Il turco “Song of My Mother – Klama dayika min” di Erol Mintas e il georgiano “Brides – Patardzlebi” di Tinatin Kajrishvili si sono spartiti i premi principali el 20° Sarajevo Film Festival chiusosi sabato. Una rassegna
La giuria presieduta dal grande cineasta ungherese Bela Tarr ha assegnato alla pellicola turca “Song of My Mother – Klama dayika min” di Erol Mintas, un’opera di debutto presentata in prima mondiale, l’Heart of Sarajevo come miglior film e il premio di miglior attore per Feyyaz Duman. Al film “Brides – Patardzlebi” della regista caucasica i Tinatin Kajrishvili il premio speciale della giuria e il riconoscimento di miglior interprete femminile a Mari Kitia.
E' la conferma per le due cinematografie al momento più interessanti e vitali per l’area del sudest Europa e non solo. Se la Turchia è una realtà consolidata da anni, e l’Orso d’oro di “Bal” e la recente Palma d’oro di “Winter Sleep” lo confermano, la Georgia, che pur non manca di tradizioni gloriose, è una piccola potenza emergente. Lo scorso anno si sono segnalati “A Fold in My Blanket” di Zaza Rusadze e, soprattutto, “In Bloom” di Nana Ekvtimishvili e Simon Gross. Quest’anno anche l’ottimo “Blind Dates” di Levan Koguashvili vincitore di vari premi (tra i quali il Festival di Lecce) e presentato a Sarajevo nella sezione “In Focus” e il nuovo “I am Beso – Me var Beso” di Lasha Tskvitinidze, in concorso a Sarajevo e rimasto senza premi.
Intimità e questione curda
In “Song Of My Mother” torna la questione curda, ma con un approccio intimo più che politico. Nel prologo siamo nei primi anni ’90 e un maestro curdo viene arrestato nella scuola di un villaggio durante una lezione. Ai giorni nostri, l’insegnante e scrittore curdo Ali, fratello dell’altro, vive a Istanbul con l’anziana madre (molto intensa anche l’interpretazione di Zubeyde Rohani). La donna sogna di tornare al villaggio dal quale è scappata vent’anni prima: “Stanno tornando tutti” afferma e il figlio non riesce a convincerla del contrario.
L’anziana vuole riascoltare una vecchia canzone popolare di dengbej, costringendo il figlio a un’infruttuosa ricerca. Tra la nuova vita (Ali ha una fidanzata con la quale parla turco) e il passato, un dolore che non passa e il fratello fuggito all’estero da contattare via internet. Un film di silenzi, di sguardi, di comprensione, di spostamenti in moto nelle trafficate strade di Istanbul. Madre e figlio si ritroveranno insieme sul divano a ridere guardando un film di Charlie Chaplin in tv.
Meno riuscito l’altro turco in gara, “The Lamb – Kuzu” di Kutluğ Ataman, protagonista il ragazzino Mert soprannominato da tutti “agnello”, che aspetta la festa per la circoncisione ma teme di essere il sacrificato. Una storia di miseria nell’Anatolia orientale con tanti riferimenti biblici e mitologici ma il film è un po’ pasticciato.
La Georgia e il carcere
Bello anche “Brides” dell’esordiente Tinatin Kajrishvili, presentato già a Berlino nella sezione Forum. Una storia d’amore tra la bella sarta Nutsa (Mari Kitia) e Goga, separati perché l’uomo ha sette anni da scontare. Un problema sociale molto sentito in Georgia: in “In Bloom” di Nana Ekvtimishvili e Simon Gross una delle protagoniste aveva il padre carcerato e in “Blind Dates” uno dei personaggi esce di prigione.
Lunghe pene per piccoli reati, che in “Brides” non sono neanche nominati, non conta sapere perché queste persone sono rinchiuse. La regista ha un tocco misurato nel raccontare le umiliazioni degli sbrigativi matrimoni in carcere o le estenuanti perquisizioni ai familiari prima di essere ammessi alle visite. “Patriottismo” di Yukio Mishima, con il doppio suicidio di marito e moglie, è spesso citato da Goga ed è forse presagio di destini. Un film intenso, un ritratto di donna caparbia e dolce in una società ostica.
Kosovo e Goli Otok
Niente premi al bel kosovaro “Three Windows And A Hanging” di Isa Qosja, film dall’impianto molto classico ma efficace nel mettere in discussione il maschilismo della società. Siamo in un villaggio pochi anni dopo la guerra del ’99. La maestra Lushe confessa a una giornalista straniera di essere stata violentata da soldati serbi insieme ad altre tre compaesane. La reazione del capovillaggio Uka e degli altri uomini, che nell’unico bar hanno il punto di ritrovo, è di nascondere e negare e accusare la donna, che vive da sola con il figlio Beni, di coprire di vergogna la comunità. Perso il lavoro, la donna non si perde d’animo e lotta contro la chiusura mentale, mentre un’altra vittima degli stupri non ce la fa a sopportare la pressione.
Curioso ma ancora un po’ immaturo l’esordio georgiano “I am Beso – Me var Beso” del giovanissimo Lasha Tskvitinidze. La vita, tra giochi, scuola, bullismo e primo amore, di un quattordicenne di campagna, Beso, che sogna di fare il cantante rapper e si racconta nella canzone che dà il titolo al film.
Ben tre premi onorari assegnati dal Festival: al regista di casa Danis Tanović, all’attore messicano Gael Garcia Bernal e ad Agnès B., designer e creatrice di moda che lo scorso anno ha debuttato con il lungometraggio “Je m’appelle hmmm…”.
Tra i documentari vittoria meritata per il croato “Goli – Naked Island” della croata Tiha Klara Gudac. Un lavoro personale, intenso, universale e molto toccante, partendo dalla storia del nonno, deportato a Goli Otok per quattro anni nel 1950 quando era dirigente di una fabbrica. Una ricostruzione della tragedia delle deportazioni dal punto di vista delle vittime e dei loro familiari.
Non si parla mai dei colpevoli, se non per un minimo inquadramento di storia jugoslava, né di carcerieri. “Mentre facevo il film mi accorgevo che non era più importante questo aspetto” ha spiegato la regista. L’autrice ha cercato di capire ciò che lei e la sorella non hanno mai potuto chiedere, in famiglia era proibito parlarne, delle cicatrici che aveva il nonno non si poteva chiedere, ma quei fatti, quella detenzione hanno condizionato la vita di tutta la famiglia.
Un documentario realizzato mettendo insieme i ricordi d’infanzia e interviste con madre, padre, sorella, nonna e “zii”, i tre amici dei nonni anche loro con un’esperienza sull’isola calva. Oltre alla ricerca e al progressivo svelamento della profondità della tragedia, funziona l’interazione con la madre sul senso del realizzare un film (hanno affrontato il tema al cinema solo Emir Kusturica con “Papà è in viaggio d’affari” e pochi altri) e l’universalità del racconto.
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