Una nonna, una madre e una figlia: è al femminile l'universo che ci racconta “Capelli dappertutto”. Una recensione
Ognuno vive o esorcizza o racconta il dolore di una perdita a suo modo. Con “Capelli dappertutto” Tea Tulić, giovane scrittrice croata (Rijeka, 1978) al suo primo romanzo, lo fa con garbo e naturale tenerezza, con una sovrapposizione di pathos e humour che rendono il libro di una dolcezza struggente, intimista e quasi leggiadra, abissalmente lontano dalle narrazioni elegiache o disperanti di tanta letteratura del dolore. Tutt’altro approccio esistenziale e narrativo, ad esempio, rispetto all’ineluttabile malinconico declino di Hermann Castorp ne La montagna incantata di Thomas Mann o allo sguardo metafisico in Diario di un dolore di Clive Staples Lewis.
In “Capelli dappertutto” l’universo di riferimento è femminile: una nonna, una madre e una figlia sono le figure principali che attraversano il libro. Di loro non conosciamo i nomi. Di fronte alla malattia senz’appello della madre le tre donne sperimentano nuovi modi di relazionarsi l’una all’altra e prendersi cura di sé. La nonna, ottantasettenne e malata, oscilla tra la lucida pulsione - propria dell’antropologia senile - del “sistemare le cose” (controllare che le banconote custodite siano ancora in corso, organizzare gli incombenti per il suo post mortem, sistemare i conti, assegnare le catenine d’oro alle eredi) e la soggezione a fantasmi e superstizioni. La mamma si dipana attraverso la malattia - che la corrode, ne mina l’autonomia, ne porta via il corpo - e i frammenti di presente e di passato narrati dalla figlia: istantanee che restituiscono il ritratto di una donna dolcemente forte, saldamente ordinaria e insieme capace di andare oltre gli schemi, indisponibile a lasciarsi abbattere finché il male non la soverchia.
L’io narrante è la figlia - una ragazzina di età non dichiarata - che cuce i ricordi, vive ogni istante del presente nutrendolo anche di dettagli, e nel racconto che incede recupera luoghi, oggetti, memoria, persone. Ha badato a pappagallini australiani, cani, tartarughe d’acqua dolce, accudisce la nonna, scaccia via i sogni cattivi, compra il tiramisù e medicine alternative per la mamma, si occupa di lei perché i ruoli si invertono: “Lascia che ti aiuti a risciacquare i capelli. A pulire la tazzina. Non fumare. Adesso sei tu la mia bambina”.
Tutt’intorno ruotano altre figure sia familiari (il padre, il fratello, la sorella dell’io narrante) sia esterne, vicine di casa che cucinano sarme tanto quanto donne maledicenti, medici, fidanzati.
Il libro si muove su piani temporali e momenti anagrafici diversi: presente e passato si intrecciano e sono talvolta indistinguibili. E’ profondamente universale e intimo al tempo stesso. Nonostante il tema difficile, ha una freschezza e una delicatezza straordinarie. I testi sono schegge narrative che arrivano direttamente al punto: uno stile che non concede respiro, molto personale, incalzante, fatto di frasi fulminee ed esatte di spiccata purezza letteraria. Ricorda lo stile asciutto di Agota Kristof.
Ogni brano è indipendente, pur sorretto dal filo conduttore diacronico della malattia e della morte della mamma. E del dolore, sotteso ma pervasivo, che in fondo diventa esso stesso - di fronte alla enormità della vita - frammentario e discontinuo.
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