L'uomo che non poteva restare in silenzio - Festival internazionale di Cannes

L'uomo che non poteva restare in silenzio - Festival internazionale di Cannes

Tomislav Buzov non ha potuto tacere di fronte all'ingiustizia, e per questo è morto. Con "L'uomo che non poteva restare in silenzio", miglior cortometraggio all'ultimo festival di Cannes, il regista Nebojša Slijepčević racconta un atto di dignità e scelte morali durante la guerra in Bosnia Erzegovina

07/06/2024 -  Branimira Lazarin

(Originariamente pubblicato da Novosti , il 24 maggio 2024)

Il 27 febbraio del 1993 un treno che viaggiava sulla linea Belgrado-Bar inaspettatamente sì fermò ad una stazione fatiscente a Štrpci, in Bosnia Erzegovina, vicino al confine con la Serbia. Alcuni membri armati dell’Esercito della Republika Srpska salirono sul treno con l'intento di individuare i passeggeri con nomi musulmani. Dopo aver fatto scendere dal treno venti civili, li portarono in una direzione sconosciuta e li giustiziarono. Tra le vittime c’erano diciannove bosgnacchi e un uomo di nazionalità croata, Tomislav Buzov, ufficiale in pensione dell’Esercito popolare jugoslavo (JNA), ucciso per essersi opposto al rapimento dei passeggeri bosgnacchi.

Il regista Nebojša Slijepčević è venuto a conoscenza dell’atto eroico di Tomislav Buzov leggendo un commento del noto giornalista Boris Dežulović che denunciava l’oblio che avvolgeva la figura e la tragica sorte di Buzov. Nel frattempo sono state inaugurate due targhe commemorative in ricordo dell’uomo che non poteva restare in silenzio, una nella sua città natale, Castelnuovo (Kaštel Novi), nei pressi di Spalato, e l’altra a Belgrado, dove Buzov viveva con la sua famiglia. È stato però solo con il film di Nebojša Slijepčević, vincitore della Palma d’oro per il miglior cortometraggio alla 77° edizione del Festival di Cannes, che la storia di Tomislav Buzov ha ricevuto l’attenzione che merita.

I dilemmi etici sono lo yin e lo yang dell’arte di documentare. Quanto più pervasiva è la dimensione fattuale, tanto più forte è il contrasto. Quali dilemmi la assillavano durante la realizzazione del film?

C’erano tanti dilemmi. L’intero processo creativo è stato caratterizzato da dilemmi etici. Avevo il diritto di occuparmi di un argomento così complesso che non mi riguardava, se non indirettamente? Questa era una delle principali domande che mi ponevo. Parliamo di un evento accaduto nel 1993 in un treno fermato in Bosnia da una formazione paramilitare serba con l’intenzione di individuare i passeggeri con nomi che sembravano musulmani. Quindi, in una prospettiva strettamente fattuale, questo argomento dovrebbe essere affrontato da un regista serbo, o forse montenegrino. Seguendo invece l’evoluzione degli eventi politici, sarebbe logico che se ne occupasse un regista bosniaco, e solo successivamente un regista croato, francese, bulgaro o di qualsiasi altra nazionalità.

Fortunatamente, la logica del cinema non equivale alla logica etnica…

Esatto. Ho osservato la storia da una prospettiva diversa. Un uomo, che apparentemente non c’entrava nulla con quanto stava accadendo, si era infiltrato nel flusso degli eventi. Non so se quell’uomo si sentisse croato, però aveva un nome croato. Poteva anche stare zitto, eppure aveva reagito ad un’ingiustizia, pagando con la vita. La sua è una storia atemporale, universale. Tutti noi spesso, se non addirittura quotidianamente, ci troviamo di fronte a simili dilemmi etici. Che persone siamo se tacciamo davanti all’ingiustizia?

Il suo film però non prescinde dalla realtà politica ed etnica. Quali criteri ha seguito?

Il film si sviluppa intorno a coordinate politiche ben precise. Abbiamo però lasciato certi aspetti sullo sfondo, evitando di trasmetterli direttamente agli spettatori. Qui sorge un profondo dilemma etico. Abbiamo riflettuto attentamente su quanta finzione introdurre in una storia ispirata ad un evento realmente accaduto i cui protagonisti sono nostri contemporanei. Penso innanzitutto alle famiglie delle vittime della strage che, giustamente, saranno sensibili a tutti i dettagli del film, accorgendosi di eventuali inesattezze.

Allora lei come definirebbe il film?

Ribadisco che non si tratta di un adattamento cinematografico di un evento reale, bensì di una fiction ispirata a fatti realmente accaduti. A parte i protagonisti, tutti i personaggi e i nomi sono inventati.

È risaputo che il massacro di Štrpci fu commesso dai membri dell’Esercito della Republika Srpska guidati da Milan Lukić, condannato dal Tribunale dell’Aja all’ergastolo per altri crimini contro i civili bosgnachi a Višegrad. Per la strage di Štrpci sono invece state condannate dieci persone davanti ai tribunali della Bosnia Erzegovina e del Montenegro. Tra questi vi è Nebojša Ranisavljević, comandante della brigata di fanteria “Skakavac” dell’Esercito della RS, condannato nel 2003 dalla Corte suprema del Montenegro a quindici anni di reclusione. Altri membri dell’Esercito della RS responsabili dei fatti di Štrpci sono stati processati davanti a tre organi giudiziari – il tribunale della Bosnia Erzegovina, la Corte suprema di Belgrado e il tribunale di Podgorica – arrivando a sentenze molto diverse tra loro, pur trattandosi dello stesso crimine. Come si sono svolte le sue ricerche durante i preparativi per la realizzazione del film? A quali fonti ha attinto?

Durante la ricerca mi ha aiutato molto il Centro per il diritto umanitario di Belgrado, grazie al quale ho potuto accedere al verbale di uno dei processi per il massacro di Štrpci. Come lei ha sottolineato, negli ultimi trent’anni si sono svolti diversi procedimenti penali contro alcune persone accusate del rapimento di passeggeri di quel treno. Per quanto io ne sappia, le famiglie delle vittime ancora aspettano che sia fatta giustizia. Non è ancora stata fatta chiarezza sui mandanti né su quanto effettivamente accaduto su quel treno, anche se alcuni indizi suggeriscono che l’operazione fosse stata pianificata dai vertici della Jugoslavia di allora.

Ho avuto accesso ad un corposo dossier di mille pagine, contenente diverse testimonianze, dove però non vi è alcuna menzione di Tomislav Buzov. Sono venuto a conoscenza delle dinamiche del rapimento di Buzov non dalle testimonianze rilasciate nell’ambito dei procedimenti penali, bensì dalle conversazioni con suo figlio e dalle interviste rilasciate dai suoi familiari, i quali hanno saputo i dettagli dal alcune persone che erano su quel treno, ma non hanno mai testimoniato in tribunale. A distanza di tanti anni, è quasi impossibile ricostruire i fatti con esattezza, però il contesto dell’accaduto è attendibile.

Dal punto di vista del linguaggio e dell’estetica cinematografica, il suo film rimanda ad una suspense hitchcockiana, situandosi a metà strada tra L’uomo che sapeva troppo e L’altro uomo. Quindi, lo possiamo definire un cortometraggio narrativo?

Da regista, tendo ad attingere al linguaggio del cinema classico. Anche nel film documentario ho cercato di raggiungere la cosiddetta espressione tradizionale. Da un punto di vista prettamente cinematografico, è un linguaggio che sento vicino. Forse è un po’ fuori luogo parlare di ispirazione cinematografica per un’opera che affronta un evento tragico, però in questo caso mi sono preparato studiando film che sviluppano la suspense in un tempo e spazio ristretto. L’intero film è stato pensato con precisione fin nei minimi dettagli, quindi siamo riusciti ad utilizzare tutte le riprese fatte. In questo film nulla è casuale, nessuna scena è di troppo. Le riprese sono durate quattro giorni, è lo standard di Hollywood.

Il pubblico sarà curioso di conoscere qualche dettaglio sulla location del film…

Considerando che l’intero film si svolge in un treno fermato in una stazione, abbiamo cercato un luogo che somigliasse alla stazione di Štrpci. Si è rivelata un’impresa difficile, perché in Croazia non ci sono molti binari dismessi. Alla fine abbiamo trovato una location in centro a Zagabria. Alla stazione centrale abbiamo notato un binario perfettamente adatto alle nostre esigenze, quindi lo abbiamo utilizzato nel film senza aggiungere alcun effetto speciale. È un po’ triste che quel luogo sembri un’autentica location cinematografica, però su quel binario davvero si respira un’atmosfera più vicina ad un posto sperduto nel 1943 che ad una stazione in Bosnia nel 1993.

Soffermiamoci sull’attuale momento politico in cui risuonano gli echi degli anni ’40. Lei ha presentato il suo film sollevando un interrogativo universale: ci dobbiamo opporre alla violenza anche se non ci colpisce direttamente? Come commenta l’attuale situazione politica?

Non credo di essere capace di spiegare come siamo arrivati a questo punto. Da un lato, la situazione attuale non mi stupisce più di tanto. Negli ultimi anni si sono susseguiti tanti eventi a cui avrei potuto attingere come fonte di ispirazione per girare un film simile a quello che ho realizzato. Nel lasso di tempo intercorso tra la scrittura della sceneggiatura e l’inizio delle riprese è scoppiata la guerra in Ucraina, poi il conflitto israelo-palestinese, e ora assistiamo alla distruzione genocida di Gaza. Tutti questi eventi fanno sorgere gli stessi interrogativi. Quanto sta accadendo nel mondo ci riguarda? Come ci riguarda? Possiamo semplicemente far finta che non stia accadendo nulla? E come se non bastassero tutte le guerre che ci circondano, nelle nostre piazze sono comparsi quegli “inginocchiati” [il riferimento è agli antiabortisti] che portano avanti un’agenda molto rigida volta a limitare i diritti delle donne. Sia dal punto di vista locale che globale, mi sento come un passeggero di quel treno su cui viaggiava Tomo Buzov e mi chiedo in continuazione: “Quanto sta accadendo mi riguarda?”. Nel frattempo, anche il Movimento patriottico, dall’opposizione di destra, è passato ad un livello più alto della scena politica croata, entrando a far parte del nuovo governo.

Lei come vede l’attuale scena politica in Croazia?

Il Movimento patriottico promuove un’agenda politica che attualmente, a mio avviso, riceve un’attenzione esagerata rispetto al reale sentimento politico della maggior parte della popolazione. È una mia opinione, basata su ciò che vedo e sento nella società. Le dichiarazioni dei rappresentanti del Movimento patriottico rimandano alle idee della destra più nefasta. Vogliono decidere per noi chi amare, come vestirci, cosa credere.

Ebbene, io credo che solo un’esigua minoranza di cittadini croati approvi queste idee filofasciste e questo modo di governare il paese. Non credo che certi valori di civiltà sviluppati nel corso della storia possano essere sovvertiti da un giorno all’altro. E noi, che siamo contrari a ogni idea fascista, resteremo in silenzio abbassando lo sguardo? Oppure, come ha fatto Tomo Buzov, chiederemo: Chi siete e chi vi ha dato il diritto di comportarvi così?

L’uomo che non poteva restare in silenzio ha conquistato Cannes. Dove si colloca oggi la cinematografia croata nel contesto europeo? Esiste un cinema europeo?

Penso che quella del cinema europeo sia una bella idea. Però per i piccoli paesi, come la Croazia, è molto importante avere una cinematografia nazionale con la N maiuscola. Rischiando di sembrare “sovranista”, sono convinto che, se vogliamo mantenere in buona salute il cinema croato e dimostrare la sua maturità, dobbiamo (e possiamo) realizzare film ispirati alle vicende locali e rivolti al pubblico locale. I film che rischiano di non essere selezionati a nessun festival internazionale e di non essere compresi da nessuno fuori dalla Croazia, sono le opere più importanti per il nostro paese. Dovremmo creare una cinematografia autonoma e autoctona di rilievo nazionale, sia dal punto di vista dei temi che dei valori. Certo, è bello andare a Cannes. Però è un evento molto distante dalla mia esperienza e da quella della maggior parte dei cineasti.


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