Dalle Alpi dinariche alla Tortuga dell'occidente. Un viaggio nel cuore dell'Europa. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
In piena notte al limitare del bosco l’oscurità è quasi completa, brillano solo una miriade di lucciole e, più lontano, due lampadine tremolanti attaccate a un ramo. Stretta nel cono di luce, una piccola selva di lattine per lo più vuote sta in piedi precaria su un tavolo storto, mentre una bottiglia di rakija passa rapidamente di mano in mano. Intorno, le masse scure di un gruppo di commensali che ride e – chi ce l’ha – fa tintinnare i bicchieri.
Quando il vociare si abbassa ci si ricorda del torrente che, superata un’enorme gola nelle Alpi Dinariche, si avvia gorgogliando verso la piana del Kosovo. Da quella direzione, di tanto in tanto, il gestore riappare dalle tenebre brandendo delle bottiglie appannate. Le apre, le mette sul tavolo senza proferire parola, accenna a un brindisi alzando le sopracciglia prima di incominciare la sua. È un kosovaro dalla faccia triste, anche quando sorride, con il suo liso cappello da baseball, la canottiera e il volto arrossato, scavato dalle rughe. Sua moglie, macedone, è una donna molto più dinamica, dalla risata energica. Ridendo, racconta in serbo-croato la sua storia. Una storia che finisce in sospeso come l’autorizzazione per il loro chiosco, perché i politici che glielo avevano promesso, intascato il voto, si sono rimangiati la parola. Per fortuna che il terreno appartiene al monastero ortodosso poco lontano, protetto ventiquattr’ore su ventiquattro da una pattuglia della polizia, e le sorelle gli hanno dato un permesso informale. La rakija la distillano loro, dalle prugne che il sole spacca e scolorisce come fa il tempo alle facce dei santi, negli affreschi bizantini sotto cui pregano ogni santo giorno.
Al tavolo siede un’estemporanea riunione che rappresenta per caso quasi tutti i Balcani, bulgari, serbi, albanesi di Kosovo, Macedonia e Albania, croati, montenegrini.
C’è anche un cane che sonnecchia sotto una sedia.
“Non è di qui, altrimenti sarebbe più aggressivo”, dice il gestore.
Ho imparato da tempo ad apprezzare l’amaro umorismo balcanico, ostentato con un certo orgoglio soprattutto davanti a un occidentale. Il gioco continua. Viene fuori che il cane è croato, e quindi “è civilizzato”, “ha il passaporto europeo”. A lui non serve il visto. Comunque, continua il kosovaro, “i cani più grossi sono i politici. Da noi sono enormi, modestamente. Questo qui deve essere venuto a imparare, avrà vinto una borsa di studio”.
Alpi Dinariche
Le Alpi Dinariche tutto intorno, di giorno, si innalzano poderose e selvagge, con picchi calcarei ammantati di boschi, popolati da linci e orsi. L’isolamento, il sottosviluppo, l’emigrazione e la guerra hanno consegnato al ventunesimo secolo una montagna di un’altra epoca, dove i pastori passano l’estate all’alpeggio proprio come i loro antenati, dormendo in capanne, mungendo le vacche a una a una dentro secchi di legno. Poche strade sterrate che si perdono in infiniti versanti e nei brulli pianori, dirette a qualche cimitero solitario di montagna, riconoscibile da una bandiera albanese con l’aquila sfilacciata. All’orizzonte, screziate di neve, le vette dell’Albania sembrano vicinissime nell’aria limpida.
Nelle cittadine a valle è tutto il contrario, il Kosovo ribolle: innumerevoli bambini che si affacciano alle finestre di case tirate su con le rimesse della diaspora e mai finite, che urlano, irrompono nelle strade rubando la scena ai taxi, alle BMW tirate a lucido a e alle più modeste Fiat da lavoro; si fanno spazio tra ragazzi attaccati allo smartphone e anziane velate che ondeggiano sotto il carico di buste stracolme, fanno lo slalom tra abiti da sposa colorati montati addosso a manichini truccati, tra zingari, negozi di frutta secca tostata e cani randagi. Hanno imparato l’inglese dai soldati americani e se la ridono, d’estate, con i loro cugini che vivono in Germania o in Norvegia e tornano per le vacanze, fanno amicizia con gli stranieri.
Capitale
Pristina è ancora diversa. Ad arrivarci in un pomeriggio piovoso, si ricava l’impressione di essere finiti in un groviglio indistricabile e grigio da cui uscire sarà difficile, con le strade piegate in imprevedibili saliscendi tra cemento, capannoni e cortili, curve a gomito e ripetitori, e un’atmosfera pesante che è in parte una nuvola di smog e in parte una condizione psicologica. Ma come accade spesso, non bisogna fidarsi delle prime impressioni – basta perdercisi per pochi minuti e si scopre ben presto un’aria familiare e giocosa.
Nelle verande dei bar si ascolta musica pop mentre i camerieri portano una dopo l’altra tazze di espresso; l’inglese è buono, il tedesco è diffuso, e larghi sorrisi accompagnano la notizia che siete italiani. Nelle vie del centro è il consueto caos di fruttivendoli e macellerie, ma il grosso della vita in città ruota intorno agli occidentali. Una notte, per arrivare a una festa di expats – giovani che lavorano per le ambasciate, all’Eulex, negli aiuti umanitari o nelle scuole di inglese – devo chiedere a un vigilante americano, poi a un bambino che mi fa infilare in un portone senza numero di una strada senza nome, e poi in un androne sospetto, fino a una porta socchiusa. Mi ritrovo in un salone finemente arredato dove ragazze straniere ci sorridono per nulla sorprese; in fondo, una grande portafinestra spalancata apre uno squarcio sul buio. C’è una terrazza, gli invitati chiacchierano amabilmente seduti per terra, sorseggiando cocktail ghiacciati.
Davanti a loro brilla una vista mozzafiato sui grattacieli della città che si schiudono in basso intorno al centro e si arrampicano fantasmagoricamente sulla collina.
“Pristina è cresciuta in fretta appena dopo la guerra”, mi dice il tedesco che mi ha fatto imbucare alla festa, arrotolandosi una sigaretta. “Nessuno sapeva come si costruisce una capitale, così ognuno ha pensato a fare da sé”. Anarchia, euforia, soldi di dubbia provenienza. “Ma anche tanto entusiasmo. Si può dire quello che si vuole, ma questo è un posto vivo, ed è bello essere qui oggi, la gente è giovane e crede che le cose possano andare meglio”.
Annuisco diplomaticamente, ma in testa mi frullano un mucchio di cose. Penso alla frontiera e al gioco di ruolo del passaporto (è vero che bisogna pregare il poliziotto per non farselo timbrare? Ognuno mi dà una risposta diversa), agli ottanta paesi che non riconoscono il neonato paese balcanico, al fatto che non batta moneta, che sventoli una bandiera improvvisata con una pacchiana carta geografica; o che teoricamente il suo presidente potrebbe essere prelevato di forza e rinchiuso all’Aia da un giorno all’altro. Però c’è questa familiarità con l’occidente e la sua valuta – l’euro adottato ufficiosamente, le filiali degli ipermercati che vendono a chi se lo può permettere, cioè agli occidentali, parmigiano, birre d’Abbazia, Chianti, prosciutto di Parma. L’economia marcia molto più velocemente della legge, lo sapevo già, ma qui fa impressione. Pristina sembra un porto franco, una Tortuga dell’occidente e del capitalismo.
Prizren
Eppure i volti straordinariamente cordiali, i modi rilassati di certi frequentatori dei caffè, raccontano di una vita parallela che sembra fregarsene di tutto questo, sospesa in una dimensione inafferrabile. E se c’è un posto dove questa proprietà è inconfondibile questo è senz’altro la vecchia Prizren.
Qui il tempo scorre più dolcemente che nel resto d’Europa, come l’acqua che scroscia in minuscoli canali sul marciapiede, indugia tra le gambe dei vecchi ossuti con il copricapo tradizionale, il qeleshe, ruota in un minuscolo mulino davanti a un caffè e si tuffa nel torrente, proseguendo poi verso ovest, sotto le arcate del ponte antico.
A sinistra del fiume, contro gli spioventi immersi nel verde delle case ottomane e la fortezza sulla collina, domina l’elemento verticale: guglie di minareti, cupole di moschee, campanili di chiese ortodosse. A destra la vita civile, i negozi, il mercato, le verande dei caffè.
Ma nei Balcani niente è mai solo quello che sembra. Proprio al centro di Prizren, la cattedrale ortodossa di Nostra Signora di Ljeviš è stata data alle fiamme. Non oggi, ma neanche ieri: nel 2004, sotto il naso della Nato e dell’Onu, durante le sollevazioni che costrinsero alla fuga migliaia di serbi; il giorno che gli albanesi, da popolo martire, si risvegliarono all’improvviso a vestire anche la parte del carnefice. Oggi è una bella chiesa che riesce quasi a sembrare antica, ma nelle foto, appese su un lato nascosto alla strada, appaiono i moncherini sinistri, resti di travi annerite dalle fiamme della rivolta. I poliziotti sonnecchiano davanti all’ingresso dell’edificio ricostruito, fedeli al fumoso tempo balcanico, mentre cartelli minacciosi ricordano che che ogni tentativo di danneggiamento sarà perseguito secondo la giurisdizione penale, perché il Kosovo è una repubblica democratica e multiculturale.
Passato, presente
Sarà, ma non bisogna essere un genio per capire che i segnali sono contraddittori, come tutto in Kosovo. La celebrazione dell’Uçk è capillare, dalla toponomastica della capitale alle statue e alle bandiere sui crocevia solitari nelle campagne. Perfettamente controbilanciata, ma più illividita dalla sconfitta, la retorica delle enclave serbe, separate in casa, con le statue dei suoi eroi medievali e i check-point su ponti che dividono in due la città di Mitrovica.
La gente comune, però, sembra voler pensare a ben altro che alle tante ferite non ancora rimarginate. Senza bisogno di scomodare il passato, d’altronde, anche il presente non è certo avaro di problemi: la povertà, innanzitutto, non molla mai la presa. Due kosovari su tre sono giovani, e due giovani su tre sono disoccupati. E si tratta di una generazione istruita, cresciuta a contatto con l’Occidente. Ma l’Occidente, ai kosovari, tiene ancora le porte sbarrate – la liberalizzazione dei visti arriverà, prima o poi, intanto si aspetta. Nel frattempo i contingenti stranieri si sfoltiscono, e con la loro partenza l’economia traballa. L’unico settore che sembra andar bene è quello delle tangenti: recentemente le accuse hanno intaccato anche la reputazione di istituzioni internazionali, compresa l’Eulex, cioè la missione europea che dovrebbe guidare la transizione verso lo stato di diritto.
Questo è quello che mi raccontano, e che leggo, ma l’impressione è un’altra: saranno le facce giovani, o il fatto che senza volerlo incontro gente particolare, che si dà da fare in un paese in gran parte ancora da inventare, in cui tutto sembra possibile. C’è chi lo vede nella prima partecipazione alle Olimpiadi, chi nelle opere di cineasti promettenti. Io l’ho visto nella locanda improvvisata lungo il torrente ai piedi delle Alpi Dinariche.
Il cane sonnecchia incurante del kosovaro che gli dà dell’apprendista di aggressività. Intorno, i commensali stanno facendo un esercizio di scrittura creativa. Ognuno inventa un pezzo di storia, si scambia il foglio con il vicino, e continua quella dell’altro. Nascono racconti ingarbugliati, esilaranti, grotteschi e inverosimili, scritti in un inglese impossibile con grafia incerta nella luce traballante della notte. Ciascuno ci mette del suo, delle loro azioni di militanza e di volontariato in questa sperduta contrada montana – e le montagne selvagge, i loro orizzonti seghettati, i loro animali sfuggenti e perciò solo immaginati si inseriscono di forza nella trama.
Nel Prokletije, letteralmente “montagne maledette”, dove attivisti e organizzazioni non governative vogliono costituire un parco transfrontaliero condiviso con Montenegro e Albania, si trovano così a scorrazzare personaggi effimeri e irripetibili, capaci di azioni ridicole e contraddittorie, ma in fondo unite da una visione comune. Portano le esperienze degli scienziati europei venuti a monitorare la lince balcanica, e dei kosovari che hanno ceduto al fascino di questo simbolo di una wilderness mai del tutto perduta, che l’hanno portata nelle piazze e nelle scuole; delle bestemmie di un vecchio inglese, istruttore di sminamento, che inveiva contro i suoi connazionali il giorno del referendum sulla Brexit; delle infinite discussioni attorno al fuoco sulla jugonostalgia, condite, talvolta, dal vecchio inno Hej Slaveni strimpellato con la chitarra; dall’Europa che mostra ancora un lato buono finanziando progetti di un certo tipo, come quello che ha portato a riunirsi, al confine con la Macedonia, giovani provenienti da aree montane e remote a parlare di pace e di possibili vie sostenibili alla modernità.
Quando è il momento di leggerle, c’è di che slogarsi le mascelle dal ridere. Le lucciole intorno, il cane e il torrente riaffiorano in continuazione, nelle coniugazioni più inverosimili – corrieri di droga, ballerine in un locale di Las Vegas, funzionari sulle terrazze di Pristina. Ma come un mazzo di carte, i fogli su cui scrivono queste storie si assemblano secondo un disordine circoscritto da regole semplici e condivise – sarebbe forse retorico esplicitarle, la voglia di prendersi in giro l’un l’altro e di immaginare futuri diversi. Futuri, si intende, liberi dall’emigrazione e dal nazionalismo, dalla distruzione del suolo e dell’aria. Sia come sia, la serata volge al termine ed è il momento di tuffarsi nel buio. Il vecchio e sua moglie restano a guardare i commensali finché non spariscono, lui fa un sorriso triste con gli occhi nascosti dalla visiera, lei gli dice qualcosa. Poi mettono via le bottiglie e puliscono il tavolo; quando il cielo inizia quasi a schiarire, la lampadina tremolante si spegne e non ci sono ormai più nemmeno le lucciole. Non visto da nessuno, il torrente scroscia verso la piana del Kosovo.
* Questo racconto, pubblicato originariamente sul blog Per aspera ad est, ha vinto il premio "In Web We Travel" del Festival della Letteratura di Viaggio 2016
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