violenza sulle donne

In Turchia, la brutale uccisione di una studentessa ha riportato al centro del dibattito la questione della violenza sulle donne. Un fenomeno che continua a segnare drammaticamente sia la politica turca che la società civile

23/02/2015 -  Fazıla Mat Istanbul

Nella “Nuova Turchia” del presidente Tayyip Erdoğan la violenza contro le donne è un tasto dolente. Il paese è ancora sotto shock per la brutale uccisione di Özgecan Aslan, studentessa universitaria di Mersin – sulla costa mediterranea – il cui corpo bruciato e gettato in un dirupo è stato trovato venerdì 13 febbraio.

Secondo l’ultima versione dell’omicida Suphi Altındöken, autista di un minibus che avrebbe dovuto portarla a casa, l’uccisione della giovane non è stata premeditata. I pugni e i calci che l’hanno fatta svenire, il taglio della gola e delle mani – per far sparire le tracce della lotta tra la ragazza e l’autista – sarebbero stati l’esito di una sequenza di eventi imprevedibili. L’idea di bruciare il corpo apparterrebbe invece ad un amico, tale Fatih Gökçe, mentre il padre di Altındöken, terza figura implicata nella vicenda, avrebbe bruciato gli oggetti personali e i libri della vittima nel cortile della propria casa.

I tre sono stati messi agli arresti e la vicenda coperta dal segreto investigativo, mentre la procura, con ogni probabilità, chiederà per gli imputati la pena più severa prevista dal codice penale turco, l’ergastolo.

La rabbia

Migliaia di donne piene di rabbia e di dolore si sono riversate sabato 14 febbraio per le strade di Istanbul e di Mersin, esponendo il nome di Özgecan e la scritta “Non siamo in lutto, siamo in rivolta”. Secondo i dati dell’Associazione per i diritti umani (İHD) in Turchia nel 2014 sono state uccise 296 donne, mentre ne sono state ferite 776 e 142 hanno denunciato violenze e stupri. Solo giovedì 12 febbraio a Istanbul, un’altra donna fatta a pezzi da suo marito, è stata rinvenuta nel cassonetto della spazzatura. Quasi ogni giorno i giornali riportano la notizia di donne uccise, per la maggior parte dal coniuge o dall’ex compagno, come fosse un banale fatto di cronaca.

Sarà la brutalità e la circostanza in cui è stata uccisa, l’età, la bellezza, il fatto che fosse una ragazza che studiava all’università grazie ai sacrifici della famiglia, il caso di Özgecan ha suscitato uno scalpore tra la popolazione che le morti “consuete” delle donne non sono mai riuscite a fare. Sarà anche per questo che, in maniera del tutto inedita, tra le prime a recarsi dalla madre della ragazza sono state le figlie del presidente Erdoğan – una delle quali, Sümeyye, è stata indicata come possibile candidata alle prossime elezioni politiche fino alla smentita ufficiale arrivata sabato 21 febbraio. “Siamo con te, non ti lasceremo mai sola”, hanno detto le Erdoğan alla madre Aslan.

Poi è arrivato il turno di Ayşenur İslam, ministra per la Famiglia e le Politiche sociali – già ministero per la Donna e le Politiche sociali – che ha detto: “Sono venuta qui come donna e madre a tenere la mano di una donna addolorata”, mentre all’uscita dalla visita ha affermato sempre “come donna e madre” e non “come ministra” che “la pena per i delitti commessi contro la persona potrebbe essere quella di morte. Penso che la cosa possa essere discussa”.

Erdoğan, una posizione controversa

Per i movimenti delle donne non sono certo la pena di morte o la sterilizzazione, come proposto da diversi esponenti dell’opinione pubblica, la soluzione per fermare il femminicidio. La Piattaforma “fermeremo gli omicidi delle donne”, un gruppo formato nel 2010 e composto da diverse categorie professionali e sociali di donne, lotta affinché tali delitti siano legalmente perseguiti, ma che soprattutto vengano evitati.

Tra le proposte avanzate dalla Piattaforma per raggiungere tale scopo – tra cui un’apposita modifica al codice penale, l’applicazione efficiente delle leggi vigenti in materia di protezione delle donne in pericolo, una nuova costituzione che ponga alla base la parità di genere e l'orientamento sessuale e un ministero specifico per la Donna – spicca la richiesta rivolta ai leader politici e di partito di rilasciare dichiarazioni che condannino gli omicidi delle donne adottando un linguaggio che non sia discriminatorio nei confronti delle donne.

Una richiesta che non corrisponde esattamente a ciò che afferma Erdoğan nel condannare gli omicidi: “Chiunque compia un atto di violenza su una donna, considerandola debole e indifesa è un vile. Compiere un atto di violenza su una donna significa tradire ciò che ci ha affidato Allah. Lo dico soprattutto agli uomini che in maggioranza si trovano ai vertici decisionali. Questa vicenda poteva capitare alla figlia di ciascuno di noi. Se non affrontiamo attentamente l’argomento non otterremo mai un reale miglioramento”.

Le parole del presidente, criticate dai movimenti femministi, che considerano la questione della violenza sulle donne un problema di natura politica, hanno avuto seguito: “Avete presente queste femministe secondo cui dire che la donna ci è stata affidata è un’offesa. Ma quelle non hanno niente a che vedere con la nostra religione e la nostra civiltà”.

Ma è proprio grazie alla lotta delle organizzazioni di donne e di femministe che negli ultimi anni sono state approvate leggi nazionali per tutelare le donne dalla violenza. Nel 2012 la Turchia ha ratificato anche la Convenzione del Consiglio europeo sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne, primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza.

Muro di gomma

Il problema, sottolineano gli esperti, non sono le leggi, che in sé sarebbero sufficienti a prevenire la violenza, ma la loro applicazione. Una barriera di omertà che spesse volte si estende dalla polizia fino alla magistratura e alle autorità politiche. Con richieste di aiuto di donne che restano inascoltate e finiscono uccise per strada dal marito o dal compagno da cui si vogliono separare. Secondo un rapporto delle stesse Forze dell’ordine presentato in parlamento nel 2014, 27 donne sono state uccise in stato di protezione. Inoltre, molte volte gli aggressori si avvalgono di riduzioni di pene per buona condotta, in altri casi i giudici ritengono che la violenza sia stata commessa perché è stata la donna a provocarla.

Dopo l’omicidio di Özgecan una campagna lanciata su Twitter che ha visto una partecipazione record di oltre 600mila post, con l’hashtag #sendeanlat (in turco, racconta anche tu) centinaia di donne stanno raccontando le violenze psicologiche e fisiche che hanno vissuto e vivono quotidianamente. Come una utente che scrive: “Ho presentato una querela per violenza fisica e prima di presentarmi davanti al giudice ho pensato a lungo a come vestirmi per non dare l’impressione che me l’ero cercata”.

Non bisogna arrivare ad alcuni organi di stampa di tendenze islamiche radicali come Yeni Akit che ritrova “nella minigonna e nei décolleté” la causa delle violenze perpetuate contro le donne, per accorgersi di una sempre maggiore tendenza a circoscrivere le loro libertà. Basti ricordare le affermazioni del vicepremier Bülent Arınç che qualche tempo fa disse che le donne non dovevano ridere ad alta voce in mezzo alla gente. Le affermazioni “informali” le “opinioni” dei politici sulle questioni di genere hanno un effetto più diretto di qualsiasi legge promulgata. Lo si è visto anche in seguito alla condanna dell’aborto da parte del presidente Erdoğan. Una recente indagine svolta dalla Fondazione Mor Çatı ha rilevato che a Istanbul, su 37 ospedali pubblici, solo 3 accettano di portare a termine gravidanze indesiderate che - secondo la normativa attualmente vigente in Turchia - possono essere interrotte entro 10 settimane.

Ma ridurre la questione ad un fatto di minigonna sarebbe un grave errore. Le vittime delle violenze appartengono indistintamente a tutte le “categorie”: quelle con la minigonna come quelle velate. La Turchia risulta al 125° posto tra 142 nazioni, secondo l’ultimo rapporto sulla disparità di genere del World Economic Forum, ed è al secondo posto in Europa per quanto riguarda il fenomeno delle spose bambine. Forse proprio su questi dati potrebbero iniziare a concentrarsi le affermazioni dei leader del paese.  


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