Fino al 13 novembre a Torino è aperta la mostra “In prima linea. Donne fotoreporter in luoghi di guerra”, nata da un’idea di Andreja Restek, giornalista fotoreporter di origine croata
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Curata dalla giornalista Stefanella Campana, assieme ad Andreja Restek e Tatjana Đorđević, oltre che dal conservatore di Palazzo Madama Maria Paola Ruffino, la mostra “In prima linea. Donne fotoreporter in luoghi di guerra” presenta 70 fotografie emblematiche scattate da quattordici giovani fotografe impegnate in aree di crisi. Tra loro c’è anche Camille Lepage, fotoreporter francese uccisa a 26 anni in un’imboscata nella Repubblica Centroafricana. Il suo è uno degli scatti più simbolici, una coppia che cammina sopra le ceneri della propria casa distrutta da un bombardamento in Sudan.
Queste donne coraggiose, che lavorano per le maggiori testate internazionali e che provengono da diversi nazioni, hanno lo stesso obiettivo: raccontare, in modo professionale, la verità e i momenti difficili delle vite spezzate.
Condividere le esperienze con le persone vicine e lontane porta a un arrochimento reciproco. Proprio questa era la convinzione che, un anno fa, ha fatto nascere l’idea di questa mostra - riunire le donne fotoreporter di tutto il mondo e condividere le loro esperienze con il pubblico. Come si organizza una fotoreporter prima di partire e quanto coraggio ci vuole per decidere di andare e documentare zone colpite da conflitti o guerre, ce lo racconta l’ideatrice e curatrice della mostra, Andreja Restek.
La fotografia vale più di mille parole. Ma riesce a descrivere davvero quello che ha visto in Siria?
Negli ultimi 4 anni ho seguito la guerra in Siria. Ma nel frattempo sono stata anche in Crimea, Ucraina, Sierra Leone. Sicuramente la guerra in Siria mi è rimasta particolarmente dentro. È una situazione che è peggiorata continuamente in questi quattro anni. All'inizio si poteva incontrare solo la Free Syrian Army, ma poi i gruppi terroristici si sono rafforzati. Il prezzo più grande lo sta pagando la popolazione, come in ogni guerra purtroppo.
Lei è la fondatrice dell’Onlus “L’ambulanza dal cuore forte – ADCF” fondata nel 2013 per portare aiuti umanitari e soccorsi in zone colpite dalla guerra. Come è nata questa iniziativa?
Il progetto “L’ambulanza dal cuore forte – ADCF” è nato dopo la mia prima visita in Siria nel 2012. Tornando dalla prima linea, mi recavo spesso in uno degli ospedali, dove ho conosciuto un medico e i suoi figli che passavano tempo pulendo il sangue dopo ogni bombardamento. Per pulire usavano lo spruzzino che noi usiamo per innaffiare le piante. Erano veramente senza niente. Un giorno ho visto il medico che piangeva perché gli era caduto lo stetoscopio per terra. Quella scena mi ha spezzato il cuore. Quando sono tornata in Italia, ho detto alle mie colleghe giornaliste di Torino che volevo fare qualcosa per aiutare in qualche modo la popolazione in Siria. E allora abbiamo trovato un’ambulanza, l’abbiamo riempita con delle medicine e l’abbiamo portata ad Aleppo. Questa prima iniziativa ha avuto grande successo, così abbiamo fondato una associazione senza fini di lucro per continuare. Purtroppo, l’ospedale è stato bombardato e il medico e i suoi figli sono morti.
Lei è di origine croata e la guerra l’ha conosciuta da vicino. Ha seguito anche la rotta balcanica percorsa dai migranti l’anno scorso. Che sensazione le dà vedere tutta questa gente che scappa dalle guerre e dalla povertà?
Noi spesso dimentichiamo quello che ci è successo. La memoria è cosi breve. Dimentichiamo perché ci difendiamo, vogliamo cancellare le cose brutte. Anche noi in Croazia oppure gli amici in Serbia, ognuno vuole in qualche modo dimenticare la guerra che c’è stata venti anni fa. Ma purtroppo sono cose che non si dimenticano mai. I rifugiati che scappavano attraversando i Balcani erano in larga parte persone ‘normali’, persone come noi, che fuggivano da una guerra simile a quella che anche noi abbiamo conosciuto. Ovviamente tra loro poteva anche esserci qualche criminale, ma sopratutto si trattava di persone che hanno lasciato la propria casa cercando una vita migliore. Secondo me, respingendole, e chiudendo la rotta balcanica, l’Europa si è persa in questa grande emergenza, dove poteva essere l’occasione per mostrare una Europa unita.
Cosa porta nella sua borsa prima di partire?
Porto due macchine fotografiche, le medicine e il nastro che usano gli idraulici nel caso si rompa qualcosa. Poi, porto computer e taccuino perché prendo appunti. Il foulard è obbligatorio, la maglietta con le maniche lunghe anche. E porto tante torce che poi regalo.
Qual’è il suo rapporto con la paura?
La paura è sempre con me. Se un giorno mi lasciasse, mi fermerò, perché in questo caso rischierei troppo la vita.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto