Şener Levent

Şener Levent

Direttore del quotidiano “Africa”, Şener Levent è una delle voci più scomode di Cipro nord. Da sempre aperto al dialogo con i greco-ciprioti, sostenitore della prospettiva europea, ha definito senza mezzi termini la presenza militare turca “una forza di occupazione”. Per le sue idee ha subito il carcere e, soltanto l'anno scorso, due tentativi di omicidio. Gli abbiamo chiesto cosa pensa dell'attuale situazione sull'isola

04/05/2012 -  Francesco Martino Nicosia

Vede la possibilità di uno progresso nei colloqui tra greco-ciprioti e turco-ciprioti?

No, secondo me non esiste alcuna possibilità di un accordo a breve termine. Nonostante si faccia un gran parlare dei negoziati tra le parti qui a Cipro, la chiave per comprendere questo conflitto restano gli interessi delle grandi potenze nell'area, soprattutto Stati Uniti e Gran Bretagna. E' una realtà scomoda, di cui pochi analisti internazionali amano parlare. Quasi nessuno, ad esempio, ricorda la presenza di due grandi basi britanniche sull'isola. Se ci fosse una volontà reale di raggiungere un compromesso, questo sarebbe a portata di mano. Ma in fondo, a chi conta a livello mondiale la situazione sta bene così com'è. Altrimenti non si spiegherebbe perché, mentre in tutta Europa i muri sono crollati, a Cipro tutto resta congelato.

Il ritrovamento di gas a largo di Cipro può cambiare le carte in tavola?

Certo, già l'ha fatto. Non a caso oggi la Repubblica di Cipro e Israele, che hanno sempre avuto rapporti freddi, collaborano e si sostengono. Che tipo di effetti avrà questa ricchezza sottomarina sul destino di Cipro, però, resta da vedere.

Ritiene che il “piano B”, di cui ha recentemente scritto la stampa turca, abbia basi reali?

La Turchia non accetta la presidenza cipriota dell'UE. Ecco perché in questi mesi sta lanciando una serie di messaggi per indebolire la posizione di Nicosia. Il cosiddetto “piano B”, che strizza l'occhio ad una possibile annessione, va letto in questo contesto.

Come sbloccare la situazione?

La nostra linea è questa: i turco-ciprioti devono tornare nel parlamento di Nicosia, riprendere possesso dei seggi che ci vengono assicurati dalla costituzione del 1960, che è ancora ufficialmente in vigore. In ciprioti, greci e turchi, devono decidere da soli l'assetto istituzionale. Se riuscissimo a trovare un accordo, il volere delle potenze non avrebbe più peso determinante.

L'Unione europea può ancora giocare un ruolo positivo a Cipro?

Sì, ma non credo che ne abbia la volontà. All'Europa importa poco di quanto succede a Cipro, e soprattutto di quanto succede nella parte nord. Non c'è alcuna pressione su Ankara perché intraprenda passi costruttivi, come ad esempio la restituzione ai proprietari [soprattutto greco-ciprioti] delle proprietà della città di Varosha, abbandonata durante il conflitto del 1974. Qui al nord viviamo in una situazione paradossale: formalmente viviamo all'interno dello spazio comunitario, e siamo cittadini dell'UE. Nella realtà dei fatti, però, il nostro è un limbo dove tutte le regole europee sono sospese.

Perché il vostro quotidiano si chiama “Africa”?

Il giornale, edito dal 1997, in origine si chiamava proprio “Avrupa”, e cioè “Europa”. Nel 2001, però, le autorità militari turche ci hanno fatto chiudere, perché siamo gli unici a parlare apertamente di “occupazione”. Io sono poi stato accusato di spionaggio a favore dei greci e ho passato vari mesi in carcere. Quando abbiamo chiesto l'autorizzazione a riprendere le pubblicazioni come “Nuova Europa”, ci è stato negato. Allora abbiamo scelto il nome “Africa”. Perché i turchi ciprioti oggi non vanno più un direzione del Vecchio continente, ma del Continente nero.

Questa intervista è stata realizzata all'interno di una visita a Cipro organizzata dall'Associazione dei Giornalisti Europei (Association of European Journalists - AEJ)


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