Vent'anni fa la caduta del Muro di Berlino e l'indimenticabile '89. Poi, il ritorno della guerra nel cuore dell'Europa e un lungo dopoguerra gravido di immagini e traumi da elaborare. Dalla pace alla guerra, dalla guerra alla pace: un contributo di Nicole Janigro
Il seguente testo è stato presentato dall'autrice al convegno internazionale "Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria", tenutosi a Lecce il 5 aprile 2008 ed organizzato dalla rivista di psicoanalisi Frenis Zero (direttore: Giuseppe Leo). E' in corso di pubblicazione il libro degli atti.
Non sarà che lei è solo una vittima
che vende il suo trauma?
mi ha chiesto una biondina di Harvard
il cui cervello è valutato mezzo milione.
In inglese non lo sapevo dire.
Si rende conto di avere tutte le ragioni?
Nove morti, il sangue che esce dalla membrana del timpano,
quel dimenarsi fra i proiettili.
Tutto sta nella parola trauma.
E questo, sì, non sapevo dire in inglese,
ho paura,
è l'unica cosa che vale fra quelle che ho.
Adisa Basic, Trauma-market
Compie vent'anni la caduta del Muro. L'indimenticabile '89 sta per essere celebrato e ricordato, ma il paesaggio internazionale non è una versione pacificata di quello precedente. Nuove guerre perfezionano la tecnica, ereditano da quelle novecentesche la loro caratteristica civile - nel senso che vittime sono soprattutto i non militari. L'accampamento dal quale parte l'assedio è un accampamento assediato, il checkpoint che deve controllare il brulicare del villaggio è in ostaggio: l'umano è in pericolo, il pericolo è l'umano. Il soldato (occidentale) si muove come fosse una tartaruga ninja, la sua armatura è un congegno robotizzato, la sua irriducibilità mortale si rivela quando giace sfinito in un bunker in Afghanistan (World Press Photo 2007). Il nemico può essere uno qualunque di una folla che pare (quasi sempre) appartenere a secoli remoti - quando gli uomini si mischiavano alle bestie, le donne con un fazzoletto in testa. In numerose aree del pianeta il dopoguerra è (spesso) un conflitto infinito ma di bassa intensità, che nel tempo sospeso di una no man's land si è trasformato in paesaggio naturale.
Ma, oggi, la guerra è diventata anche un soggetto da prendere in cura come se l'intervento risanatore in tempo quasi reale potesse azzerare le sue conseguenze letali. Come se il male potesse essere dominato e ridotto, il trauma addomesticato. Come se la sofisticazione dell'apparato bellico producesse, di pari passo, abilità e tecniche vieppiù raffinate, in grado di assorbire gli effetti collaterali, fisici e psichici, della violenza.
La guerra occupa di nuovo il piccolo e il grande schermo.
Si trasmette attraverso "immagini di immagini" prodotte da telecamere di servizio, da videocamere utilizzate dai singoli militari, prese da YouTube, scaricate da internet. Ciascuno può comporre il proprio diario per immagini che, come in Redacted (Brian De Palma, 2007), può spostare la notte un po' più in là, ma non elude il bisogno che la realtà trovi le sue parole. Ed è un "documentario d'animazione", Valzer con Bashir (Ari Folman, 2008) a rappresentare in una sorta di reportage psicoanalitico gli effetti di lunga durata del trauma bellico.
Le guerre inter-jugoslave di fine Novecento, un conflitto regionale eppure fortemente internazionalizzato, contengono molte caratteristiche degli eventi bellici successivi. Combattimenti a macchia di leopardo, scontri tra regioni come se fossero zone metropolitane, la popolazione civile come target, la presenza diffusa di ogni tipo di media.
Ripercorro (1) il ritorno della guerra nel centro d'Europa in quella che era la zona cuscinetto ai tempi della guerra fredda; (2) le caratteristiche di un dopoguerra nel quale la fenomenologia del trauma è immersa in una dimensione collettiva che rumina da decenni i temi della storia e della memoria; (3) la ricerca di una narrazione capace di integrare il male che non ha bisogno di annullare quanto è avvenuto, ma che può prevedere un finale aperto, dove l'attaccamento al trauma non sovrasti ogni altra possibilità di identità; (4) il proliferare di immagini che trasmettono e comunicano l'evento bellico, che sono penetrate nella psiche e non danno tregua e che forse, possono essere sostituite da immagini attive, consapevolmente cercate, che offrono un senso all'insensato.
1 - Il ritorno della guerra nel centro d'Europa
L'evento bellico occupa di nuovo il centro della scena internazionale. In Europa, è stato il conflitto al di là dell'Adriatico a segnare il ritorno della guerra. Siamo dunque costretti a ripensare (dopo il "mai più" di Auschwitz) il nostro rapporto con la violenza, l'umana aggressività.
Che cosa resta? Che cosa resta dell'evento bellico, ma anche che cosa resta dell'infinità di modi attraverso i quali si è cercato di affrontare le sue conseguenze. Guerra umanitaria, pace militare, curare la guerra: sono questi gli ossimori che esprimono il tentativo di tenere a bada il ripetersi dell'insormontabile, che, insieme, affascina e spaventa.
Un fenomeno che rappresenta la rottura della continuità - sociale, culturale, politica, relazionale, autobiografica - e che, nel caso della ex Jugoslavia, per le sue caratteristiche storiche e per la sua durata, diventa parte dell'ambiente. Nulla è rimasto uguale, né gli uomini né il paesaggio naturale: i corpi e le case portano i segni delle ferite, nelle menti il tempo fatica a riprendere il suo corso, le planimetrie devono tenere conto del numero sterminato di cimiteri.
Le caratteristiche del conflitto mutano: il rapporto civili/militari, il tipo di armi usate per combattere e le droghe adatte allo scopo. Se il fine è la "pulizia etnica" - un aspetto comune delle "nuove guerre" - non è il territorio, ma la popolazione civile obiettivo di conquista. Il bottino sono uomini, donne e bambini, spinti, con il terrore, ad abbandonare case bestie e terra - che solo così si può ripulire. L'incubazione necessaria per trasformare il vicino in nemico - dunque in qualcuno da eliminare o da scacciare, rendere profugo - è stata una "guerra delle parole" lunga dieci anni (dalla morte di Tito, 1980, alle prime elezioni pluripartitiche, 1990). In uno scontro che assume queste caratteristiche ciascuno è inesorabilmente "inchiodato" alla dimensione collettiva della propria nazionalità: il noi si trova di fronte un loro, che sommerge l'io, si fatica a distinguere, di nuovo, un tu.
Le guerre balcaniche di fine Novecento hanno fornito, come storicamente è accaduto per ogni conflitto, nuovo materiale psichico alla riflessione e alla clinica. L'orrore della guerra civile inter-jugoslava, gli "eccessi di violenza" che l'hanno attraversata, spingono ad affrontare tematiche etiche ed etologiche, psicologiche ed antropologiche. A riflettere sugli intrecci storici di modernità e di barbarie, di identità e memoria che hanno sconvolto e disgregato le esistenze dei singoli.
Già prima dello scoppio della guerra la Jugoslavia si trasforma, diventa il paese ex - c'è un cadavere da seppellire, un lutto da elaborare. I nuovi confini sconvolgono le geografie interiori, risucchiano le infanzie, costringono a rivedere quanto è essenziale in ogni identità. E il rapporto tra la dimensione individuale e quella collettiva, cruciale nella storia culturale degli slavi del sud, acquista ulteriori significati. Impossibile infatti non considerare la cornice storico-politica, all'interno della quale l'uso pubblico della storia si sovrappone all'uso pubblico della memoria: nella Jugoslavia socialista le celebrazioni pubbliche non sempre coincidevano con le memorie private, le guerre inter-jugoslave degli anni novanta del Novecento sono state accompagnate dalla distruzione dei monumenti ai caduti della seconda guerra mondiale. Oggi mausolei e monumenti dividono, di nuovo, i "nostri" morti dai "loro", ma, al di là di manipolazioni politiche e della ricerca della "verità storica", il lavoro del lutto e della memoria non può essere esaurito dalla dimensione collettiva - che esalta/minimizza il dramma del singolo.
E il rapporto tra la dimensione individuale e quella collettiva, un nodo per la psicoanalisi da sempre teoricamente problematico, incrocia uno degli aspetti più discussi nella pratica clinica del trauma bellico. La storia della guerra del Novecento si riflette nelle metamorfosi subite dal termine che definisce i suoi effetti collaterali: dallo shock da granata della prima guerra mondiale dell'epoca di Freud al PTSD (Post Traumatic Stress Disorder) introdotto per la prima volta nel 1980, per i veterani del Vietnam. Ma il PTSD si trasforma nel tempo. Ormai entrato nel linguaggio comune, del concetto viene fatto un uso onnicomprensivo, emergenziale, politico-psichiatrico. E' con questo acronimo che si affrontano le rovine del day after: per rimettere ordine, ristabilire i confini tra chi osservava e chi è sopravvissuto, tra le vittime e i carnefici, tra l'interpersonale e l'intrapsichico. E sempre più trauma e PTSD faticano a tenere insieme dimensioni tanto diverse: il trauma della nazione - nel suo significato astratto e collettivo - e il Post Traumatic Stress Disorder che focalizza l'attenzione sull'individuo. Ma quest'ultimo, ponendo lo stress dopo il trauma, presuppone che il "fuori" abbia minato il "dentro". E' qui che diventa ardua l'attraversata della terra di nessuno che separa la pace dalla guerra, che converte il passato in presente, è qui che si deve offrire spazio alla posizione dell'io senza dimenticare le connessioni con la ricostruzione politica (culturale, spirituale) del noi.
2 - Il dopoguerra è una fine che stenta a segnare un inizio
La costruzione sociale del trauma di massa può diventare quella sospensione temporale infinita che distoglie dal trauma individuale, o che riporta inesorabilmente ad esso (tanto più laddove la sopravvivenza è legata all'aiuto statale-sociale a sua volta legato all'identità di profugo, ecc.).
Nelle diverse realtà della ex Jugoslavia una lunga esperienza di incontro con persone gravemente traumatizzate (con una netta prevalenza di interventi di gruppo) ha portato a elaborazioni differenti e molteplici, all'uso di metodiche e tecniche davvero varie - disegno, teatro, teatro dell'oppresso, attività ludiche e attività lavorative, laboratori di cucina, atelier di tessitura, arte-terapia, laboratori di scrittura, musica, danza, Sand Play, Emdr.
La scrittura, privata e pubblica, professionale e amatoriale, costituisce un capitolo importante del "curare la guerra". Scrivere, rendere oggettivo qualcosa che in quel momento sta invadendo l'io, significa offrire a quanto accade una possibilità di sistemazione e dunque di senso. Nelle situazioni di assedio, ma non solo, è stato un modo per sopravvivere. Costringere l'io a spostarsi sulla pagina ha agito con la forza della compensazione simile a quella che caratterizza il sogno, (tanto più quando può essere condiviso), come se l'attività onirica operasse come un "sistema archetipico autocurativo della psiche" (Kalsched). Il traboccare di narrative, di versioni diverse e opposte delle stesse vicende, certo, mette in scena un ulteriore piano di conflitto. L'effetto Rashomon, che può rendere difficile pervenire al nucleo di ciò che per ciascuno è stato il trauma maggiore, ha però come conseguenza immediata l'incontro con un diverso punto di osservazione.
Situazioni differenti e improvvisate sono divenute "setting di ascolto" - le donne stuprate sono state accolte dai centri antiviolenza attivi, da prima della guerra, nelle principali città.
Spesso chi offriva aiuto ed ascolto è stato uno straniero, un Altro, che riusciva a diventare quella figura di "terapeuta testimone" che, al di là di facili discorsi sulla necessità di sblocchi emotivi in tempo reale, permetteva di analizzare i vissuti individuali di un dramma collettivo, di confrontarsi con la figura del nemico e con le sue rappresentazioni interne. E che anche la lingua fosse straniera (solo in rare occasioni il terapeuta straniero conosceva la lingua locale), può avere facilitato quelle "conversazioni particolari". In bilico tra mondi diversi - estero e indigeno - in bilico tra l'incredibile orrore della guerra e l'incredibile quotidianità della pace, nella consueta intimità/estraneità dell'incontro terapeutico, in uno spazio vicino/lontano che rende più facile esprimere a voce alta quanto si è subito. All'altro straniero, che naturalmente non è del luogo, e dunque non ha tutte le informazioni per comprendere la situazione, ma nemmeno le identificazioni di appartenenza, si può affidare il proprio racconto. Qualcosa di umanamente difficile da integrare nella propria esperienza, accompagnato quasi sempre da un profondo senso di vergogna - come se ricadesse sulla vittima l'onta di quanto in sua presenza è avvenuto. E' su questa figura che è possibile proiettare il ruolo del salvatore esterno - fidarsi di nuovo di un essere umano per la sua possibilità di accettare quanto di universale c'è nel male ma insieme essere rassicurati dalla sua estraneità al contagio. Una vicinanza non eccessiva lascia aperto uno spazio transizionale. La particolarità dell'ascolto di sé "attraverso" lo straniero crea un diaframma che permette di iniziare a distinguere tra nemico/i interno/i e esterno/i, a risentirsi degni della propria pelle.
(Chi è insieme interno/esterno, per esempio per motivi di conoscenza linguistica, occupa una posizione scomoda. Nel momento in cui i valori sono sconvolti e le difese abituali sospese, dire all'altro, straniero, "tu non mi puoi capire", permette di preservare una parte di potere, un'isola di significato nella quale non si ha bisogno dell'empatia dell'altro. E' una zona franca dove si è fuori dalla sua portata. Forse anche per questo personalmente non ho mai voluto svolgere consultazioni individuali e nel caso di incontri collettivi ho sempre usato l'italiano con un'interprete, pur dichiarando di conoscere la lingua locale.)
Anche la pratica del "nostro" diario (Janigro, 2006) offre la possibilità di avere uno spazio che sposta l'attenzione dal generale al particolare, dagli eventi collettivi al ruolo individuale, costringe a ripensare le possibilità e le responsabilità dell'agire come singoli, permette di ascoltarmi (e di rileggermi) come se anch'io per un attimo potessi essere l'Altro. Ognuno deve scegliere in quale tempo vivere, decidere dove mettere l'accento: sulla guerra, sul passato remoto, su quello prossimo, comune, sul futuro. Ogni spostamento nella cronologia è anche una tacca della propria biografia.
Nel ricordo lo scoppio della guerra è sincronico alla separazione, la sua durata è il viaggio, la partenza verso l'ignoto, la fine della guerra rappresenta un arrivo/ritorno. I temi emotivi si condensano tutti nel ritorno: gioia-paura, gioia-timore della gioia, sollievo, senso di spaesamento. Incredulità: di ritrovare accanto a se stessi la propria nuova identità. Poter parlare a voce alta in gruppo con il proprio nome e cognome, ri-conoscersi di nuovo, comunicare il dolore, incerti fra il non dimenticare, il non perdonare, il non vendicarsi. Ammettere, in bilico tra la memoria e l'oblio, che la guerra è stata, anche, una grande avventura.
3 - La ricerca di una narrazione
Accettare il male, nella terapia e nella teoria, consente di prendere le distanze dal dilemma insolubile: evitare di patologizzare la distruttività senza normalizzarla - il che significherebbe condonarla. Consente la ricerca di una nuova narrazione (singolare/plurale) all'interno della quale l'accento viene posto sulla "ordinarietà". Questo significa evitare lo schema in bianco e nero del bene e del male, là dove la potenza della distruttività scende in campo. Riconoscere gli aspetti liberatori che la violenza può assumere, l'identificazione con l'aggressore come una reazione all'impotenza, il timore che l'incontro con la sofferenza dell'altro trasmetta a noi l'interrogativo: è possibile che siano stati esseri umani a commettere certi atti. Sarebbe d'altronde ingenuo pensare che il timore di scoprire qualcosa di mostruoso, che inquieta, presente in ogni esperienza di ascolto terapeutico, non si presenti con forza nel contatto con un orrore che, per compiersi, ha dovuto annullare l'umano. (Il lavoro con persone vittime di torture costringe il terapeuta a toccare gli estremi di questa ambivalenza e delle proprie identificazioni con la vittima e il carnefice, cfr. Sironi). La paura del terapeuta in ascolto, nominata, richiama la paura - isterica, parossistica - di cui è pregna l'atmosfera scenario della violenza. Mettersi in moto, agire, essere attivi, permette di scaricarla, diventa un modo per sentirsi meno indifesi e vulnerabili. E' quanto, spesso, non è stato concesso alla vittima, è quello che, spesso, costituisce il mondo interiore del carnefice che forse, anche per la sua identificazione con un combattente onnipotente, appare "insensibile", lontano dalla ricerca di una maggiore consapevolezza della propria responsabilità.
Curare il trauma non nega la violenza, certo la umanizza, il riconoscimento collettivo dello statuto di vittime aiuta a ritrovare la dignità, il proprio trauma non isola, ma può unire un gruppo, riconnetterlo con la propria storia. Forse per questo, là dove i musulmani hanno subito lo sterminio, i segnali stradali possono continuare a portare i nomi di luoghi divenuti campi di prigionia, e diventa possibile continuare a vivere "tranquillamente" accanto a fosse che un giorno, forse, potranno restituire tutti i loro morti. Non diventa più necessario annullare il paesaggio che di notte continua a produrre incubi, se si riesce a sentire dentro di sé l'irresistibile forza del sopravvissuto.
Nel caso della ex Jugoslavia shock e stress hanno colpito certo diversamente, ma ripetutamente, l'insieme della popolazione. E' saltata la cornice comune della federazione, che comprendeva un ordine e un codice di esperienza nel quale si inscriveva la storia individuale, la tradizione di famiglia, una cultura e religione nazionale. Con la disgregazione della Jugoslavia prima, con la guerra poi, è questa la rottura storica che disconnette ogni singola parte regionale. L'escalation della violenza ha seguito le linee di intersecazione delle composizioni nazionali: è toccato a tutti ritrovare il proprio spazio e il proprio tempo, metabolizzare la guerra avvenuta in un territorio comune dove si intende la stessa lingua. Il trauma collettivo è stato cumulativo. I diversi livelli - individuale/familiare/comunità/società / - ridiventano significativi nella fase dell'elaborazione del conflitto, tanto più in una situazione nella quale gli assetti post-bellici ridisegnano religioni e confini.
Una riflessione originale e provocatoria sulle caratteristiche della fase post-traumatica è quella proposta da Renos Papadopoulos che vi condensa la sua lunga esperienza con profughi e vittime della violenza politica di diversi paesi. L'evento traumatico non è considerato unicamente come un fattore di distruzione che crea una terra bruciata da risanare attraverso il triangolo virtuoso vittime/carnefici/salvatore. Ha rappresentato certo la cancellazione di qualcosa di pre-esistente, ma altre sue componenti - se valorizzate - possono produrre potenzialità inedite. Una visione tutta ripiegata sul trauma come qualcosa di solamente negativo/distruttivo da superare e annullare immobilizza nello status quo. Uno stesso accaduto non determina lo stesso effetto, uno stesso evento traumatico può avere una reazione negativa (PTSD), neutrale (Resilience), positiva Adversity-Activated Development (AAD).
Questa articolazione costringe a interventi terapeutici più mirati verso il singolo individuo, va in direzione di una concezione della cura del trauma che tiene conto degli approcci sistemici e etnopsichiatrici. E se anche Papadopoulos si riferisce in primo luogo ad un intervento con profughi, la sua griglia di lavoro mi pare particolarmente feconda in una situazione come quella delle guerre inter-jugoslave dove acquisizioni di indipendenza e di autonomia, dalle forti identificazioni collettive, sono state interpolate da episodi drammatici e fasi prolungate di violenza.
Nella fase dello sviluppo post-traumatico grande ruolo assume la modalità in cui si manifesta la memoria collettiva. Nel caso jugoslavo vi sono letture che hanno attribuito alla mancata elaborazione dei traumi provocati dallo scontro civile interno alle nazionalità, avvenuto durante la seconda guerra mondiale, il "revival etnico" di fine Novecento. Oggi in ciascuno dei neo-stati la questione si ripresenta. La trasposizione del trauma, in un paese nato da una guerra e finito con una guerra, non ha risparmiato nessuna generazione: è un Leitmotiv della letteratura, della filmografia e dei manuali scolastici. La generazione nata dopo gli anni sessanta, consumista e intimista, proprio a questa onda lunga del trauma dei padri aveva voluto sfuggire. La storia li ha riacchiappati, la guerra li ha riportati sul campo di battaglia, ora di nuovo si trovano ad elaborare, seppure in modo più personale e inesorabilmente meno eroico (e ci pensano soprattutto il cinema e la letteratura) esperienze e vissuti legati a vicende belliche. Il discorso ufficiale è stereotipato, ripete lo schema che ha portato al conflitto. Le narrazioni mitiche, che influenzano maggiormente i giovani, hanno bisogno di eroi, seppure negativi, di nutrimenti dalle radici più profonde come quelle religiose. La trasposizione transgenerazionale è una narrazione dalle stratificazioni pubbliche e private, la cui amplificazione e diffusione dipendono dall'azione dei media (tema importante che qui può essere solo accennato). E il racconto orale familiare-personale ha il potere di influenzare anche quanti (bambini, ma non solo) non hanno "visto" quanto è accaduto, però hanno sentito ripetere all'infinito i racconti dell'orrore.
4 - Immagini attive
E' anche nel rapporto con le immagini che si misura la nostra attrazione e la nostra repulsione nei confronti della guerra (cfr. Didi-Huberman, 2005). La potenza della guerra, "nostalgia del non umano", si riflette nelle immagini che la trasmettono. Il cielo di Baghdad reso spettacolare dai razzi dove l'effetto estetico prevale sull'etico: "Noi siamo solo un fenomeno estetico", dicevano i cittadini di Sarajevo inquadrati dall'obiettivo dei media. Vedere è il modo attraverso cui entriamo in contatto con la guerra, evento visuale - e nella cultura globale il modello del potere è visuale, siamo soggetti visuali davanti al caminetto della televisione. Della guerra non sentiamo la puzza, non tocchiamo i cadaveri - nel suo ultimo film, Alexandra, Sokurov cerca di usare la pellicola in modo differente, quasi a ottenere l'effetto tridimensionale, per far sentire l'odore della guerra, la pesantezza inesorabile e insormontabile del suo protagonista, il corpo.
La storia della guerra è anche storia delle immagini che la trasmettono - e se si pensa ad una guerra si pensa immediatamente al fotogramma che l'ha eternalizzata. Dalla guerra di Crimea (i soldati in posa, le prime foto di un campo di battaglia sistemato e ripulito a far da set) a quella in corso in Iraq. E le "nuove guerre" esaltano l'esibizione della morte e della violenza attraverso il corpo: il corpo fotografato, fonte e documento, il corpo del nemico ucciso (Saddam). La violazione del corpo, abbinata alla produzione di immagini pornobelliche, per umiliare e terrorizzare chi resta.
Il discorso della guerra penetra, impregna; per "noi" che la guardiamo la guerra diventa una visione. Gli effetti collaterali sono psichici, i nostri sogni di guerra parlano anche del "dolore degli altri" - si pensi come il "silenzio collettivo inconscio ed inconsciamente negato" delle Torri Gemelle è risuonato nella
stanza d'analisi (cfr. Sassone).
Per chi si trova in guerra, l'immaginario si espande. In situazioni difficili da tollerare l'immaginario può compensare l'insostenibile della realtà, diventare una forma di protezione.
Ma un trauma può essere prodotto dalla sola immagine che trasmette la guerra? Nel caso della guerra in ex Jugoslavia, le immagini trasmesse ossessivamente e per molti anni dalla televisione hanno avuto senz'altro un forte impatto - anche se sono pochi gli studi sugli effetti prolungati della radiazione televisiva.
E il trauma si esprime, anche, attraverso una sofferenza dell'immagine. Eccesso di immagini, assenza di immagine, difficoltà di creare un'immagine onirica, distacco dell'immagine dalla capacità di mentalizzazione, come se la retina fosse stata impressionata ma non riuscisse a trasmettere ciò che ha visto alla psiche. L'immagine diventa persecutoria, non riesce a tenere insieme corpo e mente, il trauma condanna ad una fissità di immagini, ad una scissione tra quanto è avvenuto al corpo, al suo sentire, e la possibilità di un'immagine mentale corrispondente. Al "troppo" si sopravvive smembrando e disconnettendo, dimenticando quello che la mano destra ha fatto alla sinistra. E' la dissociazione psichica (e su questo concordano studiosi di formazione diversa) che "contiene" la sofferenza del trauma, il recupero della fluidità di immagini coincide con la "guarigione" - l'essere ridiventati padroni della propria qualità umana di immaginazione. Il rimosso del soldato protagonista di Valzer con Bashir (Ari Folman, 2008) è risvegliato dall'incubo di un amico - per aiutare lui si mette alla ricerca della propria memoria perduta. E, solo alla fine del suo viaggio nel passato, potrà affrontare la vista della realtà.
Dall'inflazione di immagini che trasmettono l'orrrore dell'evento bellico, da un atteggiamento passivo alla creazione attiva di immagini in proprio: l'immagine può curare la guerra? Le visioni esterne ed interiori ci chiedono ascolto, possiamo diventare noi cacciatori di immagini a cui mettere il fermo: "quadri" che nutrano, trasformino, trascendano. Che possono indurci in contemplazione. Un'immagine che ci rapisce offre un rifugio, una base sulla quale potersi appoggiare - può diventare il nostro simbolo al quale chiedere sostegno. Che ci consente di passare dalla visione all'emozione, dall'emozione alla narrazione. Ma per imprimere a questi fotogrammi psichici un senso di vita, riconnetterli in una narrazione capace di rinsaldare le cesure e i legami, l'Uno ha bisogno di avere di fronte un Altro.
Bibliografia in breve:
AA. VV., Umano, disumano (a cura di Pina Galeazzi), Rivista di psicologia analitica, nuova serie n.25, Roma 2008
AA. VV., (edited by Deirdre Barrett), Trauma and Dreams, Harvard University Press, London 1996
AA.VV., Psiche e guerra. Immagini dall'interno (a cura di A. M. Sassone), manifestolibri, Roma 2002
Francoise Davoine, Jean-Max Gaudilliére (2004), Histoire et trauma, Stock, Parigi 2006
Judith L. Herman (1992), Guarire dal trauma, Edizioni Magi, Roma 2005
Georges Didi-Huberman (2003), Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005
Nicole Janigro (a cura di), La guerra moderna come malattia della civiltà, Bruno Mondadori, Milano 2002
Nicole Janigro, La difficoltà di dire io. L'esperienza del diario nel conflitto inter-jugoslavo di fine Novecento, in Adultità, n. 24, Guerini e Associati, 2006
Donald Kalsched (1996), Il mondo interiore del trauma, Moretti & Vitali, Bergamo 2001
Renos K. Papadopoulos (a cura di), L'assistenza terapeutica ai rifugiati, Edizioni Magi, Roma 2006
Francoise Sironi, (1999), Persecutori e vittime, Feltrinelli, Milano 2001
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