Le elezioni presidenziali del 19 febbraio hanno portato la vittoria del Primo ministro Sarksyan ma l'opposizione contesta i risultati. Le manifestazioni sono degenerate sabato notte
Drammatico epilogo delle mobilitazioni che a Yerevan da giorni avevano portato migliaia di persone nelle strade per contestare i risultati delle elezioni presidenziali dello scorso 19 febbraio, vinte da Serhz Sarksyan.
Nella giornata di sabato 1 marzo la polizia è intervenuta per porre agli arresti domicialiari Levon Ter-Petrosyan, candidato sconfitto e leader delle proteste, e smantellare le tende nelle quali migliaia di persone pernottavano nella centrale Piazza della Libertà.
I violentissimi scontri che ne sono seguiti, protrattisi fino a tarda notte, hanno avuto il pesante bilancio di otto morti ed hanno spinto il presidente in carica Kocaryan a dichiarare lo stato di emergenza fino al prossimo venti marzo.
Il centro della capitale, presidiato da polizia ed esercito, presenta ancora i segni delle violenze di sabato, con carcasse di auto bruciate e vetrine infrante.
Immediate sono giunte le reazioni della comunità internazionale. L'Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa (OSCE) per bocca del ministro degli esteri finlandese Kanerva ha chiesto alle autorità armene "di rilasciare gli arrestati e alle due parti di impegnarsi nel dialogo per scongiurare ogni ulteriore tensione". L'OSCE ha inviato a Yerevan un suo rappresentante, il finlandese Heikki Talvitie.
Sean McCormack, portavoce del Dipartimento di Stato americano ha dichiarato che "Entrambe le parti sono responsabili nel ristabilire l'ordine e riprendere il dialogo. Le azioni illegali devono essere fermate e rischiano solamente di peggiorare la situazione" auspicando anche che lo stato di emergenza venga sospeso al più presto.
Già alla vigilia le elezioni presidenziali erano state caratterizzate da un alto grado di tensione e da un profondo clima di sfiducia. Levon Ter-Petrosyan, ex presidente della repubblica negli anni '90, insieme ad altri candidati ed esponenti del mondo politico aveva ripetutamente accusato Sarksyan e il presidente in carica Kocaryan di manipolare la campagna elettorale e le elezioni.
Gli osservatori internazionali del resto, all'indomani delle elezioni, pur giudicandole in buona sostanza in linea con gli standard democratici, aveva sottolineato la scarsa fiducia che l'elettorato armeno ha mostrato di nutrire nei confronti del processo elettorale.
Fin dall'anuncio della vittoria di Sarksyan, Ter-Petrosyan si era rifiutato di riconoscere i risultati delle elezioni ed aveva chiamato i suoi sostenitori alla mobilitazione.
Per undici giorni imponenti manifestazioni si sono susseguite nella capitale e migliaia di persone hanno stabilito un presidio permanente nella centrale Piazza della Libertà.
" Molti di coloro che occupano la piazza non sono però sostenitori di Ter-Petrosyan ma persone che vogliono uscire dal regime creato dalla coppia Kocaryan-Sarkisyan" ha raccontato al settimanale Agos il politologo Yervant Bozoyan.
Di fronte al protrarsi della proteste il presidente Kocaryan aveva risposto imponendo la chiusura degli uffici elettorali di Ter-Petrosyan e l'arresto di numerosi suoi sostenitori.
"Questa guerra di nervi potrebbe non durare a lungo e la violenza esplodere ad ogni momento" aveva profeticamente ammonito Bozoyan.
Nonstante gli appelli internazionali che invitano Kocaryan ad evitare il ricorso alla forza, sabato vi è stato l'epilogo violento.
A far da detonatore la decisione delle autorità di procedere in mattinata alla rimozione dell'accampamento dei sostenitori di Ter-Petrosyan e la notizia che l'ex presidente era stato posto agli arresti domiciliari. Una notizia che le autorità hanno smentito attraverso il ministro degli esteri Oskanyan " gli agenti di polizia sono stati schierati davanti alla casa di Ter-Petrosyan solamente per garantire la sua incolumità".
La resistenza di una parte dei manifestanti ad abbandonare la piazza " Ter-Petrosyan ci ha chiesto di rimanere qui e di aspettarlo" ha scatenato i primi incidenti con la polizia.
Nel pomeriggio il presidente Kocaryan ha proclamato lo stato di emergenza per venti giorni. "Voglio avvertire i cittadini che la partecipazione o l'organizzazione di manifestazioni proibite dallo stato di emergenza troveranno la ferma ed adeguata risposta delle forze armate" dichiarava il capo di stato maggiore Seyran Ohanian.
In serata l'arrivo nella piazza di soldati ed autoblindo in appoggio alla polizia antisommossa ha fatto precipitare la situazione. Le forze dell'ordine hanno fatto uso di lacrimogeni, cannoni ad acqua, manganelli elettrici mentre i manifestanti armati di sassi e bastoni gridavano "Libertà" e "Levon, Levon" ed erigevano barricate. Gli scontri ed i colpi di arma da fuoco si sono protratti fino a tarda notte. Un testimone oculare citato da Human Rights Watch ha dichiarato che la rabbia dei manifestanti è eplosa quando un uomo di circa cinquant'anni è stato ucciso da un pallottola esplosa dalla polizia.
Kocaryan ha giustificato l'uso della forza sostenendo che "Loro erano armati e siamo stati costretti a garantire la sicurezza dei cittadini". Nikol Pashinian, uno dei leader della protesta, ha parlato invece di provocatori mandati dal governo " Sono le autorità che destabilizzano la situazione, noi non abbiamo nulla a che vedere con tutto questo". In tarda serata Ter-Petrosyan dalla sua abitazione ha lanciato un appello chiedendo ai manifestanti di rientrare nelle loro case " Non voglio vittime e scontri tra la polizia e persone innocenti. Per questo vi sto chiedendo di abbandonare le strade".
Il bilancio della giornata parla di 8 vittime, delle quali per il momento solo quattro sono state identificate, almeno 130 feriti, tra i quali 33 rappresentanti delle forze dell'ordine, e cinquanta persone arrestate. Un dato però contestato da HRW che parla di almeno cento arresti.
Nella giornata di domenica si è poi registrato l'arresto di cinque esponenti di primo piano dello schieramento di Ter-Petrosyan. Tra loro il parlamentare Myasnik Malkhasyan, accusato di aver partecipato agli sconti di sabato. Per lui l'accusa è quella di aver " mirato ad impadronirsi del potere attraverso mezzi illegali".
Da giorni a Yerevan ferve l'attività diplomatica. Il presidente Kocaryan, dopo aver ricevuto una telefonata di solidarietà da parte del suo omologo georgiano Saakashvili, ha incontrato il rappresentante speciale dell'Unione Europea per il Caucaso Meridionale Peter Semnbey. Kocaryan nell'incontro ha sostenuto che gli incidenti di sabato " non hanno niente a che vedere con la politica. Si tratta di un episodio criminale sul quale si deve indagare e i cui responsabili devono essere arrestati". Parlando poi dello stato di emergenza Kocaryan ha sostenuto "che si è cercato di non violare i diritti fondamentali dei cittadini".
L'inviato dell'OSCE Heikki Talvitie ha incontrato tutti i principali rappresentanti delle istituzioni e dell'opposizione. Al termine degli incontri Talvitie ha espresso la speranza "che la situazione non precipiti ulteriormente e che al più presto le parti riprendano il dialogo".
Nel frattempo il parlamento armeno ha ratificato lo stato di emergenza proclamato dal presidente Kocaryan. Il provvedimento prevede anche forti restrizioni per giornali e televisioni, che fino al 20 marzo saranno tenuti a divulgare solamente i comunicati ufficiali.
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