Tour turistici a Zagabria declinati in chiave calcistica. Un'insolita e interessante guida dedicata alla capitale della Croazia, edita da Edizioni Incontropiede
Le chiamano specialist guides, o più semplicemente “seconde guide”. Sono quei supporti integrativi alle classiche guide turistiche che propongono itinerari alternativi, oppure svelano, all’interno dei tragitti canonici, storie, curiosità, dettagli noti perlopiù a una ristretta cerchia di autoctoni. Il loro obiettivo è spesso quello di tracciare vere e proprie topografie tematiche, andare alla ricerca delle varie anime di una città nascoste dietro al profilo monumentale o al racconto convenzionale, offrire indicazioni fuori rotta. Alcune case editrici vi hanno dedicato collane (una delle più celebri è “Cities of the Imaginations” di Signal Books ) o interi cataloghi; grandi scrittori, magari sotto pseudonimo, le hanno trasformate in piccoli gioielli letterari. Preziosi vademecum per viaggiatori curiosi e appassionati, rischiano di diventare un peso molesto per turisti di massa o visitatori meno sensibili all’attrazione segreta di certi recapiti apparentemente anonimi. A chi scrive è capitato tanti anni fa di assistere al lancio nella Moldava, dall’insolito trampolino di un gruppo scultoreo sul Ponte Carlo, di un volume con l’inequivocabile costola arancione. L’italianissimo proprietario, zaino Invicta e smaccato accento romano, accompagnò quel gesto con una rumorosa imprecazione rivolta alla moglie, seguita da un ma che c***** m’hai fatto compra’?? Piccolo inciso: era una copia di Praga magica di Angelo Maria Ripellino.
«D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda» scriveva Italo Calvino nelle Città invisibili. A questa necessità primaria è da ricondurre, forse, il recente fiorire di guide letterarie, gastronomiche o musicali, détours biografici o di costume, percorsi nella storia sociale o tra i luoghi che fanno da cornice a fiction di successo, cui si aggiunge una miriade di blog o rubriche online dedicate, non sempre affidabili o stilisticamente all’altezza.
A tal proposito, a colmare un vuoto editoriale ci hanno pensato i giovani e coraggiosi animatori delle Edizioni Incontropiede , che in poco più di tre anni hanno messo insieme un catalogo di tutto rispetto, ancorché fortemente targettizzato. L’inedita chiave di accesso la si può facilmente desumere dallo stesso marchio di fabbrica: il calcio come tema conduttore nell’esplorazione di una città. Le Football City Guides sono dei tascabili che – recita il testo di presentazione ‑ propongono «itinerari calcistici slegati o collegati a quelli più tradizionali», agili per formato e contenuto, pensati anche solo per chi «vuole viaggiare senza allontanarsi da casa», perché in fin dei conti «leggere è intraprendere un viaggio con la mente». Sono appena usciti i primi due numeri di una serie che si annuncia nutrita e variegata.
Se per certi versi una guida calcistica dedicata a Lisbona (Lisbona Football Guide, pp. 128, € 12,50) risponde alle aspettative di un gran numero di lettori – la città non solo è la culla della grande tradizione footbalistica lusitana, ma un polo di attrazione culturale tra i più vivaci e moderni d’Europa ‑, sorprende, e non poco, la scelta di inaugurare la collana con una seconda meta sulla carta meno allettante, geograficamente vicina ma lontana dai flussi turistici abituali. Con un assetto urbano piacevolmente confuso e la sua sbiadita e un po’ ammaccata eleganza di sapore mitteleuropeo, Zagabria pare infatti a un primo sguardo ancora avvolta nell’atmosfera cupa che accoglie il ritorno, in un’alba umida e nebbiosa, del suo figliol prodigo letterario, ovvero quel Filip Latinovicz reso immortale dal capolavoro di Miroslav Krleža: dalla stazione di Kaptol, agli occhi del protagonista «sporco di fuliggine e stanco», si profilano «i tetti fradici e marci, il campanile a bulbo, la casa a un piano in fondo al viale buio, grigia e scolorita dal vento». Naturalmente è pura suggestione. Zagabria, che con la sua area metropolitana supera abbondantemente il milione di abitanti, è una città che – come ha saputo cogliere lucidamente Rebecca West nel suo Viaggio in Jugoslavia ‑ disvela il suo compassato fascino monumentale poco a poco: «Ha un aspetto caldo e confortevole. Trasforma la sua informe bellezza in qualcosa che attrae come una melodia di Schubert, un piacere che inizia sommessamente e non finisce mai. Zagabria ha l’amabile caratteristica di essere rimasta una città di provincia, anche se in realtà è molto grande». Sono passati esattamente ottant’anni, ed è passato il Novecento con il suo carico di dolorose lacerazioni e trasformazioni del tessuto urbano e sociale, ma l’impressione sembra essere rimasta contagiosamente intatta.
Una scelta sorprendente, dicevamo, ma quanto mai appropriata, quella che ha portato alla luce Zagabria Football Guide. E non solo perché la capitale della Croazia è un’autentica miniera di aneddoti calcistici, ma perché in nessun altro luogo come la ex Jugoslavia il calcio ha saputo rappresentare istanze identitarie, attitudini e contraddizioni di un’intera comunità, preannunciandone addirittura la tragica dissoluzione. Il calcio, a queste latitudini, va ben oltre se stesso.
Il tour proposto dai due autori, Alberto Facchinetti e Jvan Sica, non può che prendere avvio dai due stadi principali della città. Il primo, il celebre Maksimir, inaugurato nel 1912, trae il nome dall’omonimo parco che ospita le sue tribune. Edificato nel lontano 1794 per volontà del vescovo Maksimilijan Vrhovac, è il più antico parco cittadino dell’Europa sud-orientale. Nel toponimo sono fusi il nome del fondatore e la parola “pace” (mir). Il secondo stadio più importante, e di dimensioni assai più ridotte, è il Kranjčevićeva, forse l’unico esemplare europeo di impianto sportivo dedicato alla memoria di un poeta, Silvije Strahimir Kranjčević (1865-1908). A dir la verità non sono proprio luoghi di pace e poesia (anche se per alcuni il calcio è in sé poesia ‑ e come dar loro torto?), a cominciare dalle targhe commemorative che campeggiano ai rispettivi ingressi. La prima, posta sotto una statua raffigurante un gruppo di soldati, rievoca – in tono glorioso ‑ gli eventi del 13 maggio 1990, quando il Maksimir fu teatro dei violenti scontri tra i tifosi zagabresi della Dinamo e gli ultras giunti da Belgrado a sostenere la Stella Rossa, in quello che per tutti – autore dell’epigrafe compreso ‑ rimane il prologo del Domovinski rat (guerra patriottica), che un anno più tardi avrebbe assunto altre e più sanguinose connotazioni. La seconda commemora la sfilata nello stadio Kranjčevićeva, il 28 maggio 1991, della neonata Zbor Narodne Garde, la Guardia nazionale che avrebbe costituito l’ossatura delle future forze armate croate.
Contro ogni consuetudine – e questa è una delle tante anomalie che contraddistinguono lo scenario calcistico zagabrese – tra i due principali club cittadini, la Dinamo e la Lokomotiva, non corre cattivo sangue e non si respira la classica aria da derby. Anzi, tra le due società c’è un rapporto di stretta collaborazione, al punto che la Lokomotiva, attualmente militante in Prva liga (la Serie A croata), funge quasi da cantera per la più blasonata Dinamo, mettendole a disposizione il suo scouting e i suoi giocatori migliori – il perché lo vedremo tra poco. Il gap tra le due è incolmabile, basta dare un’occhiata ai tabellini: la Dinamo si è aggiudicata la scorsa stagione l’undicesimo scudetto consecutivo, che pur a fronte di un tasso tecnico generale piuttosto modesto, rimane un record assoluto. Al momento è incredibilmente seconda in classifica, alle spalle del Rijeka. E in effetti a Zagabria calcio è sinonimo di Dinamo. Tuttora fucina di talenti e ai tempi uno dei serbatoi della Nazionale jugoslava, la sua storia gloriosa riflette le vicende politiche del secondo Novecento e non è priva di bizzarre circostanze, a partire dal nome.
Fondato nel 1945 in seguito allo smantellamento coatto delle tre società calcistiche zagabresi (l’Hašk, il Građanskie la Concordia) colluse con il regime fascista di Ante Pavelić, il nuovo club doveva necessariamente ispirarsi, sin dalla denominazione, alla fratellanza tra i popoli socialisti. Come molte altre squadre dell’Europa orientale, si decise di chiamarlo Dinamo, in onore della polisportiva moscovita legata al famigerato ministero dell’Interno sovietico e tanto cara a Lavrentij Berija. Tre anni più tardi si sarebbero consumati lo strappo di Tito da Stalin e l’uscita della Jugoslavia dal Cominform, ma la decisione era ormai presa. Altro giro della Storia, altro cambio di nome: nel 1992, con l’indipendenza della Croazia, la Dinamo tornò a chiamarsi Hašk-Građanski, per mutare nuovamente l’etichetta ufficiale, l’anno seguente, in un più enfatico e comunitario Croatia Zagreb, con cui si recideva ogni radice del passato socialista. I tifosi non la presero bene, e da fedeli custodi di una tradizione che doveva essere esclusivamente sportiva, si batterono con ogni mezzo per il ripristino del vecchio nome che aveva fatto la storia del calcio jugoslavo e al quale era associato il primo, prestigioso trofeo europeo vinto da una squadra della Jugoslavia, la Coppa delle Fiere nel 1967. Ci furono polemiche, boicottaggi, raccolte firme, persino scontri con la Polizia, fino a che il 14 febbraio 2000, grazie alla fondazione di una nuova compagine societaria, la Dinamo ritornò a essere Dinamo anche per gli organi federali, e non solo sugli spalti e nei bar sport.
Ironia della sorte, a guidare la lunga e dura protesta contro l’establishment calcistico, fido servitore del nuovo corso politico introdotto da Franjo Tuđman, furono proprio loro, i temibili Bad Blue Boys, gli ultras di estrema destra e rigorosamente nazionalisti, tra le fila dei quali furono in molti, nella prima metà degli anni novanta, a trasferirsi dalle curve ai teatri di guerra in Slavonia e nella Krajina. Il rapporto con i vertici societari è tuttora conflittuale, e nonostante la superiorità schiacciante della loro squadra in campionato e la partecipazione ad alcune edizioni della Champions League, per anni i BBB hanno provocatoriamente disertato le partite casalinghe al Maksimir. Il perché ha un nome e un cognome: Zdravko Mamić. Ex calciatore non particolarmente dotato, ex profittatore di guerra e discusso affarista, fu lui il regista del “ritorno al passato” e del recupero della vecchia denominazione nel 2000. Non si adoperò certo per motivi sentimentali, piuttosto il suo insediamento a direttore esecutivo della NK Dinamo fu una mossa tesa a trasferire giocatori e trofei alla neonata società dalla Croatia Zagreb, lasciando a quest’ultima una voragine di debiti e spettanze non pagate, e mandandola dunque in bancarotta. Da allora è il leader indiscusso del calcio zagabrese (esercita un controllo finanziario anche sulla Lokomotiva, e qui si spiega l’assenza di qualsivoglia rivalità cittadina, simbolica e sportiva), e negli anni, grazie a decisivi appoggi politici, è diventato il padre-padrone dell’HNS, la Federcalcio croata, instaurando un sistema gestionale con parecchie opacità e spesso in palese conflitto di interessi, lucrando sui trasferimenti milionari dei giocatori all’estero e costruendo intorno alla sua carica un vero e proprio comitato d’affari. Il suo potere è stato solo scalfito dall’arresto, nel 2015, per appropriazione indebita ed evasione fiscale, e dall’attuale istruttoria a suo carico. Si è solo dimesso da alto dirigente della Dinamo, rimanendo però nel board come advisor, e ha sistemato alla presidenza federale un suo uomo di paglia, l’ex bomber Davor Šuker. La sua figura è riuscita perfino a coalizzare, in un sussulto di indignazione e protesta, i più acerrimi nemici di sempre, i BBB e gli ultras spalatini della Torcida Hajduk. Checché ne dica il giornalista sportivo Igor Kramarsić, intervistato in Zagabria Football Guide – e che ne fa quasi una questione di campanile, attribuendo l’intera responsabilità ai tifosi dalmati – i recenti incidenti e atti intimidatori creati dai supporters croati in occasione delle partite della Nazionale nei gironi qualificatori e nella fase finale dei Campionati europei sono stati una forma di palese sabotaggio, studiato di concerto dai due gruppi organizzati insieme ad altri e atto a creare un danno economico all’HNS, un modo estremo per chiedere le dimissioni in blocco dei suoi vertici. Solo lo scorso settembre, in occasione del match di Champions League contro la Juventus, i BBB sono tornati a occupare la Tribuna Nord del Maksimir.
Facchinetti e Sica ci accompagnano poi al cimitero Mirogoj, uno dei parchi monumentali più affascinanti d’Europa, progettato in stile neorinascimentale dall’architetto Herman Bollè, inaugurato nel 1876, ma portato a termine solo nel 1929. Meta obbligata per gli appassionati sono le tombe dei più importanti calciatori zagabresi, di cui nel volume si ripercorrono le carriere. Qui alcuni destini prendono direzioni beffardamente contrarie. Per esempio quello di Bernard “Bajdo” Vukas, zagabrese doc, eletto miglior calciatore croato del secolo e stella, manco a dirlo, dell’Hajduk Spalato negli anni cinquanta. O quello di Stjepan Bobek, l’uomo dei record: primatista assoluto europeo per gol realizzati nelle file di un club, miglior marcatore della Nazionale jugoslava, recordman di segnature in una sola partita, addirittura nove, e detentore in vecchiaia di un numero di bypass di poco inferiore. Anche lui, press’a poco negli stessi anni, andò a far grande un’odiata rivale, il Partizan Belgrado, costretto, pare, dalle alte gerarchie politiche di allora. Terminata la carriera, tornò nella sua Zagabria, prima ad allenare e poi a tifare l’indimenticata squadra del cuore, la Dinamo. Per ristabilire l’equilibrio, e trovare quindi un dalmata che ha reso onore e gloria a Zagabria, bisogna cambiare sport e passare al basket. Nessun sacrilegio però: non solo perché da queste parti il košarka è popolare quasi quanto il calcio, ma perché a Mirogoj riposa il “diavolo di Sebenico”, il vero mito sportivo di Zagabria, forse il più grande cestista di tutti i tempi, al secolo Dražen Petrović. A lui è consacrato un museo, nelle immediate vicinanze del Palazzetto dello Sport e nella via che porta il suo stesso nome, da considerare una tappa inaggirabile, come del resto il bar Amadeus (l’altro soprannome di Petrović), quasi un reliquiario per chi negli anni ottanta ebbe modo di ammirare le sue gesta.
A proposito di musei: da non perdere, ça va sans dire, è lo spazio multimediale recentemente allestito dalla HNS a pochi passi dalla centralissima piazza Jelačić e dedicato alla storia del calcio croato. Arricchito da cimeli di ogni genere, è curiosamente diviso in due sezioni, in perfetto mood balcanico (ma guai a dirlo: qui siamo a Zagabria!): quella delle vittorie più belle, denominata Euforije, e quella delle batoste, ovvero la sala delle Depresije.
Sono davvero tante le vicende narrate da Facchinetti e Sica. La più significativa è forse rappresentata dall’incontro amichevole che si tenne al Maksimir tra la Croazia e gli Stati Uniti il 17 ottobre 1990. Sì, avete letto bene. La Croazia come entità politica indipendente non esisteva ancora, la secessione si sarebbe consumata mediante referendum il maggio successivo e i carri armati erano al momento spenti, ma le nuove autorità politiche croate scelsero simbolicamente il calcio per accelerare gli eventi e preconizzarne l’epilogo. Mentre alla stessa ora i migliori calciatori croati scendevano in campo con la legittima Nazionale jugoslava Under 21 a Simferopol (l’avversario, pensa un po’, era l’Unione Sovietica), le seconde linee indossavano la casacca nuova di zecca con la šahovnica, appositamente disegnata dal pittore neoavanguardista Miroslav Šutej, e affrontavano davanti a trentamila tifosi assiepati sui gradoni del Maksimir l’esordio “ufficiale” della rinata Nazionale con la bandiera a scacchi. Ufficiale perché dopo una ridda di fax, telefonate e mediazioni in gran segreto, la FIFA dette l’ok nonostante l’evidente irregolarità. Il fischio d’inizio del signor Coppetelli di Tivoli, alla sua prima e unica direzione di gara internazionale, venne preceduto da discorsi cerimoniali e profluvi di retorica. Il risultato dell’incontro non ha tuttora alcuna importanza. Molta più importanza ebbe quel clamoroso gesto: parafrasando l’antropologo Ivan Čolović,dal campo di calcio si sarebbe passati a breve al campo di battaglia.
Una fitta carrellata di testimoni eccellenti e di campioni, nomi noti e meno noti, interviste, curiosità, indirizzi utili, bar, qualche breve e forse superfluo excursus riservato a cultura e gastronomia, ma soprattutto tanti aneddoti che si inseguono veloci: sono questi gli ingredienti di Zagabria Football Guide, decisamente un esperimento riuscito, cui si può perdonare qualche imperfezione grafica relativa a nomi e toponimi e la mancanza di un indice finale di luoghi e personaggi. Il più sapido e singolare degli aneddoti è comunque quello legato al già citato Stjepan Bobek e ai motivi che lo indussero a patrocinare, con successo, il sensazionale cambiamento dei colori sociali del Partizan da un protocollare rosso-bianco-blu, molto “Fratellanza e Unità”, a un più spento bianconero, tuttora presente nei vessilli e nel vestiario della compagine belgradese. Non ve lo raccontiamo. Preferiamo rimandarvi alla lettura di questo leggero e gustoso volumetto per amanti del calcio o semplicemente di storie.
Hai pensato a un abbonamento a OBC Transeuropa? Sosterrai il nostro lavoro e riceverai articoli in anteprima e più contenuti. Abbonati a OBCT!