Un'immagine tratta da The Lobster di Yorgos Lanthimos

Non vi erano grandi aspettative all'ultimo festival di Cannes per i film dal sud-est Europa. Ma i premi sono arrivati. Una rassegna

10/06/2015 -  Nicola Falcinella

Grecia, Croazia, Turchia. Non erano attese, ma ci sono anche loro tra i premiati del 68° Festival di Cannes, conclusosi con la Palma d’oro a sorpresa alla Francia con “Dheepan” di Jacques Audiard e l’esclusione ancora più sorprendente dei tre film italiani dal palmarès. Premi non tra i principali, ma comunque significativi e incoraggianti, soprattutto per la cinematografia croata, poco considerata dai festival principali e ancora meno dalle giurie.

“Zvizdan” di Dalibor Matanić, coproduzione con Serbia (che aveva anche l’interessante esordio “Panama” di Pavle Vucković fuori concorso) e Slovenia, ha ricevuto il premio della giuria in Un certain regard, sezione parallela che presentava novità e grandi nomi (il tailandese Apichatpong Weerasethakul, già Palma d’oro, o i giapponesi Naomi Kawase e Kiyoshi Kurosawa).

Un film ambientato in un villaggio di una zona non specificata dell’ex Jugoslavia (anche se è stato girato nell’interno della Dalmazia) in tre momenti diversi, protagoniste tre giovani coppie miste. Nel 1991 Ivan, per conquistare Jelena, cerca, sfidando le armi con la sua tromba, di fermare la guerra in arrivo. Nel 2001 Nataša e la madre, rimaste sole, tornano nella casa di famiglia e a ripararla chiamano il giovane Ante che in guerra ha perso il padre. Nel 2011 una coppia si ritrova mentre intorno si festeggia.

Il regista ha l’ottima idea di fare interpretare tutte le storie agli strepitosi Tihana Lazović (già in “Padre vostro”) e Goran Marković. I primi due episodi sono più compatti e potenti, il terzo si dilunga e forse disperde nella festa di musica e fuochi d’artificio che contrasta con l’intimità silenziosa della coppia. Ma il monologo di Marija, che ha aspettato l’amato con un figlio piccolo, è da brividi e così pure il finale. L’altra scelta di Matanić è scegliere personaggi croati e serbi, le due parti si distinguono solo dai nomi e forse neanche da quelli, cade così ogni elemento, anche minimo, di esotico, che compare invece quando ci sono personaggi musulmani. E il film prende una piega ancora maggiore di assurdo e insensatezza.

Può sembrare l’ennesima rivisitazione di temi e situazioni visti e rivisti sullo schermo, ma il regista lo fa con uno stile e una precisione, con un rigore formale, che ne fanno una delle migliori opere del cinema croato e della regione di questi anni.

Premio della giuria anche per il greco Yorgos Lanthimos con “The Lobster – L’aragosta”, stavolta nel concorso principale, unico film dell’Europa sud-orientale in lizza. Un nome di punta del “Greek Weird Cinema” fatto di metafore troppo evidenti, già autore di “Kinetta", “Kynodontas” e “Alpeis” e amato dalle giurie: premiato a Cannes in Un certain regard per “Kynodontas” e alla Mostra di Venezia per la sceneggiatura di “Alpeis”. Un regista che, se fosse svizzero o olandese, sarebbe tenuto molto meno in considerazione.

L’essere ellenico in un momento così travagliato per il suo paese lo pone al centro dell’attenzione, le sue storie così facilmente leggibili e riassumibili, dove il potere è al centro, sono considerate una critica alla società greca e alle cause della crisi. In realtà, al di là magari di un buono spunto di partenza, il cinema di Lanthimos è spuntato. Tutto si concentra in un’idea, che potrebbe meglio e più semplicemente essere detta a parole. Poi manca lo sviluppo. Ne “L’aragosta”, una produzione internazionale con tanti nomi noti (Colin Farrell. Léa Seydoux, Rachel Weisz, Ben Whishaw, John C. Reilly, Olivia Colman e Ariane Labed) girata in Irlanda, è ancora più chiaro. Il punto di partenza è interessante, forse il migliore di Lanthimos: in un futuro che sembra oggi, essere single è la colpa più grave, chi è solo è detenuto in un albergo speciale e costretto a trovare un partner entro 45 giorni, pena l’essere trasformato in un animale a scelta (di qui il titolo: il protagonista vorrebbe diventare un’aragosta). In un hotel che è un campo di rieducazione, gli ospiti sono costretti a provare desiderio per un compagno o una compagna, seguono corsi (tra i momenti più riusciti) nei quali si mostra come la vita in coppia sia migliore. A metà film, quando David (Farrell) tenta la fuga nel bosco dove vivono gli animali, le regole saltano e non è più chiaro perché le cose succedano e in base a cosa si muovano i personaggi: una costruzione con una struttura molto forte (il regime gerarchico e implacabile dell’albergo) che viene rotta senza motivazioni adeguate e cede.

È quasi una commedia il notevole “Comoara – Il tesoro” di Corneliu Porumboiu, premio “Un certain talent”. Il cineasta di “A est di Bucarest” e “Poliziotto, aggettivo” è una delle punte del cinema del suo paese, che da quando è esploso una decina d’anni fa con la nuova generazione non ha mai smesso di produrre opere di valore e rivelare nuovi talenti.

Costi è un impiegato quarantenne sposato e con un figlio, al quale legge la favola di Robin Hood. Un giorno il vicino Adrian gli chiede un prestito di alcune centinaia di euro che non gli può accordare: nonostante un buon impiego, una tale cifra è fuori dalle sue possibilità. Riparlandone, il protagonista scopre le vere intenzioni del vicino: recuperare un metal detector e andare in campagna alla ricerca di un tesoro che il nonno del vicino avrebbe sotterrato per nasconderlo ai comunisti. Non casualmente il tesoro sarebbe a Islaz, cittadina alla confluenza dell’Olt nel Danubio dove fu redatta la celebre Proclamazione del 1848 durante i moti della Valacchia. Un’avventura imprevista, nella quale troveranno qualcosa di valore, che ha a che fare con la Germania.

Porumboiu gira con una semplicità apparente, dirigendo bene gli attori, inanellando una serie di battute taglienti, criticando un po’ tutti, ieri e oggi. Molto riuscite le scene delle ricerche e dello scavo che ricordano persino “Susanna” di Howard Hawks. Se si può fare un altro accostamento al grandissimo Hawks, riguarda il ruolo femminile, che là era quello di mettere in subbuglio e fare esplodere la situazione, mentre qui diventa, con la collega d’ufficio, una copertura e una falsa pista. L’epilogo di “Comoara” è visionario e folle, quasi un rivoluzionario omaggio a Robin Hood.

Uscirà in Italia anche l’altro romeno “Un etaj mai jos – Il piano di sotto” di Radu Muntean (“The Paper Will Be Blue”, “Boogie”), incluso sempre in Un certain regard. Un film interessante, riuscito ma non particolarmente originale, che si inserisce nel ricco filone dei dilemmi morali, uno dei più frequentati da questa cinematografia. Qui il punto – denunciare o meno quello che si ritiene fondatamente essere il colpevole di un omicidio senza però avere prove inconfutabili – è curiosamente lo stesso del bel “Irrational Man” di Woody Allen, presentato sempre a Cannes.

Sandu Patrascu (Teodor Corban) è un uomo semplice, di poche pretese e che si pone poche domande: ha una famiglia, un lavoro nel settore delle assicurazioni automobilistiche, addestra un cane da competizione e si tiene in forma andando a correre. L’unica debolezza è forse, quando sale le scale del condominio in cui abita, fermarsi al piano di sotto ad ascoltare la vicina alle prese con il fidanzato, spesso impegnati a litigare. Quando la condomina Laura è trovata morta, Sandu ha l’intuizione che il colpevole sia Vali, ma preferisce tenerla per sé, non andare dalla polizia. Il tarlo però avanza dentro la sua coscienza, anche perché il giovane uomo sa di essere stato spiato e si avvicina alla famiglia Patrascu. E c’è un crescendo di tensione che turba quella che in apparenza era una piatta quotidianità.

Due film romeni chiusi tra la famiglia e il vicinato, come gran parte della produzione degli anni 2000 della “noul val”. I problemi – la diffidenza, i non detti, il rancore covato, i dubbi, la violenza pronta a esplodere, i ricatti, l’omertà – sono ancora tutti lì, arrivano dal passato ma restano ben presenti.

Significativo il Premio Label Europa Cinemas a "Mustang" della turca Deniz Gamze Ergüven (il suo corto “Bir damla su” era stato premiato a Locarno nel 2006) presentato nella sezione parallela Quinzaine des realisateurs. Un film, produzione maggioritaria francese con Germania e Turchia, che avrà una distribuzione italiana con Lucky Red. Una commedia drammatica su cinque ragazze adolescenti in un villaggio di provincia in lotta contro le tradizioni e il destino. Un film leggero e profondo, sulla cultura turca ma che crea quasi una rottura con il cinema d’autore di quel paese, più in linea con un certo tipo di cinema generazionale europeo.

Cinque sorelle molto unite tra loro, quasi un corpo solo, che vivono nel nordest, non lontano da Trebisonda. Esuberanti e poco disposte ad accettare regole e convenzioni, dalla più piccola appassionata di calcio che vuole andare allo stadio alle più cresciute che pensano solo ai ragazzi. Il loro comportamento libero e in fondo innocuo desta scandalo nei paesino e la famiglia corre ai ripari nel modo più drastico: le chiude in casa, impedisce loro di andare a scuola, fa indossare loro il velo e comincia i preparativi di matrimonio combinato. I locali si chiudono come una prigione, fino ad avere le sbarre alle finestre per impedire le fughe. Si ride, ci sono svolte drammatiche, c’è un realismo a volte rassegnato, ma anche un anelito alla libertà che resta fino alla fine. Un bel film, vitale e sorprendente, un’opera prima meritevole di attenzione.

Di tutti questi lungometraggi, solo “Zvizdan” non ha ancora una distribuzione italiana. Alcuni titoli saranno visibili nelle prossime settimane nelle rassegne di Cannes a Roma e Milano che propongono alcuni dei titoli del festival in anteprima.


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