Delusi, disincantati, esausti. Sono queste spesso le sensazioni dei sopravvissuti ai conflitti degli anni '90 in ex Ju e delle famiglie delle vittime. Ritengono che la giustizia tradizionale abbia fallito e che anche in merito alla cosiddetta giustizia di transizione si sia fatto troppo poco. Se ne è discusso in un recente convegno
(Originariamente pubblicato sul blog del progetto “Changing the Story ” realizzato dall’Università di Leeds)
La coalizione REKOM, che riunisce diverse organizzazioni della società civile dei paesi dei Balcani occidentali, in collaborazione con il Centro per il diritto umanitario di Belgrado, ha a fine 2020 organizzato la 13° edizione del Forum per la giustizia di transizione , svoltasi online tra il 21 e 22 dicembre. Gli esperti e operatori invitati hanno discusso lo stato dell’arte del processo di confronto con il passato nei paesi ex jugoslavi, soffermandosi su varie questioni, tra cui la giustizia di transizione , le politiche della memoria e la ricerca delle persone scomparse .
Dalla fine delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia, i cittadini dei paesi ex jugoslavi si confrontano con le conseguenze della violenza bellica e con le divisioni sociali da essa causate. Pur essendosi sviluppata lungo un percorso difficile e discontinuo, la giustizia di transizione ha avuto un impatto concreto sulla vita dei semplici cittadini. Tuttavia, le famiglie e le associazioni dei sopravvissuti, che hanno investito il massimo sforzo emotivo in questo percorso, spesso si sono sentiti esclusi dai processi di giustizia di transizione, e oggi molti sopravvissuti e i loro familiari si sentono delusi, disincantati ed esausti.
È opinione diffusa che la mancanza di un’adeguata risposta ai bisogni e alle sofferenze delle persone sopravvissute alle massicce violazioni dei diritti umani riduca la possibilità di raggiungere una pace e una riconciliazione durature tra le parti precedentemente coinvolte in un conflitto. Restano però aperte molte questioni legate a questa problematica. È possibile adottare un approccio universale per affrontare il passato e per rispondere ai bisogni delle persone sopravvissute, oppure la giustizia di transizione può, e deve, essere costruita su misura per le esigenze di ogni singola persona? Quanto è realistica questa seconda ipotesi, considerando le difficoltà che comporterebbe? Inoltre, può la giustizia, di qualunque tipo, soddisfare adeguatamente le esigenze delle persone che hanno sofferto molto a causa della guerra? Quali esigenze di giustizia, o di altro tipo, devono essere soddisfatte affinché il processo di costruzione della pace abbia reali possibilità di successo?
Uno dei relatori alla conferenza di Belgrado ha suggerito che, per costruire il futuro dei paesi post-jugoslavi, sarebbe meglio focalizzare l’attenzione sulle intere società piuttosto che sulle sofferenze individuali. Le discussioni che hanno avuto luogo nel corso della conferenza ruotavano attorno a queste complesse questioni. La maggior parte degli esperti ha sottolineato – citando diversi aspetti emersi dalle loro ricerche o basandosi sulle esperienze vissute in prima persona – l’importanza di tenere conto delle esigenze individuali dei sopravvissuti, comprendendo, al contempo, che le esigenze individuali sono legate anche alla situazione generale nella società.
A differenza di altri paesi, come il Sudafrica e il Ruanda, che hanno creato le commissioni di verità per fare i conti con i crimini di guerra avvenuti in passato, i paesi ex jugoslavi hanno posto le loro speranza soprattutto nella giustizia retributiva. Il modello retributivo si basa su un approccio top-down: punire i perpetratori dei crimini sottoponendoli a procedimenti penali. Nonostante il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia abbia avuto un ruolo importante nello stabilire quanto effettivamente accaduto durante le guerre degli anni Novanta, gli esperti e gli studiosi ormai da tempo sottolineano i limiti dei tribunali come strumento per raggiungere la riconciliazione. Come evidenziato durante la conferenza, la giustizia retributiva è stata spesso accusata di aver “promesso troppo e fatto troppo poco”, promuovendo discorsi normativi che a volte sono in contrasto con la realtà vissuta. I principi altisonanti di pace, giustizia e riconciliazione, pur sembrando universali, possono rivestire un particolare significato per alcune persone. Le politiche volte a promuovere l’implementazione di questi principi hanno spesso portato ad alcune conseguenze indesiderate, ad esempio creando ulteriori divisioni tra le comunità etniche e hanno avuto effetti negativi, anziché positivi, sulle battaglie legali portate avanti dai sopravvissuti.
La creazione della coalizione regionale REKOM ha rappresentato un tentativo di proporre un approccio alternativo per confrontarsi con il passato. Nel 2005, tre organizzazioni per i diritti umani con sede a Belgrado, Sarajevo e Zagabria, contrarie all’approccio top-down promosso da alcune organizzazioni internazionali e dalle autorità locali, hanno lanciato un’iniziativa allo scopo di coinvolgere più attivamente le associazioni dei sopravvissuti nei tentativi di accertare la verità e di confrontarsi col passato. Allo stesso tempo, i fondatori della coalizione REKOM hanno creduto che, data la dimensione regionale delle guerre jugoslave, la partecipazione dei governi di tutti i paesi ex jugoslavi all’iniziativa REKOM fosse un presupposto necessario per accertare i fatti avvenuti durante le guerre e per impedire la strumentalizzazione dei conflitti degli anni Novanta a fini politici.
REKOM oggi riunisce oltre 2000 organizzazioni e singoli individui dei paesi dei Balcani occidentali che stanno compiendo uno sforzo senza precedenti per promuovere una maggiore inclusività dei processi di giustizia di transizione. Dal 2007 al 2011 REKOM ha organizzato 127 conferenze in sette paesi dell’ex Jugoslavia a cui hanno partecipato diverse organizzazioni della società civile, per discutere della possibilità di istituire una commissione regionale per l’accertamento dei fatti relativi ai crimini di guerra e ad altre gravi violazioni dei diritti umani commesse sul territorio dell’ex Jugoslavia tra il 1991 e il 2001. Tuttavia, la riluttanza dei governi di quasi tutti i paesi ex jugoslavi a partecipare, ufficialmente e costantemente, a questa iniziativa e la ritrosia degli stati membri dell'UE ad assumere un ruolo più decisivo nell’intero processo hanno impedito alla coalizione REKOM di realizzare appieno gli obiettivi prefissati.
I governi di tutti i paesi della regione post-jugoslava continuano a mostrare una mancanza di volontà politica di intraprendere sforzi collaborativi per costruire una visione condivisa del passato. Ancora oggi le narrazioni sul passato costruite e diffuse nella regione, soprattutto durante gli eventi commemorativi, sono di stampo esclusivista ed etno-nazionale.
I relatori alla conferenza di Belgrado hanno riflettuto anche sull’attuale “industria della memoria” in Bosnia Erzegovina, Serbia, Croazia e Kosovo, giungendo alla conclusione che i leader politici continuano a strumentalizzare le esperienze dei sopravvissuti e ad attribuirne un valore solo se risultano funzionali alla loro retorica. Ad esempio, Lejla Gačanica ha parlato del caso della città di Srebrenica dove i leader politici serbo-bosniaci continuano a rifiutarsi di riconoscere le dimensioni del crimine commesso nel 1995 contro la popolazione bosgnacca. Questo caso dimostra come la manipolazione e la negazione dei fatti accertati relativi ai crimini commessi durante la guerra incidano pesantemente sulla vita quotidiana delle persone che soffrono a causa di questi crimini. La studiosa kosovara Vjollca Krasniqi e la sua collega bosniaca Sabina Čehajić-Clancy hanno sottolineato l’importanza del ruolo delle organizzazioni della società civile nel combattere il negazionismo e nel decostruire le narrazioni compatte sul passato, creando uno spazio pubblico aperto a diverse esperienze e racconti. La raccolta delle storie personali e la loro presentazione, ad esempio, nell’ambito di alcuni eventi culturali o mediatici, possono contribuire a cambiare il modo di percepire l’Altro.
Mentre la creazione di uno spazio per far emergere storie personali può contribuire a sfidare le consolidate interpretazioni del passato, la ricerca delle persone scomparse è di fondamentale importanza per restituire dignità ai sopravvissuti, che spesso invece vengono trattati come meri numeri nelle lotte politiche.
Manfred Nowak, membro del gruppo di lavoro dell’Onu sulle sparizioni forzate o involontarie, ha ricordato che “la persistenza [del problema] delle persone scomparse ancora oggi rappresenta uno dei principali ostacoli che impediscono ai popoli di unirsi e di fidarsi l’uno dell’altro”. L’incertezza sulle sorti dei propri cari e sulle circostanze della morte di ogni singola vittima mina le relazioni tra le comunità e rende più difficile il raggiungimento di una pace sostenibile.
Nataša Kandić, fondatrice del Centro per il diritto umanitario di Belgrado, ritiene che il problema delle persone scomparse debba essere trattato non solo come una questione umanitaria, ma anche come una questione politica perché qualsiasi passo in avanti su questo fronte dipende fortemente dalla volontà politica dei paesi ex jugoslavi di condividere informazioni sulle località in cui si trovano le fosse comuni e le singole sepolture. Nataša Kandić sottolinea inoltre che “è estremamente importante prestare attenzione ad ogni singola vittima e rivelare tutti i nomi, non numeri, bensì nomi. Dobbiamo pubblicare i dati sulle persone scomparse, solo così possiamo far luce su quanto accaduto, sperando che i cittadini che dispongono di informazioni [pertinenti] si facciano avanti”. Quindi, ascoltare le storie delle vittime, dei perpetratori e dei testimoni dei crimini di guerra è di fondamentale importanza per accertare la verità.
A differenza di altri paesi dove sono avvenute le sparizioni forzate di massa, come Iraq, Argentina e Sri Lanka, l’enorme lavoro svolto dalla Commissione internazionale per le persone scomparse per localizzare le fosse comuni sul territorio dell’ex Jugoslavia e identificare i resti delle vittime può essere considerato come un successo. Tuttavia, nei paesi dell’ex Jugoslavia si stanno ancora cercando 10.170 persone scomparse nelle guerre degli anni Novanta.
I relatori alla conferenza hanno sottolineato che negli ultimi anni le autorità dei paesi ex jugoslavi hanno fatto troppo poco per accelerare la ricerca delle persone scomparse. Con il passare del tempo e la progressiva mutazione del suolo, diventa sempre più difficile localizzare le sepolture, rischiando di lasciare senza risposta le domande dei familiari delle vittime sulle circostanze della morte dei loro cari.
La questione delle persone scomparse dimostra come il destino di ogni singolo individuo pesi non solo sulla sua famiglia, bensì sull'intera società. Come dimostrato da Stephanie Schwandner-Sievers, autrice di uno studio sulle persone scomparse in Kosovo, il tentativo di focalizzare l’attenzione sul nesso tra le esigenze delle persone sopravvissute e più ampie questioni sociali potrebbe contribuire a controbilanciare il fascino che il nazionalismo esercita sulle persone che si sentono deluse e abbandonate. Stephanie Schwandner-Sievers sostiene che le persone vulnerabili tendono a cercare un senso di sicurezza nelle narrazioni consolidate che rischiano di portare a un’ulteriore segregazione etnica e spesso vengono tramandate di generazione in generazione.
Lungi dall’essere un problema circoscritto allo spazio post-jugoslavo, le ideologie nazionaliste rappresentano una sorta di narrativa messianica per le persone disperate, uno scudo per proteggersi dalle presunte minacce esterne. Ed è per questo che la giustizia di transizione dovrebbe compiere un cambio di rotta “trasformativo”, allargando i suoi obiettivi, spingendosi oltre la giustizia penale per affrontare anche le ingiustizie socio-economiche. Stando alle parole di Slađana Lazić, una delle relatrici alla conferenza di Belgrado, tale cambiamento permetterebbe, tra l’altro, di “collegare gli stupri di guerra e [la questione dei] bambini nati da questi stupri con l’attuale problema del femminicidio e della violenza di genere”. Le tesi sopra esposte, basate su ricerche empiriche, sono in linea con la principale conclusione a cui si è giunti nel corso della conferenza, cioè con l’idea che un vero cambiamento nell’ambito della giustizia di transizione può avvenire solo se vengono prese in considerazione le esigenze di ogni singola persona sopravvissuta, affrontando, al contempo, le ingiustizie che coinvolgono l’intera società.
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