Serzh Sargsyan non poteva più fare il presidente, ed allora si è seduto sulla poltrona da primo ministro. Non prima di aver fatto passare l'Armenia da un sistema semi-presidenziale ad uno parlamentare
Habemus Papam. La fumata bianca che ha ieri portato alla nomina di Serzh Sargsyan a nuovo primo ministro armeno non ha colto di sorpresa nessuno, ma le migliaia di persone che da venerdì scorso presidiano strade e piazze della capitale Yerevan per dire no al passaggio di carica dell’ex presidente speravano ancora in un cambio di direzione all’ultimo momento.
La nomina di Sargsyan di fatto ne cementa il potere nel paese – suo personale e del Partito repubblicano armeno (Pra) del quale è leader. Lo scorso 9 aprile l’ex capo di stato aveva concluso il suo secondo mandato presidenziale, il massimo previsto, passando ad Armen Sarkissian, per vent’anni ambasciatore armeno a Londra, il testimone di una carica che la nuova costituzione investe di funzioni prettamente protocollari.
La principale figura alla guida dei manifestanti scesi in strada, l’ex giornalista e oggi parlamentare dell’opposizione con la coalizione Yelk (Via d’uscita in armeno) Nikol Pashynian, ha parlato di una rivoluzione “di velluto, non violenta” riferendosi a quella che nel 1989 rovesciò il regime comunista cecoslovacco. La violenza però non è mancata: la polizia schierata in assetto antisommossa ha lanciato gas lacrimogeni contro la folla e gli scontri hanno causato il ferimento di circa una cinquantina di persone, nessuno grave. Gli arresti sono stati fino ad ora circa 80.
Da giorni un fiume umano si snoda tra Piazza della Repubblica, Piazza della Libertà fino al Ponte della Vittoria scandendo slogan come “Armenia senza Serzh” e “Serzh è un bugiardo.” L’hashtag “Rifiuta Serzh” (#RejectSerzh) ha dominato i social network sia nel paese che all’estero, grazie alla spinta della potente diaspora armena.
I manifestanti non abbandonano la piazza, ma il cambio non c’è stato.
“Le manifestazioni non sono riuscite a raggiungere l’obiettivo dichiarato di impedire al Parlamento il voto sul nome del premier, non hanno nemmeno scalfito il fronte pro-Sargsyan che infatti ha votato unito”, spiega il giornalista Emil Sanamyan, aggiungendo come a frantumarsi siano stati piuttosto i gruppi all’opposizione, primo tra tutti proprio la coalizione Yelk. “Inoltre, pur essendo ampie, e sotto molti aspetti senza precedenti, probabilmente si sgonfieranno nel momento in cui il dissenso si sposterà da un obiettivo concreto, il no a Sarsgsyan primo ministro, verso altri meno pragmatici, tipo la chiamata a una rivoluzione di velluto attraverso la disobbedienza civile. L'entusiasmo pubblico e l’affluenza sono effimeri”.
Per gli osservatori la nomina di Sargsyan – con 77 voti a favore e solo 17 contrari - conferma i giochi di potere del Partito Repubblicano armeno che l’Economist nel 2007 definì il tipico partito affarista post-sovietico, dagli inestricabili intrecci tra politica e affari. Nel dicembre 2015 un referendum, minato da accuse di brogli, aprì il campo ad una revisione costituzionale che ha cambiato la repubblica da presidenziale a parlamentare. Ciò significa, in pratica, che gran parte del potere esecutivo passa di mano dal presidente al primo ministro - la stessa persona, Serzh Sargsyan.
“Una farsa puramente sovietica”, commenta amara a OBCT Anahit, 21enne studente di giurisprudenza, parlando al telefono da Piazza della Libertà. “La politica in questo paese è sempre la solita minestra, cambia solo il colore della pentola”.
Déjà vu?
Nel corso della discussione precedente al voto, Aram Sargsyan, parlamentare dell’opposizione, ha chiesto ai rappresentanti della maggioranza: “Non vi stanca questo déjà-vu?”
Il già visto - manifestazioni, piazze bloccate, slogan, accuse - risale a dieci anni fa. Allora però scorse sangue. Il voto del 19 febbraio 2008 sancì la vittoria di Sargsyan alla guida del paese contro Levon Ter-Petrosyan, già primo presidente dell’Armenia indipendente, che si era ripresentato come candidato. L’accusa di brogli spinse in strada centinaia migliaia di persone che per dieci giorni campeggiarono nel centro della capitale nel gelo dell’inverno. Finì in tragedia: la polizia caricò i manifestanti, dieci persone morirono, centinaia furono ferite e fu dichiarato lo stato di emergenza. L’elezione di Sargsyan fu confermata.
Il déjà vu è anche riferito alle manifestazioni che hanno caratterizzato la sua decennale presidenza con proteste contro gli aumenti dei prezzi di trasporti e bollette, ma anche decisioni di politica estera come quella che nel 2013 portò Yerevan a seguire Mosca nell’avventura dell’unione Economica Euroasiatica, rifiutando l’offerta di Bruxelles sull’Accordo di Associazione.
Per Stepan Grigoryan, presidente del Centro di analisi su globalizzazione e cooperazione regionale di Yerevan “la nomina a premier sigilla la tendenza verso il totalitarismo. Questo non ha nulla a che vedere con il giudizio sulla sua presidenza, ma quando un esponente politico trattiene il potere per un terzo mandato, in una nuova carica, è segno che il paese si avvia verso un regime totalitario”.
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