensi qui al centro di lavorazione arrivano circa 25 tonnellate a sera...
Rada mi accompagna nei diversi locali della cooperativa, un'ampia fabbrica sorta sullo spazio di una segheria abbandonata, 1.000 metri quadri coperti su una superficie complessiva di 8.000. Le donne stanno facendo una pausa caffé prima di rimettersi al lavoro sul nastro, dove i lamponi vengono selezionati e poi impacchettati per le consegne. Entro nella grande sala frigorifera dove la temperatura resta stabile a meno 20 gradi. Mi mostra i modernissimi congelatori: «A un certo punto ci siamo resi conto che non potevamo più crescere senza chiedere un grosso prestito, per acquistare l'impianto di surgelamento. Ci siamo rivolti alla Sefea, un gruppo di cui fanno parte Banca Etica e altre importanti istituzioni finanziarie. Alla fine abbiamo ottenuto un prestito di 350.000 euro, nel 2005. Per decidere di indebitarci abbiamo perso il sonno per due mesi...».
In quanti siete a lavorare oggi in cooperativa, a parte i produttori?
Nelle fasi di piena lavorazione più di 60, due turni qui in cooperativa e poi i trasportatori, i ragazzi che caricano e scaricano...
Mentre camminiamo nella fabbrica Rada mi mostra un ragazzo chino sui cartoni: «Vedi quel ragazzo? Due mesi fa hanno trovato suo padre, era uno degli scomparsi di Srebrenica. Quando qui in cooperativa l'hanno saputo tutte le donne si sono strette intorno a lui. Ognuna di loro ha cercato di aiutarlo come ha potuto. La maggioranza delle donne sono serbe di qui, capisci cosa significa questo lavoro?».
Torniamo su nell'ufficio. Il progetto dura da ormai 5 anni. Chiedo come vedano il futuro. Rada è un'entusiasta, la risposta è scontata. Guardo Skender, che ha seguito la conversazione in silenzio, ma anche lui annuisce tranquillo. Il lavoro sta andando bene e anche tutto quello che ci è cresciuto intorno. Nel logo della cooperativa, intorno ai lamponi, c'è una bandiera della pace. Guardo le foto fatte dalle donne nella "gita aziendale" a Mostar per l'otto marzo dell'anno scorso. I calici alzati in una locanda, le foto ricordo (tutte nella stessa posizione) davanti al Ponte... Ancora entusiasmo. Difficile non farsi contagiare.
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