Sarajevo, le proteste (Foto Stefano Giantin)

Sarajevo, le proteste (Foto Stefano Giantin )

Dopo una falsa partenza, venerdì si è tenuto anche a Sarajevo il primo Plenum civico convocato dopo le proteste dei giorni scorsi. Tra democrazia diretta e voglia di organizzazione, la speranza del cambiamento dei cittadini della Bosnia Erzegovina

17/02/2014 -  Andrea De Noni Sarajevo

Tuzla, Mostar, Bihać, Bugojno. E Sarajevo. I cittadini formano assemblee popolari, nelle quali a tutti è riconosciuto diritto di parola per esprimere la propria opinione sull'attuale crisi del paese, e ciascuno dei partecipanti vota sui mezzi migliori per superarla. Piccoli laboratori di democrazia diretta che, se da un lato appaiono ancora fragili e provvisori, d'altra parte cominciano a ottenere risultati concreti: a Tuzla, il plenum locale ha ottenuto che l'assemblea cantonale votasse per abrogare le leggi sul cosiddetto 'bijeli hljeb', il pane bianco, ovvero il beneficio riconosciuto ai ministri che cessano dal loro incarico di continuare a percepire il salario per la durata di un anno.

A Sarajevo c'è tanta voglia di partecipare. La prima riunione, mercoledì, convocata nel campus dell'Università di Sarajevo, era stata annullata e precipitosamente rimandata a causa della mancanza di spazio e della scarsa organizzazione. Venerdì s'è scelto - pur dopo molto tergiversare - di tenere l'assemblea al Dom Mladih, la casa della gioventù del quartiere di Skenderija. L'appuntamento è fissato per le cinque e mezza, ma già un'ora prima del convenuto ci sono svariate decine di persone che, sotto la pioggia, attendono impazientemente di potere entrare. Un capannello di persone, evidentemente conosciutesi sul momento, discute animatamente dei propri problemi e di cosa non va, in questa Bosnia Erzegovina in crisi perenne. "Sono pensionato, è vero, e un piccolo salario ce l'ho", sembra quasi giustificarsi un anziano, che cerca di infilarsi nella discussione. "Ma sono qui perché penso a chi non ha nulla, a chi non sa come mangiare, e poi a questi giovani, per i quali è impossibile ormai trovare un lavoro". "Certo non è stato così per la figlia di Ejup Ganić [Emina Ganić, nata nel 1982, diplomata ad Oxford, ha lavorato per il Consiglio d'Europa]. Per chi ha i soldi è tutto più facile", continua un altro, "soprattutto per i figli dei politici".

Poco distante, c'è Izet, un ex combattente dell'Armija. E' uno dei pochi ad aver portato un cartellone. Per la maggior parte, qui, c'è gente che è venuta a parlare, a esprimersi. Non tanto a manifestare: per quello, l'occasione c'è già stata a mezzogiorno, davanti al palazzo della presidenza, e ci sarà anche nei prossimi giorni, dal momento che i manifestanti non sembrano avere intenzione di mollare la presa. Izet ha un grande cartello giallo, che regge con mani che tremano ininterrottamente. "Anche io sono un narcotrafficante, un hooligan, un vandalo", si legge. "Mia moglie è malata, da più di due anni ha bisogno di cure mediche", dice Izet, "non so proprio cosa fare. La pensione di ex combattente è scarsissima, e lavoro non se ne trova". Poco a poco, anche l'ex soldato si lascia coinvolgere dalla discussione, parla con le persone che ha accanto, s'infervora, solo a tratti lasciando trasparire la rassegnazione, la disillusione di chi da vent'anni aspetta inutilmente un cambiamento.

Ogni opinione è importante

Forse è questo il primo, il più importante lato positivo di questi dieci giorni di proteste in Bosnia Erzegovina. Vedere cittadini riscoprirsi solidali, uniti nel bisogno. È già una prima timida risposta, un passo in avanti rispetto alle prime proteste, nelle quali la folla era un insieme di singoli senza una vera identità, senza rivendicazioni comuni. Ora invece si avverte un bisogno di un'organizzazione. Di darsi degli obiettivi. Mercoledì, durante la breve discussione del primo plenum, sempre un ex combattente aveva preso la parola per richiedere "che questa assemblea, qui, immediatamente, elegga un comitato direttivo, un presidente, e che si autoproclami governo cantonale provvisorio".

Esiste, ed è palpabile, la necessità di creare un meccanismo, un insieme di regole condivise come condizione per non disperdere la partecipazione che si è creata nell'ultima settimana. C'è bisogno di ordine. Poco prima di farci entrare nell'aula del Dom Mladih, gli attivisti che si sono occupati dell'organizzazione passano tra le persone, distribuiscono volantini con le regole per una sana discussione nel corso dell'assemblea. "Non sarà come l'ultima volta, vero?", chiede una donna, ansiosamente, alla ragazza che le consegna un foglio (sul braccio, come altre decine di suoi compagni, ha una fascia arancione, per marcare il fatto di appartenere all'organizzazione). "Questa volta sarà più facile parlare, giusto? Ci darete il microfono con un ordine ben stabilito? Ci sarà abbastanza spazio per sederci, per partecipare tutti?".

In effetti, una volta entrati nel plenum ci si rende immediatamente conto che chi ha gestito l'avvenimento ha preso le adeguate contromisure per evitare che si ripetessero le scene caotiche di mercoledì scorso, quando in molti erano stati costretti fuori dalla sala ed era stato impossibile garantire un dibattito ordinato. Lo spazio può ospitare qualche centinaio di persone, sono state disposte ordinatamente delle sedie, per parlare occorre segnarsi su una lista e attendere, con pazienza, il proprio turno. Tra i presenti, circa 400 persone, c'è gente di ogni estrazione sociale e di tutte le età. Rispetto a quando l'assemblea era stata organizzata nell'area universitaria sarajevese, la presenza di giovani e di studenti si è notevolmente ridimensionata. Nel pubblico si notano soprattutto facce adulte, persone di mezza età. Molti sono anche i disoccupati. I reporter e le telecamere presenti vengono fatti allontanare, costretti a restarsene in disparte e ad assistere lontani dai microfoni, tra gli applausi generali. Negli ultimi giorni, tra i sarajevesi, è infatti aumentata la diffidenza nei confronti dei giornalisti e dei media, colpevoli di avere riportato troppe notizie inesatte, troppe falsità sulla protesta e sulla manifestazione - tanto che il portale Istinomjer  si è occupato di citarle tutte, una dopo l'altra, chiedendosi: "Ma i media sono venuti alla nostra stessa manifestazione?"

Le fabbriche ai lavoratori

Il discorso di apertura dei lavori è affidato a Nermin Tulić, famoso attore della capitale. Tulić ha il compito, una volta di più, di ricordare le regole. Perché il pericolo della confusione, e del populismo fine a se stesso, è sempre dietro l'angolo. "Qui parliamo solo dei problemi del Kanton Sarajevo, qui facciamo le nostre richieste al governo del cantone, e basta", sottolinea Tulić, per evitare che la discussione travalichi i propri confini, che i partecipanti possano prendersela con la Federacija, con il governo centrale, con Milorad Dodik o chicchessia. "Le persone che hanno organizzato questo plenum rappresentano soltanto se stesse, siamo qui tutti come cittadini, e come cittadini ogni nostra opinione è importante, ogni idea conta".

Nell'ora che segue, per un limite di due minuti a testa (che, però, viene infranto regolarmente), la parola viene data ai membri del plenum. Alcune richieste sembrano tornare più di altre, per esempio quella, che verrà poi approvata tra le conclusioni del plenum , di creare un governo tecnico che possa coprire la restante durata della legislatura, fino a nuove elezioni. Le critiche alle 'lopovizacije', le 'ladrizzazioni', quelle privatizzazioni criminali che andrebbero, secondo i desiderata dei manifestanti, "invertite", annullate: "Le fabbriche devono tornare ai lavoratori". La fine degli accordi con il Fondo monetario internazionale. La domanda di creare fondi speciali a favore delle categorie più svantaggiate, come giovani, disoccupati, pensionati. La riduzione degli stipendi pubblici. Nell'euforia generale non mancano momenti di populismo piuttosto giacobino, come quando durante un intervento si chiede a gran voce "l'istituzione di una commissione d'inchiesta, che compili la lista delle novanta persone più ricche della Bosnia Erzegovina"; né, a dire il vero, dichiarazioni di una grossolanità quasi surreale, come quando - tra gli ultimi a prendere la parola - un cittadino lamenta "i quattrocento milioni di marchi (!) che a settimana le banche fanno sparire dal paese per inviarli all'estero".

La scommessa dei plenum

Se è inevitabile che essa travalichi facilmente il limite del buon senso, degenerando nell'immagine della "casalinga che gestisce il governo di un paese" a suo tempo così cara all'iconografia del bolscevismo russo, è anche vero che l'euforia generata da queste assemblee plenarie è indubbiamente l'aspetto più positivo emerso dalle cronache bosniache degli ultimi giorni. Sembra infatti evidente che i cittadini di Sarajevo, così come delle altre città bosniache, stiano riscoprendo il piacere della politica, il senso di riappropriarsi dei propri diritti. La repubblica appartiene al popolo, è il messaggio che danno questi plenum (a volte richiamando inevitabilmente il nostalgico e mitologico passato comunista: un'ovazione ha accolto l'unico intervento, quello di una ragazza, che si è aperto con 'drugari i drugarice', compagni e compagne). Il comitato organizzatore, attivisti di ONG e di portali di iniziativa civica come Puls demokratije , ci tengono a sottolineare che il loro ruolo è quello di semplici cittadini. "Sono qui per la gente", si scusa Svjetlana, una delle ragazze che hanno organizzato il plenum, "non posso proprio rispondere all'intervista". E lo dice, in fondo, come se intendesse dire: se vuoi intervistare qualcuno, chiedi ai partecipanti, parla con i presenti, sono loro i protagonisti.

C'è tanto di positivo, in questi esperimenti che sembrano nascere un po' ovunque nelle principali città bosniache. Il rischio è però che queste assemblee si limitino a parlare a se stesse. Che gli stessi cittadini che partecipano, in fondo, lo facciano per sentirsi meno soli, per vedere accolte le proprie rivendicazioni dagli applausi entusiastici degli astanti. Di fronte allo spettacolo dei plenum, c'è chi ha parlato, non senza un fondo di verità, di "una grande catarsi collettiva", di un esercizio fine a se stesso. La protesta, in Bosnia Erzegovina, può continuare - e ottenere dei risultati duraturi - a patto che queste assemblee riescano a organizzarsi, a porsi come interlocutori credibili, e a dialogare con le istituzioni per spingerle al cambiamento. L'esempio di Tuzla, e forse non è troppo naif sottolinearlo, mostra che in fondo è possibile.


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