Fotogramma da "La Battaglia della Neretva"

Fotogramma da "La Battaglia della Neretva"

Occupazione nazifascista e lotta partigiana sono stati uno dei pilastri della narrazione cinematografica in Jugoslavia: insieme ai cliché, il ruolo degli italiani occupatori è stato raccontato con sfaccettature e complessità, che i pochi film italiani sull'argomento non restituiscono

19/12/2024 -  Eric Gobetti

Durante la seconda guerra mondiale la Jugoslavia viene invasa, smembrata e occupata brutalmente dalla Germania e dai suoi alleati, tra cui l’Italia. In conseguenza si sviluppa il movimento partigiano più forte ed efficace d’Europa, l’unico a liberare autonomamente il proprio paese, con l’eccezione del contributo offerto dall’Armata Rossa sovietica nella battaglia di Belgrado.

Il nuovo governo federale e socialista guidato da Josip Broz Tito è la naturale conseguenza della vittoria militare sugli invasori e sui collaborazionisti locali. Nei decenni successivi, e fino al 1990, la guerra di liberazione è dunque la principale fonte di legittimazione e di consenso per il nuovo sistema politico.

La narrazione della lotta partigiana è strettamente controllata dal regime e viene veicolata con strumenti diversi: dai monumenti alla toponomastica, dai manuali scolastici ai programmi radiofonici e televisivi.

Cinema e lotta partigiana

Il cinema ovviamente gioca un ruolo centrale nella costruzione di un immaginario collettivo condiviso. Come mostra splendidamente il documentario Cinema Komunisto di Mila Turajlić, il regime investe molte risorse su questo media, producendo decine e decine di titoli a tema partigiano, tanto da dare vita ad un vero e proprio filone cinematografico: i partizanski filmovi.

Per ovvie ragioni politiche la guerra partigiana viene rappresentata in maniera fortemente stereotipata, anche al cinema. In questa narrazione semplificata i popoli jugoslavi, uniti fra loro come nello slogan bratstvo i jedinstvo (fratellanza e unità), avrebbero combattuto e sconfitto gli invasori e i “traditori locali” grazie al loro coraggio e alla loro coerenza ideologica.

Il ruolo degli italiani in questo scenario è però ambiguo. Innanzitutto hanno abitato per secoli alcuni territori poi divenuti parte della Jugoslavia: potevano essere in parte considerati naši (nostri), comunque non come dei semplici invasori stranieri.

D’altronde l’esercito fascista aveva commesso gravi crimini di guerra, ma era notoriamente debole e certo meno “spendibile”, da un punto di vista simbolico, rispetto a quello tedesco. Infine dopo l’Armistizio dell’8 settembre circa 30mila italiani avevano combattuto al fianco dei partigiani locali , un contributo che non poteva essere ignorato, anche perché confermava la validità ideologica del fronte resistente.

Non è un caso dunque che siano pochi i film partigiani ambientati nella zona d’occupazione fascista, e anche in questi il ruolo degli invasori è sempre marginale e assume spesso forme complesse e multiformi.

Il primo dopoguerra

La prima stagione post bellica è sicuramente quella più scopertamente propagandistica. Si tratta degli anni più difficili per il governo di Tito, caratterizzati dall’alleanza con l’Urss, interrotta poi nel 1948 con l’espulsione della Jugoslavia dal Cominform, e dalla tensioni con l’Italia per la definizione del confine, stabilito solo nel 1954.

Il primo film partigiano di ambientazione jugoslava è, non ha caso, sovietico, ed è realizzato in perfetto stile realsocialista. Sulla montagne della Jugoslavia , del 1946, ricostruisce tutta l’epopea partigiana, dalla rivolta del 1941 fino alla liberazione del paese. Le prime scene si svolgono nel Montenegro sotto occupazione fascista e gli italiani sono rappresentati in maniera grottescamente stereotipata come cialtroni dediti alla rapina, al vino e al canto, ma incapaci di combattere.

È un cliché che, come vedremo, si ripeterà spesso nella rappresentazione del cinema jugoslavo: se i tedeschi sono invasori brutali e marziali, gli italiani sono codardi buffoni, che alternano canti, balli e grandi mangiate alle fughe disperate di fronte al nemico.

Il primo partizanski film realmente jugoslavo è Slavica , di Vjeko Afrić, del 1947, ambientato in Dalmazia, dunque nuovamente in zona d’occupazione italiana. L’esercito fascista stavolta si rende protagonista di un vero e proprio crimine di guerra: un rastrellamento mostrato in tutta la sua brutalità.

Anche in questo caso si tratta di un cliché, quello degli italiani bruciacase (palikuće) ribadito in tante narrazioni e anche in altri film successivi. In uno di questi, 13. jul (13 luglio, il giorno dell’inizio dell’insurrezione montenegrina del 1941), prodotto nel 1982, c’è una scena quasi identica, ma con una differenza sostanziale: gli autori del rastrellamento non sono “normali” soldati, ma fascisti in camicia nera.

Al di là della realtà storica, questa rappresentazione vuole ribadire un concetto che diventa centrale negli anni successivi al 1954, ovvero alla conclusione della questione confinaria: le brutalità commesse dagli occupanti vanno attribuite al regime fascista e alla sua ideologia, non al popolo italiano in quanto tale, né al suo esercito.

Il primo esempio in questo senso è rappresentato da Campo Mamula del 1959: il film è ambientato in un campo di concentramento italiano in Montenegro a cavallo dell’8 settembre 1943. Dopo l’annuncio dell’Armistizio gran parte dei soldati del corpo di guardia fa causa comune con gli internati; i soldati vengono a loro volta incarcerati dai tedeschi, sopraggiunti a causa del “tradimento” del comandante fascista.

Per la prima volta dunque c’è una distinzione netta fra italiani e italiani, e i protagonisti, quelli col quale lo spettatore è portato a identificarsi, condividono le stesse sofferenze del popolo montenegrino.

Un ruolo nuovo

La fase di maggior splendore del genere partigiano è quella degli anni Sessanta-Settanta, quando vengono prodotte decine di pellicole sul tema. In questo periodo i film sull’occupazione italiana quasi scompaiono: i nemici sono inevitabilmente i tedeschi e i “traditori locali”. Quando appaiono, gli italiani ricoprono spesso un ruolo nuovo e inaspettato, quello di partigiani.

Il caso più emblematico è quello di La battaglia della Neretva , il kolossal con un cast internazionale dove Franco Nero (il primo attore realmente italiano a interpretare un occupante) è un ufficiale che diserta e sceglie la resistenza. Ma nello stesso anno (1969) esce un altro film a tema partigiano, Most . In questo caso non solo il protagonista è un partigiano italiano in Montenegro, ma la vicenda reale è trasposta di due anni (dal 1942 al 1944) per poter mettere in scena lo scontro fra jugoslavi (e italiani) contro tedeschi.

Non a caso questi sono gli anni del “disgelo”, gli anni dell’amore per la cultura popolare italiana , dei viaggi a Trieste per acquistare jeans e altri prodotti occidentali, gli anni che in definitiva porteranno alla firma del trattato di Osimo (1975), ultimo e definitivo step nella definizione del confine fra i due paesi.

L’ultima stagione della rappresentazione cinematografica degli italiani in Jugoslavia è rappresentata dai due film dedicati al tema dal regista dalmata Lordan Zafranović: Okupacija u 26 slika (L’occupazione in 26 immagini), del 1979, e Pad Italije (La caduta dell’Italia) del 1981. Sono passati dieci anni ma il contesto sociale e politico jugoslavo è radicalmente cambiato.

Fra la nuova costituzione iper-federalista (1974) e la morte del leader carismatico (1980) è cresciuto progressivamente il livello di libertà artistica e culturale e il controllo del regime si allenta anche su temi politicamente sensibili quali la guerra partigiana. L’autore poi appartiene ad una nuova ondata cinematografica (Crni talas – l’onda nera) controcorrente, anticonformista, spesso caratterizzata da venature erotiche e allegoriche.

In entrambe le pellicole la rappresentazione degli italiani sembra riprendere i due cliché consolidati (la cialtroneria buffonesca da una parte, e la brutalità repressiva fascista dall’altra) ma in un clima cupo, grottesco, che richiama La caduta degli Dei (1969) di Luchino Visconti o Salò (1975) di Pier Paolo Pasolini.

In ogni caso si tratta di film d’autore, liberati dalla retorica pedagogica dei decenni precedenti, in cui l’autore si prende il lusso di avanzare addirittura una velata critica alla pratica tipica della Resistenza jugoslava di condannare (letteralmente a morte) l’amore fra partigiani nel corso della lotta.

In definitiva la rappresentazione degli italiani nel cinema jugoslavo a tema partigiano si evolve e si modifica in base alle diverse stagioni politiche, assumendo connotati e sfaccettature molto diverse, talvolta addirittura opposte.

Occhi italiani sull'occupazione in Jugoslavia

Non altrettanto si può dire del cinema italiano nei confronti della resistenza jugoslava. È impossibile in questo caso fare un confronto equilibrato perché i film italiani ambientati nella Jugoslavia durante il secondo conflitto mondiale sono pochissimi.

In generale si potrebbe fare per l’Italia un discorso opposto a quello fatto per il cinema jugoslavo: se per il regime di Tito la guerra partigiana era il principale strumento di legittimazione, al contrario per i governi italiani le occupazioni nei Balcani rappresentavano una pagina vergognosa da rimuovere o ignorare.

Esistono tuttavia almeno tre stagioni diverse anche per la cinematografia italiana in relazione a questo tema. La prima fase è diametralmente speculare a quella jugoslava ed è il prodotto delle tensioni relative alla definizione del confine fra i due paesi.

Emblematica in Italia è la pellicola La città dolente , del 1949, che in realtà si ambienta nell’immediato dopoguerra a Pola.

Nel film il conflitto appare tutto interno alla comunità italiana e assume motivazioni essenzialmente ideologiche. I partigiani jugoslavi appaiono sullo sfondo, come brutali invasori che cantano, ridono, ballano e bevono… esattamente come gli occupanti italiani nei contemporanei film jugoslavi!

Unica figura di spicco della Resistenza è una drugarica (compagna) che pare uscita direttamente dalla propaganda bellica antipartigiana. È una donna bella, bionda, seducente, libera, ma fredda e spietata esecutrice della volontà politica che incarna; rappresenta in sostanza una sorta di capovolgimento simbolico delle virtù dolci, materne, casalinghe, pudiche, attribuite nel film alle donne italiane.

Nei decenni successivi non ci sono a mia conoscenza nel cinema italiano rappresentazioni dell’occupazione in Jugoslavia. Il tema è quasi tabù, e quando viene affrontato con onestà suscita non pochi grattacapi ai protagonisti. Basti pensare alla parabola della trasposizione cinematografica del romanzo di Ugo Pirro, Jovanka e le altre , “spostato” nella zona d’occupazione tedesca in Slovenia per poter essere approvato dalla censura.

Siamo nel 1960, e mentre un film italiano non può permettersi di rappresentare negativamente la brutale occupazione (e la prostituzione indotta nelle donne slovene), la Jugoslavia ha appena prodotto il già citato Campo Mamula dove gli italiani sono mostrati come vittime e non come carnefici.

Nuovi stereotipi

Solo a partire dagli anni Duemila, ampiamente dopo la fine della Jugoslavia come stato unitario, l’Italia produce alcuni film di ambientazione jugoslava. Siamo nella stagione dell’uso politico con obbiettivi revisionisti della vicenda delle foibe, e nel giro di vent’anni vengono realizzate ben tre pellicole su questo tema, tutte prodotte o coprodotte dalla Rai: Il cuore nel pozzo (2005); Rosso Istria (2018) e La rosa dell’Istria (2024).

Nonostante la differente ambientazione storica e geografica (le foibe istriane, la resa dei conti di fine guerra e l’esodo), la rappresentazione dei partigiani jugoslavi è molto simile e fortemente stereotipata. I resistenti sono mostrati come individui senza scrupoli, animati da un odio inestinguibile e senza reali motivazioni morali che non siano un cieco istinto di vendetta.

È un immaginario fortemente razzista, in cui la distinzione tra identità nazionale e ideologica è raramente rappresentata, se non con lo scopo, come in Rosso Istria, di rappresentare i fascisti come i veri e unici eroi nazionali.

In conclusione si può dire che le rappresentazioni dei rispettivi soggetti in Italia e in Jugoslavia siano state molto diverse. Nel regime di Tito, nonostante un sistema autoritario a partito unico, c’è stata un’evoluzione nella rappresentazione degli italiani, una visione sfaccettata e sempre più complessa col passare dei decenni. Nonostante la brutale realtà dell’occupazione subita, domina l’immagine di un esercito vittima del suo regime, unico vero responsabile dei crimini commessi.

Al contrario in Italia, nonostante la libertà politica, nessun regista ha mai avuto la volontà, il coraggio o semplicemente i finanziamenti per mostrare sul grande schermo la realtà dell’occupazione. I partigiani che combattevano per liberare il proprio paese da un’ingiusta e brutale invasione, sono stati sempre mostrati come volgari e spietati assassini, e la rappresentazione è addirittura peggiorata dal 1949 a oggi.

Anche in questo ambito dunque domina la cattiva coscienza e la disonestà intellettuale nei confronti di un popolo invaso e ridotto in schiavitù. Un popolo che non solo ha saputo risollevarsi e liberarsi da quell’oppressione, ma è stato anche in grado, a posteriori, di rileggere quella storia trovando il modo di assolvere gli invasori, accusandone soltanto la leadership.

A maggior ragione è stupefacente l’incapacità italiana non solo di fare i conti con i crimini commessi, ma anche di mostrare rispetto per chi un percorso di autocoscienza ha provato almeno a farlo.


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