10 luglio 2018

di Mauro Cereghini e Michele Nardelli
casa editrice: Edizioni Messaggero Padova
collana: Parole allo specchio
anno di pubblicazione: 2018
pagine: 104
prezzo: 10,00 euro

Il Novecento è stato il secolo di Auschwitz e della violenza. Le guerre hanno contato milioni di morti, e l’umanità si è rivelata in grado di distruggere il pianeta che la ospita. Eppure nel secolo scorso la sicurezza non era quell’ossessione che oggi offusca lo sguardo. Ci siamo risvegliati dall’illusione del progresso e delle sue magnifiche sorti, scoprendoci aridi di pensiero e privi di futuro. In un presente pieno di insidie, l’incertezza si tramuta in paura, e la paura in aggressività. Per dare una nuova possibilità all’umanesimo occorre fare i conti con le grandi tragedie del Novecento. E nell’elaborazione del passato trovare le ragioni di un cambio di paradigma, capace di far propria la cultura del limite e la forza della nonviolenza. Occorre trasformare l’idea di sicurezza: non difesa dagli altri, ma cura dello stare assieme.

 

Riprendiamo la recensione di Giulio Marcon pubblicata su Huffingtonpost.it

Negli ultimi anni la "sicurezza" (insieme a "protezione") è la parola magica delle destre. Facendo leva sulla paura e l'ansia per quello che ci succede intorno (la globalizzazione, le migrazioni, la precarietà, ecc.) l'evocazione della "sicurezza" è diventata l'architrave (e merce elettorale) di una narrazione populista e crimonogena che sfocia spesso nell'autoritarismo, nel "law and order", nella retorica retrograda del "prima noi".

Al carotaggio analitico e politico di questa parola e di questo concetto, Michele Nardelli e Mauro Cereghini hanno dedicato un prezioso volume ("Sicurezza", pubblicato dalle Edizioni Messaggero Padova), svelandone le ambiguità, i falsi miti, ma anche le cause e le possibili declinazioni in una chiave diversa: progressista, solidaristica, comunitaria.

"Sicurezza" è una di quelle parole che Ivan Illich avrebbe definito come "parole-ameba", ambigue e polifunzionali, che mal si prestano -senza essere strumentalizzate- al discorso pubblico. Eppure la "sicurezza" sta anche nel vocabolario della sinistra: la promessa della "social security" nel Rapporto Beveridge fu decisiva nella vittoria del Labour alle elezioni del 1945. E più di 40 anni dopo, sempre in Europa, la "sicurezza comune" -proposta da Olaf Palme e Willy Brandt- fu l'alternativa (non realizzata) della sinistra europea alla guerra fredda e alla contrapposizione tra i blocchi. In fondo la sinistra ha sempre avuto come sua missione quella di proteggere gli indifesi (gli altri non ne hanno bisogno) e di dare sicurezza a chi non ha certezze del proprio presente e del proprio futuro. Se ora lo fanno efficacemente (in modo becero e perverso) le destre, significa -anche- che è la sinistra a non farlo più. O non è convincente.

Il libro di Nardelli e Cereghini ha due meriti. Il primo di ricordarci come il successo "di destra" della sicurezza stia non nel "destino cinico e baro", ma nella eredità del secolo scorso e nelle trasformazioni di questi decenni: la crisi della sinistra e i limiti del welfare novecentesco, l'irruzione della violenza organizzata e delle nuove guerre, le migrazioni e la trasformazione dello spazio urbano, la globalizzazione e la crisi della politica. Il secondo: di proporci la sicurezza come concetto "polisemico" e come obiettivo da realizzare attraverso strategie diverse, dalla ricostruzione dei legami sociali ad un nuovo modello di sviluppo, da una visione diversa dell'organizzazione delle città a forme nuove di convivenza.

Di fronte alla "sicurezza" usata come clava politica e sociale, quella di Nardelli e Cereghini può sembrare una proposta un po' illuministica e troppo levigata. Ma ha il merito di rimettere le cose in fila, di ricostruire il filo che ci ha portato sino a qui, di non abbassare la politica e l'analisi al tifo degli ultras e di non farci schiacciare dal presente, facendo invece dialogare il passato con il futuro. Memoria e visione: quello che oggi mancano.