Il battaglione Azov è una formazione paramilitare nata nei giorni della Maidan e poi incorporata nella Guardia nazionale ucraina con decreto del ministro dell’Interno Avakov. In queste settimane hanno cercato di entrare a Donetsk, ma la battaglia è stata cruenta. Viaggio tra i feriti ricoverati a Dnipropetrovsk
I feriti più gravi li portano qui. Dnipropetrovsk è la città più grande dell’Ucraina orientale sotto il controllo del governo. Di fatto un avamposto dell’antiterrorističeskaja operatsja, ATO, in corso nelle regioni di Donetsk e Lugansk. L’ospedale Metčinkov è la prima grande struttura al di qua del fronte, il più vicino centro di rianimazione per chi combatte. Se una vita è appesa a un filo, è questo il posto più vicino dove correre.
Jaroslav Jakimčuk, è un ragazzone bruno di 24 anni. Ora se la passa meglio ma è ancora ricoverato nel reparto rianimazione. È stato colpito dalle schegge di una fugass, un ordigno artigianale comandato a distanza, mentre col suo gruppo stava entrando a Mariinka, un sobborgo di Donetsk. “Eravamo tre gruppi, io ero nel terzo. Camminavamo a piedi proteggendoci dietro ai blindati perché era pieno di cecchini. Hanno aspettato che passassimo tutti e poi hanno fatto saltare in aria il nostro mezzo, che era l’ultimo, in modo da bloccare la via di fuga anche agli altri due”.
Jaroslav si è arruolato nel battaglione Azov volontariamente. “La paga è ridicola. Non vai certo a combattere per così pochi soldi. Io combatto per l’Ucraina”, dice scuotendo la testa. Il battaglione Azov è composto esclusivamente da volontari. È una formazione paramilitare nata nei giorni della Maidan e poi incorporata nella Guardia nazionale con decreto del ministro dell’Interno, Avakov. Jaroslav si definisce un patriota e non ne vuole sapere delle accuse di estremismo rivolte al suo gruppo, eppure il sospetto è lecito.
Il battaglione è nato nei primi giorni della rivolta nel Donbass e raccoglieva al suo interno componenti dell’estrema destra di Pravy Sektor e della formazione neonazista Patriot Ukraiyny. Anche la simbologia scelta non aiuta fugare i dubbi di vicinanza con l’ideologia neonazista: nello scudo del battaglione Azov campeggia il Wolfsangel, l’antico segno araldico usato anche dai nazisti e oggi illegale in Germania, su uno Schwarze Sonne, il sole nero esoterico anch’esso legato al neopaganesimo nazista. La fascinazione del battaglione ha attratto anche qualche volontario dall’Italia dagli ambienti di Casa Pound. “Sì, l’ho conosciuto Francesco Saverio Fontana”, dice Jaroslav, “ha combattuto con noi. È già tornato in Italia, però”.
L’aiuto della gente
L’ospedale regionale Metinkov potrebbe essere definito un centro d’eccellenza della sanità ucraina: struttura moderna, personale volenteroso e preparato ma carenza di medicine e attrezzature. Al piano terra c’è il centro di raccolta per gli aiuti offerti dalla popolazione ai soldati ricoverati. Cibo, medicine, oggetti per l’igiene personale vengono consegnati a dei volontari e inventariati, ma in questo momento non c’è molto. Andrej è un giovane medico che mi accompagna per corridoi e corsie. Dice che il periodo è difficile per tutta la popolazione, la grivnia si è svalutata del 40% e tutto ciò che arriva dall’estero costa ogni giorno di più. “Ma nonostante tutto, la gente di Dnipropetrovsk si è mostrata molto generosa. Quasi tutti questi ragazzi non hanno nessun parente qui, nessuno che possa portare loro, che so, della cioccolata o del tè. Ognuno porta qui quello che può, e se non ha niente anche il sangue va bene. Qualche giorno fa, quando sono arrivati molti feriti tutti insieme, c’era la fila fuori al centro trasfusioni”.
Una ragazza in mimetica fa il giro dei letti. Fa parte di un’organizzazione di volontari che mettono così in pratica la loro solidarietà con chi combatte. A ogni soldato chiede come va, di cosa ha bisogno in particolare, se lo trattano bene, e così via. Segna ogni cosa su un blocco e riporta al banco di raccolta. Se quello che serve non c’è, sparge la voce tra i volontari e alla fine un po’ di grivnia si riescono a racimolare.
I separatisti non li curano qui
Juri Jurevič Skrebets è il vicedirettore medico dell’ospedale. Il suo ufficio al nono piano del grosso complesso ha la fila fuori. Se hai un parente ricoverato qui, una parola di Juri Jurevič ai medici qualche piano più sotto di certo non guasterà. Lui fa entrare tutti, ascolta tutti, segna i nomi dei pazienti su un foglietto, pesca i telefoni da sotto una montagna di carte e dà disposizioni. Sorrisi e ringraziamenti, tutto è sistemato.
Non c’è nessuno fuori per i ragazzi che arrivano dal fronte – non hanno parenti qui, vengono da ogni parte dell’Ucraina – ma per loro non ce n’è bisogno. Loro sono eroi, rischiano le loro vite per la patria, per loro un trattamento di riguardo è la norma.
“Se la guerra non è arrivata qui a Dnipropetrovsk lo dobbiamo anche a loro. Il nostro compito è curarli al meglio delle nostre possibilità”, dice Juri Jurevič. “Dall’inizio delle operazioni ci sono stati portati qui oltre 200 feriti gravi. Tutti quelli che non potevano ricevere cure adeguate negli ospedali da campo. Li rimettiamo in sesto, qualcuno lo abbiamo letteralmente strappato alla morte”. Al momento della mia visita ci sono ricoverati una quindicina di soldati. Mi aspetterei di trovare anche feriti dell’altra parte, ma quando lo chiedo a Juri Jurevič quello scoppia in una risata. “Separatisti?”, e si passa un dito attorno al collo.
Liberare Donetsk
Ljoša preferisce non far sapere il suo cognome. Ha appena 18 anni, è di Kiev. Era nello stesso gruppo di Jaroslav. La sua gamba destra è chiusa in un fissatore esterno.
“Le schegge della fugass l’hanno presa in pieno. È fratturata in più punti, ma sono felice di essere vivo. A dei nostri compagni è andata peggio.” Il sobborgo di Mariinka si trova a est di Donetsk, ad appena dieci chilometri dal centro della città sotto il controllo delle forze separatiste. Il battaglione Azov era riuscito per la prima volta a entrare nelle vie cittadine, e sembrava che da lì a pochi giorni tutta la città sarebbe tornata sotto il controllo di Kiev. Le truppe però sono di nuovo uscite dalla città. “Non abbiamo cercato di entrare a Donetsk”, dice. “Mariinka stessa era un obiettivo strategico. Lì si concentravano molte postazioni di artiglieria dei separatisti. Ci siamo andati per fare piazza pulita, non per restarci”.
Nelle ultime settimane la battaglia intorno a Donetsk si è fatta più cruenta e l’uso dell’artiglieria pesante intensificato, secondo alcune fonti, da entrambe le parti. “Sono i separatisti a sparare missili Grad contro di noi. Noi neanche ce li abbiamo. Andiamo lì con blindati Btr, qualche carro armato e kalashinkov. Loro hanno armi di grosso calibro. Sono equipaggiati meglio di noi”.
Anche Ljoša non ne vuole sapere delle accuse di neonazismo al battaglione Azov. “Cos’è estremismo? Il nazionalismo è estremismo? Noi siamo patrioti, combattiamo per la patria. Se è così, allora siamo estremisti, ma in un senso buono”. Una smorfia di dolore che proviene dalla sua gamba gli fa mancare il fiato, poi continua. “Non mi piace neanche che ci chiamino eroi, però. Amo il mio paese, non ci ho pensato due volte ad arruolarmi. Non ho fatto niente di straordinario”.
Eppure, per molti abitanti dell’est loro non sono patrioti, ma aggressori. Anche molta gente a Donetsk e Lugansk dice di lottare per la propria terra, e non si riferiscono all’Ucraina. “L’est è territorio ucraino, c’è un sacco di gente lì che ama l’Ucraina, e persino nel nostro battaglione ci sono molti volontari da Donetsk”. Molti quanti? “Molti”. La battaglia di Donetsk non è ancora iniziata, ma la sua gente già si combatte.
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