Dopo le clamorose dimissioni dei quattro generali ai vertici delle Forze armate turche, Ankara supera la crisi con gran rapidità e molti analisti vi leggono un segno di democratizzazione per la Turchia e di liberazione dalla tutela autoritaria dei militari. Per la prima volta i militari cedono di fronte al governo e nel Paese si respira aria di "seconda repubblica"
Le richieste di pensionamento anticipato presentate venerdì scorso dalle quattro cariche più alte delle Forze armate turche hanno segnato una nuova fase nei rapporti di potere tra i militari, tutori della tradizione kemalista e secolarista del Paese, e il governo di Ankara guidato dal filo-islamico Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP), in carica dal 2002 e rieletto per la terza volta lo scorso giugno.
I militari sfidano Erdoğan
La decisione del capo di Stato maggiore Işık Koşaner e dei tre comandanti supremi dell’esercito, della marina e dell’aeronautica è arrivata tre giorni prima del primo incontro annuale del Consiglio militare superiore (Yüksek Askeri Şura), nel quale sarebbero stati stabiliti gli avanzamenti di carriera all’interno delle Forze armate. Alla base della crisi la disputa su chi, tra militari e governo, avrebbe avuto l’ultima parola nell’assegnazione dei posti di comando nell’esercito, una decisione che, secondo l’uso del Consiglio, viene presa sulla base delle indicazioni dei capi militari.
Tuttavia, l’inchiesta sul presunto piano Balyoz (Martello), che dal 2010 ha portato circa 200 ufficiali dell’esercito all’arresto preventivo con l’accusa di aver partecipato nel 2003 ad un complotto per far cadere il governo dell’AKP, ha notevolmente indebolito le posizioni dei militari. Tra i generali in stato di arresto, 14 attendevano una promozione nel Consiglio riunito in questi giorni.
Il governo, sostenendo che il Consiglio militare supremo debba avere solo una funzione di consulto, si era già manifestato contrario all’avanzamento di carriera di tre generali perché imputati nel processo Balyoz, facendo intendere di volerli mandare anticipatamente in pensione. Così Koşaner e gli altri generali, non vedendo accolte le loro scelte né dal premier né dal presidente della Repubblica Abdullah Gül hanno lasciato i propri incarichi in segno di protesta.
La risposta di Ankara
Il governo ha tuttavia affrontato la crisi scaturita dalle dimissioni dei comandanti con grande rapidità. Il presidente Gül ha immediatamente promosso il capo della gendarmeria Necdet Özel al comando dell’esercito nominandolo (in attesa della nomina effettiva il prossimo 4 agosto) anche vice capo di Stato maggiore. Quello di Özel è un nome noto per le sue posizioni favorevoli all’apertura democratica per la riconciliazione con i curdi, posizione che in passato gli avrebbe causato antipatie all’interno dell’esercito. Secondo il suo percorso di carriera, il generale avrebbe dovuto assumere il comando dell’esercito nel 2011 per diventare capo di Stato maggiore solo nel 2013.
L’immagine del premier Erdoğan, seduto per la prima volta da solo a capo del tavolo del Consiglio supremo militare, e non più affiancato come al solito dal capo di Stato maggiore, rappresenta bene l’ultima fase raggiunta in questo processo. Numerosi analisti la interpretano come la vittoria della volontà del popolo sul potere politico dei militari, un segno di democratizzazione per la Turchia e di liberazione dalla sua tutela autoritaria.
“Fino a poco tempo fa gli attriti tra il potere politico e i militari si concludevano con la retrocessione del primo, ossia con la caduta o le dimissioni dei governi” scrive in un recente commento Murat Yetkin su Radikal. “Le dimissioni di Koşaner e degli altri comandanti rappresentano un vero giro di vite. Per la prima volta chi ha retrocesso sono stati i militari”.
La seconda Repubblica
Gli interventi dei militari nella politica, prima con i colpi di Stato armati (1960, 1970, 1980), poi con il golpe “post-moderno” (senza spargimento di sangue ma sufficientemente intimidatorio da far dimettere il governo del partito islamista Refah di Necmettin Erbakan nel 1997), fino all’avvertimento lanciato dallo Stato maggiore nel 2007 su internet per impedire (senza successo) ad Abdullah Gül di diventare presidente della Repubblica, sono stati una costante nella recente storia del Paese. Ora però gli analisti non esitano a parlare dell’inizio di una “seconda repubblica”, come risultante di un processo iniziato nel 2002 (quando l’AKP salì al governo) nel corso del quale si è registrata una graduale esclusione delle Forze armate dalla politica e la conseguente perdita di potere delle élites kemaliste.
“Che l’élite kemalista, storicamente alla guida di questo Paese, abbia perso terreno e che gli strati sociali tradizionalmente esclusi dai meccanismi di governo, grazie all’importanza attribuita dall’AKP alla volontà dei civili, abbiano conquistato l’arena politica e se ne siano appropriati con modi a volte gentili e a volte aggressivi è una realtà sociologica” scrive l’analista Aslı Aydıntaşbaş su Milliyet. “È ormai chiaro che l’era della prima Repubblica fondata nel 1923 e che prevedeva un regime laico garantito dai militari è conclusa. Non è un male, al contrario, è in armonia con il corso della storia. Ormai siamo senza ombra di dubbio nell’era della seconda Repubblica”.
“Tuttavia”, aggiunge la Altıntaşbaş, “l’esclusione dell’esercito dalla politica non sta a significare che la lotta per la democrazia sia finita. Abbiamo ancora problemi di democrazia e di diritti umani. Non avremo più ‘il regime di sicurezza nazionale’ ma non c’è dubbio che concetti come ‘autoritarismo civile’, ‘autoritarismo soft’ e ‘democrazia illiberale’ siano ancora molto attuali”.
Emine Ülker Tarhan, vice-presidente del gruppo parlamentare del Partito repubblicano del popolo (CHP), storica formazione politica delle élites kemaliste, dove però è in atto un tentativo di rinnovamento, ha commentato le dimissioni affermando che il partito “è contrario al coinvolgimento delle Forze armate nella politica” ma che “parlare continuamente male dei militari, diffamarli con accuse infondate non serve in alcun modo alla nazione. Al contrario, queste azioni finiscono con l’attirare l’esercito nella politica. Ciò non deve essere permesso”.
La relatrice per la Turchia del Parlamento Europeo Ria Oomen Rujiten, in seguito alle dimissioni ha elogiato la “progressiva democratizzazione del Paese” e l’assunzione del “controllo delle decisioni di carattere militare da parte delle istituzioni democratiche della Turchia”. Elogi definiti “incomprensibili” dal leader del CHP Kemal Kılıçdaroğlu che ha denunciato la politicizzazione della giustizia e le gravi limitazioni sulla libertà d’espressione in atto nel Paese.
Sarà da vedere se il governo dell’AKP utilizzerà il nuovo “fronte di democratizzazione” per venire incontro alle richieste dei cittadini sui diritti e le libertà fondamentali.
Anche per i curdi del Partito della pace e democrazia (BDP) il ridimensionamento del potere dei militari rappresenta un banco di prova per il governo. “Ora che l’AKP avrà la gestione di tutti i poli di potere dello Stato”, ha affermato la co-leader del partito Filiz Koçali, “tutte le giustificazioni avanzate finora sugli impedimenti creati dalle autorità militari non avranno più senso. Il segnale più palpabile del passaggio da un autoritarismo militare ad un governo realmente democratico – o ad uno stato di polizia-militarista – si vedrà dai passi compiuti nella questione curda”.
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