In Slovenia il 2010 si è chiuso con un referendum. Domenica 12 dicembre si è votato sulla nuova legge di riforma dell'emittente radiofonica e televisiva pubblica. Il 72% dei votanti si è espresso contro la legge ma, per la maggioranza di governo, non è stato certo un dramma. Un nostro approfondimento
Il primo referendum
Era il grande progetto politico di Zares. L’ipotesi di riformare la Radio televisione di Slovenia era stata avanzata sin dall’approvazione della nuova legge sul servizio pubblico nel 2005. All’epoca il governo di centrodestra, guidato dal democratico Janez Janša, aveva fatto passare il controllo della RTV nelle mani del governo e del parlamento. La soluzione aveva provocato le stizzite reazioni del centrosinistra, che aveva giudicato intollerabile la quasi completa estromissione dagli organi direttivi e di controllo della cosiddetta società civile.
Per evitare l’applicazione di quella normativa, il centrosinistra promosse un referendum. Contro la legge scesero in campo associazioni di categoria e organismi internazionali che contestarono pesantemente quella norma, che avrebbe messo a rischio l’autonomia dei giornalisti ed avrebbe fatto entrare la “politica” nel controllo del servizio pubblico.
La polemica fu durissima e la consultazione popolare si trasformò in un vero e proprio campo di battaglia tra i diversi schieramenti. Alla fine la spuntarono per un soffio i sostenitori della nuova legge, che del resto avevano promesso che non sarebbe aumentato il canone e che la programmazione sarebbe migliorata.
La resa dei conti?
Da quel momento, per il centrosinistra ed in particolare per gli esponenti di Zares, rimettere ordine nel sistema divenne un imperativo. Non poche critiche piovvero soprattutto sulla TV, considerata molto vicina al centrodestra. Subito dopo la vittoria alle politiche del 2008 qualcuno ipotizzò apertamente che fosse giunta l’ora della resa dei conti. Da una parte si pensava di decapitare la dirigenza della RTV, entrata in carica ai tempi del centrodestra e dall’altra di cambiare radicalmente la legge che regolava il funzionamento del servizio pubblico.
A frenare i bollori soprattutto il premier Borut Pahor che ha “costretto” i fautori del cambiamento ad invischiarsi in un lungo processo di riscrittura della nuova legge, mentre i vecchi dirigenti RTV sono rimasti comodamente seduti al loro posto a guardare quanto accadeva.
Di fronte alla tracotanza di determinati esponenti politici ed ai tentennamenti del premier, per il centrodestra è stato facile presentare l’operazione come un vero e proprio assalto al servizio pubblico. Per la RTV si evocava lo scenario di un vero e proprio “tsunami arancione”, il colore di Zares.
La ministra per la Cultura, Majda Širca, una delle punte di diamante del partito, ha impiegato due anni per scrivere la legge. Per cercare di evitare critiche ha coinvolto un’ampia cerchia di esperti, ma molti di essi si sono defilati e hanno preso le distanze dalla versione finale del testo.
I propositi del resto erano ambiziosi ed a prima vista sembravano anche nobili: dare maggiore autonomia ai giornalisti e togliere la RTV dalle mani della politica. Per il centrodestra, però, l’idea di far tornare in campo la cosiddetta società civile non sarebbe stata altro che un modo di mascherare l’influenza che il centrosinistra avrebbe avuto sulla RTV proprio attraverso la “società civile”.
Sta di fatto che il testo di legge, tra mille polemiche, era stato approvato in parlamento alla vigilia di una serie di avvicendamenti all’interno della RTV. Gli incarichi degli uomini nominati durante la scorsa legislatura si stavano esaurendo e nei mesi successivi sarebbero comunque stati scelti i nuovi direttori ed i caporedattori dei programmi radiofonici e televisivi.
La nuova normativa, invece, imponeva di procedere prima ad una riorganizzazione globale del servizio pubblico. Tra i molti indubbi pregi del nuovo ordinamento non mancavano preoccupanti incognite: la più pesante era quella che apriva parzialmente le porte alla privatizzazione di parte dell’ente.
Nuovamente al voto referendario
Sconfitto in parlamento il centrodestra ha usato la stessa arma che aveva adoperato il centrosinistra cinque anni fa ed ha promosso un referendum sulla legge in questione. Ancora una volta lo scontro più che sui contenuti stessi della normativa ha assunto un’impronta ideologica. Da una parte c’era compatto il centrodestra e dall’altra più o meno solo gli esponenti di Zares e della cosiddetta società civile. Gli altri partiti di coalizione, socialdemocratici in testa, pur sostenendo la legge hanno cercato in qualche modo di non esporsi troppo.
Dopo una campagna elettorale fiacca il risultato del voto è apparso inequivocabile. Il 12 dicembre scorso oltre il 72% dei votanti si è espresso contro la legge, ma il dato più eclatante è quello della scarsissima partecipazione al voto, che ha di poco superato il 14% degli aventi diritto. In Slovenia, contrariamente all’Italia, non esiste il quorum e quindi decidono quelli che si recano alle urne. Il centrodestra è riuscito a far andare a votare i suoi più convinti sostenitori, il centrosinistra no.
Adesso si procederà alla nomina della nuova dirigenza RTV con la vecchia norma voluta dal centrodestra e per l’attuale maggioranza questo non appare assolutamente un dramma.
Del resto la coalizione si è consolata mettendo in discussione la validità dell’attuale normativa che regola i referendum. Che sarebbe troppo liberale. Alle porte, infatti, ci potrebbero essere una serie di altre consultazioni. I sindacati vorrebbero promuoverne una contro la riforma previdenziale, che innalza a 65 anni l’età pensionabile, mentre le organizzazioni studentesche si apprestano a raccogliere le firme necessarie per cancellare la legge sul lavoro occasionale, che ridurrebbe le possibilità di lavoro per gli studenti ed il potere, nonché le entrate finanziarie, delle loro organizzazioni.
Due consultazioni queste che potrebbero segnare altrettante batoste per la coalizione di governo. La popolarità dell’esecutivo, oramai, è in caduta libera ed i consensi per il governo Pahor sono al minimo storico. Il premier dal canto suo continua a parlare delle “grandi” riforme di cui il paese avrebbe bisogno. Dopo le pensioni, adesso vorrebbe mettere mano alla sanità.
Intanto il paese scivola nelle classifiche mondiali. L’ultima batosta arriva dagli analisti del “The Economist”. Cala, infatti, l’indice di democrazia della Slovenia. Nel 2008 Lubiana era al trentesimo posto e rientrava nel novero delle democrazie perfette. Nel 2010 invece è scesa di due posizioni, perdendo alcuni decimi di punto, ma soprattutto è passata dal novero delle democrazie complete a quello delle democrazie imperfette. Il fatto che siano state declassate anche Grecia, Francia ed Italia appare di ben poca consolazione.
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