Un ricordo lucido e intenso dell’inizio dell’assedio di Sarajevo, gli amici che diventano nemici e gli amici che abbandonano la città. L’incredulità di fronte al tragico accadere della guerra
Da quando ho letto che, vent’anni fa, anche il generale bosniaco Jovan Divjak non credeva che sarebbe scoppiata la guerra a Sarajevo, mi sento meno idiota. Anch’io, come il generale, non prendevo sul serio i chiari segnali premonitori, le situazioni inconfondibili. Non ci credevo, o non volevo crederci. Persino il giorno dopo il primo attacco su Sarajevo, tra il cinque e il sei aprile 1992, continuavo a dubitare. E così come me molti vicini, amici, colleghi, familiari.
Attaccarono Sarajevo la notte del cinque aprile 1992 con l’intenzione di dividere la città in due. Per tutta la notte ci bombardarono pesantemente, su di noi si abbatté una fitta pioggia di proiettili che andavano a colpire i sottili muri dei palazzi moderni, udivamo gli assalitori che si urlavano tra di loro secchi ordini: “Di qua”, “là”, “avanti”, “indietro”.
Il sei aprile ci svegliammo, si fa per dire, e ci trovammo spontaneamente con i vicini davanti al palazzo. Alcuni erano ancora in ciabatte, altri indossavano il pigiama che si intravedeva da sotto il giaccone, le donne in vestaglia, spettinate, tutti con le borse sotto gli occhi. Il sentimento comune era “Ma come si permettono?”
Ci domandavamo a quali armi appartenessero le cartucce vuote delle pallottole sparpagliate intorno al palazzo. Erano così tante da formare un tappeto color grigio-marrone, brutto, ancora più sgraziato là verso il fiume dove andava a toccare l’erba giovane color verde tenero, puntellata di primule variopinte. Ci si chiedeva a vicenda: “Hai visto?” “Hai sentito quell’esplosione verso le due stanotte?”, prendevamo le cartucce da terra, le esaminavamo, i veterani della Seconda guerra mondiale, più esperti, le giravano in mano, scuotevano la testa.
La conversazione finì con “Sono stati i papci”, cioè i vigliacchi, oppure i malavitosi, e che bisognava trovarli e punirli, ristabilire l’ordine e poi continuare come sempre. Così, dopo circa un’ora dall’incontro, ognuno era tornato a fare quello che di solito faceva in un soleggiato sabato d’aprile: mamma a fare la spesa, papà nel suo bar a bere il caffè e a leggere il giornale, io in centro a trovare gli amici.
Nei successivi giorni di aprile si alternarono gli attacchi, più frequenti durante la notte, con sporadici spari durante il giorno. In città arrivarono i primi giornalisti stranieri. Non meno confusi di noi, giravano in gruppo, cercando i fatti, la guerra. Uno mi aveva telefonato, chiedendomi di fargli da guida. In tre erano arrivati da Belgrado con una macchina presa a noleggio.
Per la città si passava con difficoltà. Era evidente la confusione della gente e che le autorità non avevano più il controllo della situazione. Ovunque c’erano posti di blocco e barricate che venivano erette da chiunque volesse. Talvolta erano i vicini del condominio o gli abitanti di una via che, in questo modo, cercavano di proteggersi. Nei palazzi furono stabilite nuove regole, il portone si chiudeva a chiave e i vicini si alternavano a fare la guardia notturna. Si tiravano via dalle porte e dalle cassette della posta le targhette con i nomi, non volevamo essere identificati, essere divisi, volevamo rimanere uniti e insieme difendere la casa e la città.
Le barricate spesso erano fatte da gruppi di giovani. A una di queste ci fermarono. Erano degli adolescenti, alcuni armati con vecchi fucili, altri con bastoni. Maneggiavano i fucili in modo non curante, senza rendersi conto del tipo di giocattolo che tenevano tra le mani. Poi, vedo che si passano una bottiglia di grappa. Ma questi qua stanno giocando alla guerra, ho pensato. Ci chiesero i documenti.
Non ero spaventata, non per eroismo, ma per ignoranza. Ero piuttosto arrabbiata con loro, perché mi mettevano in imbarazzo davanti ai colleghi giornalisti. “Che razza di figuraccia stiamo facendo davanti agli stranieri?”, mi chiedevo arrabbiata. Era l’immagine del mio Paese che mi preoccupava, non il pericolo immediato. Ci avevano ordinato di scendere dalla macchina. E a quel punto ho capito: vogliono rubarcela. La Tv di Sarajevo aveva già riportato notizie su alcuni malviventi che approfittavano della situazione per rubare quello che potevano. I tre giornalisti confusi e preoccupati guardavano a volte me e a volte quei giovani armati che ci impartivano ordini. Non capivano la lingua, non sapevano perché eravamo stati fermati, né che cosa stava succedendo. Dissi loro di stare seduti e di non lasciare la macchina. Uscii io a parlare con quelli che ci avevano fermato.
Per una quindicina di minuti abbiamo discusso, anzi litigato. Insistevano che scendessimo dall’auto. Infine arrivammo a un accordo, saremmo andati tutti insieme verso un ufficio, una sorta di comando. Alcuni giovani entrarono in auto, e ci ritrovammo in dieci all’interno di un abitacolo per quattro, altri si sedettero sul cofano davanti, o dietro o sul tetto. Guidando a passo di lumaca siamo arrivati al comando. Là un gruppetto di vecchi, mi pareva che anche quelli stessero giocando alla guerra, si passavano di mano in mano una bottiglia di grappa. Ci chiedono chiarimenti, fanno domande stupide, alla fine si mettono a dare pacche sulle spalle ai giornalisti, qualcuno alza le dita della mano facendo il segno di vittoria, uno balbetta in inglese: “Amici, amici”, e poi un altro spara la domanda cruciale: “Ce l’hai una sigaretta?”
Come giornalista mi sentivo in dovere di far conoscere ai colleghi stranieri anche l’altra parte della storia, cioè le ragioni di quelli che ci attaccavano. Li portai a Ilijaš, un sobborgo di Sarajevo. Là erano i serbi a controllare, il comandante era un mio amico. Almeno lo era fino al giorno prima. Li presento. Osservavo che l’amico, un ingegnere senza una carriera particolarmente di successo, indossava già l’uniforme, ma non quella dell’Armata Jugoslava, ma quella dei serbi durante la Prima guerra mondiale. Scambiai con lui alcune parole, tentai di spiegargli la difficile situazione a Sarajevo, ma lui tagliò corto dicendo: “Lo so benissimo, ogni mattina parlo direttamente con Belgrado”.
Non volevo che la mia presenza condizionasse le risposte dell’amico-comandante e lo lasciai da solo con i giornalisti. Dopo circa un’ora, i giornalisti stranieri uscirono dall’ufficio del comandante: avevano le facce stravolte, come se avessero appena finito il giro su una giostra e non si sentissero bene. Uno mi domandò: “È veramente tuo amico?” “Sì”, ho detto senza capire perché questa domanda. Seguì una breve pausa di silenzio, e infine uno mi disse: “È un nazionalista della peggior specie. Vi sterminerà tutti”.
I bombardamenti si fecero sempre più forti, gli spari durante il giorno più frequenti, gli aerei militari volavano a bassa quota rompendo il muro del suono. Cercavano di spaventarci. Nei negozi di generi alimentari presto non c’era più niente da comprare, quello che non era stato venduto veniva saccheggiato. Nei mercati di frutta e verdura l’offerta scarseggiava.
Il tempo era - per ironia - bellissimo, da anni non si vedeva un aprile così bello e caldo a Sarajevo come nel 1992. Invece di passeggiare e goderci la primavera, restavamo sempre di più chiusi in casa, e anche chiusi in noi stessi, in silenzio, inquieti. Per paura non pronunciavamo ad alta voce quello che era chiaro: che c’era la guerra.
Anche a casa nostra l’unico argomento che ci interessava, non si toccava. Ci pensavamo, certamente, ma non parlavamo dei nostri tormenti. Per paura, scaramanzia, sperando che non fosse vero e che sarebbe passato presto, che i nostri sospetti erano infondati.
In assenza di notizie e di chiarimenti ufficiali circolavano voci, si spargevano dicerie, e quello che il giorno prima sembrava improbabile, il giorno dopo fu confermato dalla TV. I cetnici, i nazionalisti serbi, erano nelle caserme della JNA intorno a Sarajevo.
Cresceva il numero delle persone che fuggivano da Sarajevo. Le linee ferroviarie erano già da qualche tempo interrotte. La gente scappava in macchina, a piedi, in autobus. Venivo a sapere che Mladen se n’era andato, che Emir aveva mandato al sicuro la moglie e i bambini, che Milena aveva telefonato da Belgrado, che Snježana con tutta la famiglia era andata dai cugini in Montenegro, “per alcuni giorni finché le cose non si sistemano” ci aveva detto il vicino Vlatko, e ci aveva lasciato le chiavi del suo appartamento dicendo “il frigorifero è pieno di cibarie e se vi serve …”.
Era già la fine di aprile, dovevo tornare a Belgrado, le ferie che avevo preso “giusto il tempo che la situazione tornasse alla normalità, una volta chiarito il malinteso” erano terminate. L’aeroporto era sotto il controllo dei serbi, atterravano solo gli aerei speciali. Nella zona non ci si poteva neanche avvicinare, già a circa cinque chilometri di distanza c’era tantissima gente disperata che cercava di fuggire. Famiglie al completo si accampavano giorno e notte con la speranza di imbarcarsi, la destinazione non importava, l’unica cosa che volevano era lasciare Sarajevo che si faceva sempre più pericolosa. Quella massa premeva sul cordone dei militari serbi che proteggevano la pista.
Avevo la tessera della radio e TV di Belgrado, cioè serba. Mi aiutò a ottenere un posto nell’aereo, un boeing speciale vuoto senza sedili, detto Kikas, dal nome di un patriota croato che l’aveva acquistato e mandato in Croazia, ma pieno di armi. Fu sequestrato dalla JNA e veniva usato per trasportare i civili in fuga.
Ci caricarono su un autobus nel centro della città, dopo aver controllato bene i nostri documenti. Scortato dalla polizia, l’autobus era diretto verso l’aeroporto. Ci fermavano spesso, l’autista faceva vedere il permesso e ci lasciavano passare. Vicino all’aeroporto l’autobus fu inghiottito da quella massa di gente in fuga. Non potevamo muoverci. Eravamo fermi e circondati. La tensione era altissima, tra di noi dentro e tra la gente che premeva da fuori. Cercavano di entrare perché l’autobus era l’unico modo per raggiungere l’aeroporto, la via di uscita. Tanti urlavano, ci minacciavano, alcuni davano colpi all’autobus, alcuni si aggrappavano con le mani al bordo dei finestrini, c’erano delle madri che alzavano i bambini verso i finestrini supplicandoci di lasciare entrare almeno i più piccoli. Nell’autobus qualcuno piangeva, altri erano spaventati e si coprivano gli occhi con le mani per non vedere quelle scene, altri si piegavano sotto i finestrini per nascondersi dagli sguardi di quei disperati o per proteggersi. Sembrava di vivere una di quelle scene di fuga dalla città vietnamita Saigon, prima dell’attacco finale alla città, durante la guerra in Vietnam, che avevo visto in vari documentari.
Infine l’autobus entrò direttamente sulla pista e si fermò davanti alle scalette dell’aereo. Ancora sotto choc per quello che avevamo visto, scendevamo velocemente e di corsa entravano nell’aereo. Dietro di me c’era una donna incinta, per gentilezza mi feci da parte, lasciandola entrare per prima. Poi toccava a me. Ma uno che controllava l’entrata mi fermò con la mano: “Siamo al completo, non c’è più posto”. Non ci credevo, iniziai a protestare. L’aereo era un boeing grande e mi pareva impossibile che non ci fosse più posto per una persona. Mostrai la mia tessera di giornalista. Il tizio mi fece guardare dentro: l’aereo era strapieno, tutti accalcati, schiacciati come sardine in scatola, seduti per terra, nel bagno c’erano tre persone e un bambino era seduto sul lavandino, non c’era più posto neanche per un ago.
Mi arresi.
Lasciai Sarajevo quella stessa sera, tardi, con un piccolo aereo militare che aveva portato da Belgrado dei medicinali. Nel velivolo fragile che dondolava, si udivano le esplosioni e gli spari provenienti dalla città. Quel rumore sarebbe rimbombato nelle mie orecchie per i quattro anni successivi, 1427 giorni di assedio a Sarajevo, il più lungo nella storia moderna d’Europa.
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