Una sorta di diario della propria vita di rifugiato squattrinato, diviso tra la sua forte ambizione di affermarsi come scrittore e la precarietà della sua condizione. E' nelle librerie italiane l'ultimo libro di Velibor Čolić
Nel 1992, l’allora ventottenne Velibor Čolić si ritrovò esule in Francia dopo essere stato soldato dell’esercito bosniaco, quindi disertore, catturato e rimandato al fronte, per poi fuggire di nuovo e mettere parecchia distanza tra lui e la guerra. Non gli piaceva sparare e quando doveva farlo, con il suo AK 47 in dotazione, lo faceva in alto per non correre il rischio di ammazzare qualcuno.
La condizione di rifugiato in Francia lo destinò a Rennes dove, dopo alcuni colloqui con le autorità preposte, poté godere del diritto di ospitalità, con un piccolo sussidio e l’obbligo di frequentare lezioni di lingua francese, pena la perdita del sussidio stesso e del soggiorno nel centro di accoglienza. Da quella esperienza ormai lontana (nel frattempo Čolić si è trasferito in Gran Bretagna dove insegna scrittura creativa) è nato “Manuale d’esilio”, scritto in francese, e uscito originariamente per Gallimard nel 2016, in Italia edito da Bompiani.
Sono trentacinque capitoli, nel libro indicati come “lezioni” del Manuale stesso, che hanno però più la forma di un diario, in cui Čolić, che già aveva esordito in Bosnia come scrittore, racconta la sua vita di rifugiato squattrinato diviso tra la sua forte ambizione di affermarsi come scrittore e la precarietà della sua condizione, costretto ad alloggiare in squallide camerette – tanto più piccole quanto lui è alto e grosso - a contatto con altri connazionali o comunque slavi, compresi disertori russi, che non stanno meglio di lui, dediti all’alcol più economico fino a stordirsi, oppure esuberanti rom che gli offrono la loro amicizia e consigli su come campare in barba a leggi e regolamenti, così svelando la ottusità burocratica che vige dietro a ciascuno di essi, particolarmente in un’Europa ancora così poco integrata.
Di non connazionali, con i quali usare un linguaggio comprensibile, o comunque occasione di scambio per imparare meglio la lingua del posto, ci sono però le donne che incontra nei bar, donne sole, com’è solo lui, con le quali finisce a letto e che compaiono e scompaiono a seconda degli umori, delle condizioni, delle occasioni. E tutto ciò sempre, nella memoria, sullo sfondo della guerra da lui combattuta nella ex Jugoslavia, di spari, raffiche di mitra, attacchi, proiettili volanti, feriti, corpi straziati dalle bombe, bambini soldati, cecchini e una data, quella del 18 maggio 1992, “un tranquillo pomeriggio azzurro e terso”, quando lui se ne sta con quattro amici a bere da un’unica tazza che si passano un surrogato di caffè e vicino ad essi una bambina gioca “con cose invisibili per noi adulti”. Si chiama Alma e “ha sette anni e vive dell’elemosina brutale e volubile che le fanno nei bar gli ubriachi ai quali vende fiori e il suo sorriso di bambina. All’improvviso la vedo cadere, in silenzio. Non si muove più. E’ un po’ strano: un bambino che cade o si rialza subito o piange, la piccola Alma invece non si muove. Quando ci avviciniamo capiamo perché. L’unica e sola pallottola che un cecchino ha sparato dall’alto delle colline ha centrato in piena gola, diligente e frivola, la piccola zigana. Il corpicino è in una postura naturale, come se la bambina dormisse. Il sangue che impregna la polvere intorno a lei è un fardello per tutti noi, per questo maledetto paese e per questa cazzo di guerra”.
Un salto, di cui resta un vuoto temporale, si ha quando ritroviamo Velibor, seppur sempre un po’ squattrinato, a Parigi, invitato come scrittore testimone di una guerra che infuria e che pertanto fa notizia, a importanti trasmissioni televisive. Ha già pubblicato un libro “I bosniaci (uomini, città, filo spinato)” e lo vediamo a colazione con il suo editore francese che gli dà consigli per un nuovo libro (“Nel prossimo devi aggiungere ancora più massacri. Vanno sempre alla grande, i civili, i vecchi, le donne e i bambini che si fanno massacrare…”), quindi un po’ ovunque a portare la sua testimonianza. Ancora donne, nel frattempo, sempre un po’ sole, sempre un po’ strane, di facile bottiglia e facile letto. Poi l’Europa. Ritroviamo Velibor a Budapest dove in un bar fa colpo su una giovane donna in minigonna, a cui piacciono gli amari, facendosi passare per un produttore francese e questa, allora, gli si butta subito tra le braccia, dando mostra di una disponibilità che già il giorno dopo, sognando un futuro di attrice, si esprime con una dichiarazione di amore che naufragherà miseramente a letto nella nudità di carni flaccide e aliti pesanti. Ancora altre tappe. Praga, Venezia, Milano, dove qui, nella città meneghina, il salto del testo mostra un vuoto ancora più vasto, perché lo ritroviamo a casa di una certa Barbara, dal corpo tatuato e solita girare nuda, con la quale, pur nella presenza misteriosa di un altro uomo in casa, sembra avere una confidenza antica. Dove l’ha conosciuta? Quando? Al lettore non è dato sapere, catapultata lì, tra le pagine come un’intrusa, anche se il finale a letto è lo stesso. Sappiamo solo che parla bene il serbocroato e Velibor l’aiuta a specializzarsi meglio. Una futura sua traduttrice? Infine, il ritorno a Strasburgo, ospite, grazie a una borsa, del Parlamento Europeo.
Libro interessante, questo “Manuale d’esilio”, seppur frammentario, ricco comunque di spunti e di quella tipica ironia balcanica che strappa il sorriso. Così pure, quando l’autore non si limita a giocare con le parole per stupire, di poesia. Cos’altro sono le righe che, a un certo punto recitano: “Spengo la luce e mi metto a letto, di nuovo pronto ad ascoltare la campana della cattedrale che scandisce regolare e senza sforzo le mie lunghe ore d’insonnia”?
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