Un viaggio da oriente verso occidente, in barca. A bordo Evropa, una fuggiasca siriana, e quattro cavalieri: Petros il nocchiero greco, Ulivi il cuoco turco, Sam il nostromo francese e il narratore. In libreria "Canto per l'Europa", di Paolo Rumiz. Una recensione
Un libro di Paolo Rumiz è sempre un viaggio. In bici verso Istanbul, in treno per Odessa, a piedi sulla Via Appia, con una vecchia topolino su e giù per gli Appennini. Ha anche camminato nelle trincee delle guerre europee, ha viaggiato da fermo nel ventre di un ciclope in forma di faro. Senza dimenticare la sua predilezione per l'Oriente. In particolare per i Balcani, forse perché “dell'Europa ne sono il cuore di cui mai abbastanza ci si servirà”, riprendendo le parole di un'altro straordinario scrittore errante: Nicolas Bouvier.
In questo nuovo “Canto per Europa” (Feltrinelli; 255 pp, 17 euro), si viaggia a vela, nella maniera più antica, almeno tra le sponde di quel Mediterraneo che oggi per “molti è solo una massa infinita d'acqua salata”, mentre per i migranti è “Pontos, passaggio, imbarcadero di terra promessa”. Un Mediterraneo che da millenni è al centro di straordinarie avventure e di terribili disavventure, ieri come oggi. Ed è proprio su questo doppio registro, di favola e tragedia, che oscilla questo viaggio di Paolo Rumiz, arricchito dalle illustrazioni oniriche di Cosimo Miorelli, che firma anche la copertina.
Il narratore di questa storia è un Rapsodolevantino, permettendosi un epiteto che si aggiunge agli altri: Scriba, Barbadineve, Taciturno. Perciò nel libro cerca innanzitutto un ritmo, quello dell'endecasillabo, e l’avvia nel proemio come una vecchia fiaba: “In una notte nitida di ottobre”. Una fiaba con una principessa chiamata Evropa, una fuggiasca siriana, e quattro cavalieri: Petros il nocchiero greco, Ulivi il cuoco turco, Sam il nostromo francese e il narratore. Una fiaba nera, come le nuvole che attraversano oggi, o forse da sempre, i cieli d'Europa, “il sogno di chi non ce l'ha”; quello della protagonista: l'Enigmatica, l'Ostinata, la Caparbia. Una giovane figlia dell’Asia che, come tante, scappa da una terra in fiamme, da violenze inenarrabili, da follie sanguinarie. “La divina migrante risplendeva / e quel suo piccolo corpo umiliato riabilitava gli uomini, aveva il potere di liberare il mondo / dal caos, dal disamore e dal frastuono”. Ma, come in tutte le favole, gli uomini non sono i soli personaggi; altrettanto importanti sono gli dei, gli animali, le geografie: terrestri, marine e celesti. Inoltre c'è una seconda, seducente protagonista: Moya, la barca, senziente e parlante.
Moya è realtà che supera la fantasia, perché Moya esiste e naviga ancora oggi. Un barca varata in Inghilterra più di cento anni fa, capace di superare due guerre e un naufragio, con scafo nero e vele rosse. Il suo albero genealogico, quello dei suoi armatori, suggella “uno sposalizio tra due mondi”, d'oltremanica e mediterraneo. Perciò ancora più straziante è il dolore di Petros, il suo ultimo comandante, per un'Europa rimasta orfana proprio dell'Inghilterra. Petros, “ammiraglio delle anime”, triestino di nascita ma figlio pagano dell'Ellade, inglese d'adozione, insegnante a Cardiff, dove cercava di far capire ai ragazzi le meraviglie del mare degli antichi.
Petros che con appassionata perizia marinaresca teneva a poppa l'Union Jack e issava ogni giorno alle crocette la bandiera blu stellata. Bandiere e vele al vento, per un viaggio che parte nell'estremo oriente mediterraneo, con un incontro fatale a Tiro, sulle coste del Libano. Lì, in un tramonto di marzo, nella vita dei quattro barbuti irrompe una ragazza che “sapeva di elicriso e di spavento”, ma controllava la paura e aveva un unico obiettivo. “Andarsene voleva in capo al mondo”, lontano dalla sua patria siriaca sfigurata da guerra, ferocia e ingiustizia.
Così il viaggio dei moyanauti diventa mitopietico: nella barca si rinnova l'unione tra Zeus ed Europa, dalla barca si osserva la follia degli uomini, sulla barca si ritrova la necessaria relazione con il dionisiaco. Moya naviga da oriente verso occidente, toccando Cipro isola sacra ad Afrodite, Rodi l'isola-mandorla, Creta che ha pelle di rugiada, Lesbo fiammeggiante, Ikaria artigliata dall'Austro, Tinos con le sue seicento chiese e tanti altri luoghi di quell'Arcipelago che è antica culla dei miti mediterranei. Ma il viaggio prosegue, i moyanauti inseguono il sole per poter soddisfare le richieste della ragazza, che si rivelerà essere Nostra Signora del Mediterraneo. Avvisteranno l'Etna, il monarca di fuoco, attraverseranno lo Stretto dagli infidi gorghi, seguiranno il falò dello Stromboli. Tanto altro accadrà nell'ultimo capitolo, intitolato “Libro del mare immenso”. Fatti marinareschi ordinari e straordinari, accadimenti divini dolci e amari.
Perché, come ricorda Eros a Tànatos, nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese: “Quando un dio avvicina un mortale, segue sempre una cosa crudele”.
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