Un viaggio alle isole Strofadi, considerate la dimora delle mitiche Arpie, dove oggi a rapirci è la bellezza di un antico eremo, ricco di storia
Un monaco, ultimo sopravvissuto di un antichissimo monastero, si spegne in una torrida estate tra i turisti di una delle più belle isole greche. Poco distante, il corpo di un santo sottratto alle scorrerie dei pirati è in esilio su questa stessa isola da 300 anni: perfettamente conservato, viene esposto più volte al giorno all’adorazione dei fedeli, poi ogni volta rinchiuso nella sua preziosa teca. Entrambi, il monaco vegliardo e quello santo, si erano votati a Dio in due isolette paradisiache, oggi inaccessibili ed ignote ai più, sperdute nel cuore del Mar Ionio. Sulla più grande, Stamfani, un monumento unico nel suo genere e splendido è stato per secoli una sentinella dei mari: sta ormai per cadere irreparabilmente in rovina. Attorno a questo
edificio e a questi personaggi, sono fiorite per secoli travagliate vicende: di metropoliti ortodossi e naufragi imperiali, di orridi esseri mitologici e di venti instancabili, di miracoli portentosi e scorrerie piratesche. Finché un bel giorno di questa estate un pugno d’uomini, tra cui un elettrotecnico con la sua valigetta, un metropolita ortodosso e dei giovani cantori con i loro spartiti di salmi, vengono trasbordati laggiù, nelle remote Strofadi, dove uccelli bellissimi e mai visti altrove volano in una ‘giungla’ quasi impenetrabile. Vanno, rispettivamente, a celebrare con le loro voci la liturgia della Trasfigurazione, e a riparare un inceppato meccanismo girevole: affinché un faro - di navigazione e di civiltà - non si stanchi di emettere la sua luce e di indicare la rotta ai naviganti moderni.
Ci sono volute non poche settimane prima che riuscissi a mettere ordine nei ricordi, a riflettere col dovuto distacco su quanto ho vissuto in due incredibili giornate di questo agosto 2017: compulsando di tanto in tanto, una volta in patria, saggi di architettura in greco moderno o agiografie in ‘katharevsa’ (la lingua ‘pura’, con tanto di spiriti e accenti come quella di Platone, rimasta ufficiale fino al tempo dei Colonnelli), riguardando foto e rimuginando parole.
Tutto comincia senza che quasi me ne accorga in un tardo pomeriggio, quando un sole ancora cocente batte i marciapiedi di Zacinto, o Zante, l’isola cantata da Foscolo. Al termine di una passeggiata sul lungomare giungo sotto un grandioso monastero che si innalza prima del porto. Sull’alto portale un’iscrizione reca un nome per me sorprendente ed affascinante: ‘Monastero delle Strofadi’. Sono un po’ sorpreso, perché le Strofadi non sono esattamente qui. Le avevo appena intraviste, quelle isolette, durante un lento periplo attorno al Peloponneso di una dozzina d’anni fa; le ricordo lontane, piatte e baluginanti nel cielo d’un altrettanto infocato pomeriggio. Quella loro apparizione all’orizzonte mi aveva emozionato lasciandomi una punta di rimpianto: chissà se sarei mai riuscito a visitarle.
Chiunque abbia studiato un po’ d’epica sa che le Strofadi erano considerate la dimora delle mitiche Arpie, mostri alati simbolo dei Venti ‘rapinosi’ (ciò significa il loro nome, in greco), le quali aggredirono e minacciarono Enea e gli altri profughi da Troia mentre vi sostavano esausti nella traversata del Mediterraneo. Raramente però le note alle edizioni dell’Eneide aggiungono che le Strofadi esistono davvero, e che la più piccola di loro si chiama proprio Arpya: due terre minuscole (2,6 km² in totale) distanti oltre 40 miglia nautiche da Zante, la più meridionale isola greca abitata dello Ionio. Ma anche per un motivo più personale sono attratto dal nome letto su quel monastero: le Strofadi sono uno degli ultimi lembi degli arcipelaghi ellenici che ancora debbo visitare. Da quando sono arrivato a Zante, ho chiesto invano a tutte le agenzie di navigazione come fare per arrivarci: e purtroppo ho appreso che nessuna imbarcazione di linea, nessuna escursione giornaliera, nessuna imbarcazione privata è disponibile per quella traversata.
Un venditore di immagini sacre e di libri devozionali che avvicino nei pressi del monastero mi spiega finalmente dove sono capitato: ha la stessa invidiabile capacità affabulatoria che molti greci conservano intatta da millenni. Mi racconta per filo e per segno la vicenda di San Dionisio, Metropolita di Egina (altra isoletta greca dell’Egeo) e patrono di Zante, fattosi monaco proprio nelle Strofadi: ciò accadde in un tempo lontano in cui, lungi dall’essere disabitate come oggi, le isole ospitavano fino a 60/80 confratelli: pii, operosi e rinchiusi in un possente monastero-fortezza. Oltre alla prevedibile serie di miracoli del Santo ancora vivente, mi narra infine quello delle sue spoglie, riesumate intatte (e profumate!) a distanza di decenni dalla morte. "E adesso quel corpo prodigioso è qui vicino - conclude - la teca che lo contiene viene aperta ogni volta che si radunano davanti ad essa, in trepida attesa, almeno una decina di fedeli. Vada a vederlo!". E, coincidenza delle coincidenze, aggiunge che proprio due giorni prima era venuto a mancare, quasi novantenne, l’ultimo dei confratelli ad esser vissuto in quello sperduto monastero al di là del mare; superstite di una serie di monaci che era cominciata almeno al tempo degli imperatori bizantini, forse addirittura da quello di Giustiniano.
Così, dopo una breve attesa, assisto anch’io all’ostensione della reliquia in una cappella laterale della chiesa: in devoto silenzio, tutti si avvicinano a baciarne il corpo miracoloso, del quale un cartello fa obbligo di venerare solo le estremità. Dopodiché, all’interno del complesso religioso, trovo un giovane laico, molto colto, che mi dà ulteriori, preziose informazioni. Il Santo è qui a Zacinto esattamente da 300 anni, dall’agosto del 1717: quando, a seguito dell’ennesima, devastante scorreria dei turchi nelle Strofadi, i monaci decisero di metterlo al sicuro nella più grande isola vicina, a quel tempo possedimento della Repubblica di Venezia. L’originario monastero delle Strofadi, custode di una antichissima tradizione religiosa (è dedicato alla ‘Madonna di tutte le Grazie’ e alla ‘Metamorfosi’, come si dice qui, ovvero alla ‘Trasfigurazione del Salvatore’), è stato costruito nel XIII secolo per volontà dell’imperatore bizantino Teodoro I Lascaris, ma forse in una sua precedente versione già da Giustiniano (VI sec. d.C.). Da allora, si è via via spopolato: non solo per le difficoltà sempre crescenti di una esistenza quasi eremitica e per il calo delle vocazioni, ma anche perché un terremoto del 1997 lo ha reso pericolante e quindi inabitabile.
Il mio gentile interlocutore me ne fa vedere alcune foto. Mi colpiscono subito la bellezza architettonica e la singolarità dell’edificio. Si tratta in verità di un complesso fortificato, racchiuso da una cinta muraria dotata di un unico portale d’ingresso. Ma, a dominare sul complesso e sul mare antistante, è la gloriosa, spettacolare torre, che in realtà racchiude un tempio cristiano: la vedo alta, possente e nobile nelle sue forme duecentesche, pur modificate dalle successive ricostruzioni. Mi viene spiegato che il tutto è, oggi come allora, proprietà del monastero, ormai trasferitosi a Zante, che sarebbe poi quello in cui mi trovo: e che quindi, in pratica, l’edificio così come le isolette appartengono alla Chiesa Ortodossa. Non solo: per la rigogliosità della flora, la rarità e la varietà degli uccelli migranti che vi sostano prima del lungo balzo verso l’Africa, le Strofadi fanno parte del Parco Nazionale Marino di Zacinto, e sono quindi escluse non solo dal turismo di massa, ma anche dalle tipiche escursioni marittime estive e dalle permanenze non autorizzate.
A questo punto il mio volto deve lasciar trasparire all’interlocutore, al di là del fascino che mi ispirano le sue parole e quelle immagini, un intimo dispiacere: perché capisco che non potrò mai recarmi laggiù. Ma ecco che dalla stessa voce arrivano parole in cui non speravo: "Tra pochi giorni - lo sa? - è la ricorrenza della Trasfigurazione, e le isole saranno eccezionalmente visitate del Metropolita di Dodona, che è poi l’ex Metropolita di Zante: vi andrà a celebrare la funzione liturgica in una chiesetta ancora praticabile sita poco distante dal monastero, accompagnato da alcuni cantori. Se vuole, glielo presento".
Ho le ali ai piedi quando faccio ingresso nel giardino ombroso del monastero odierno, ove si conserva la tradizione di quell’altro che giace solitario al di là del mare, e faccio la conoscenza di colui che poi mi inviterà, e mi ospiterà, in una foresteria costruita qualche tempo fa sulla maggiore delle due isole, utilizzata solo in casi eccezionali. Si chiama Crisostomo, ma tutti si rivolgono a lui con i titoli di ‘Santo (Metropolita) di Dodona’, ‘Venerabilissimo’, o, più familiarmente, con ‘Anzianissimo (Padre)’.
Grazie alla sua ospitalità, e, ovviamente, a quella dell’attuale Metropolita di Zacinto, Dionisio, trascorro così sulle Strofadi due giorni memorabili. Anzitutto, perché le due isole sono difficili da avvicinare anche fisicamente. Non c’è un porto. I bassi fondali infestati da scogli a fior d’acqua e il mare spesso agitato in prossimità delle rive scoscese, ci costringeranno a successivi, lenti trasbordi su un piccolo gommone dalla motovedetta con cui vi giungiamo: che invece butta l’ancora, prudentemente, ad un centinaio di metri dall’approdo. Oltre al comandante e ai suoi marinai, a sbarcare con me c’è un pugno di altri visitatori, tra cui il tecnico che deve riparare il faro ancora attivo sull’isola: i quali però non vi si fermeranno per la notte. Mentre attendo il mio turno di sbarco ammiro così con calma, per la prima volta, l’imponente e grigio edificio, sacro e bellicoso insieme, che pare, davvero, il Signore del Mare.
Ripenso a quanto ho appreso sulle due isole nei pochi giorni precedenti la partenza. Per millenni, chi navigava tra l’Occidente e l’Oriente del Mediterraneo, e in particolare tra Adriatico e Ionio e l’Egeo, doveva affrontare il periglioso giro del Peloponneso. Tenendosi sempre in vista della costa, ma allo stesso tempo prudentemente lontano da essa, passava tra questa penisola e le Strofadi. Sono terre emerse quasi invisibili e assai pericolose per gli scafi, poiché bassissime e piatte sul mare, tavole rilevate alte appena una ventina di metri sulla superficie delle onde: appaiono all’improvviso e sono difficilmente individuabili durante il giorno (di notte c’è appunto il faro, a segnalarle).
Eppure, per la loro collocazione strategica sono isole preziose: tra l’altro, erano e sono ricche di acqua potabile. Tutto ciò spiega tante cose: dalla mitica sosta di Enea e dei suoi, al sorgere della leggenda delle Arpie, fino all’erezione di un monastero che però è anche fortezza, poiché quelle minuscole basi erano ambite da chi voleva controllare il passaggio marittimo. E infine, spiega non solo come fosse possibile che decine di persone vi traessero sostentamento e nutrimento (ancora oggi sono parzialmente coltivate, e ad accoglierci troveremo alcuni contadini stagionali che erano lì da alcune settimane per il raccolto del grano), ma anche perché gran parte di esse sia ricoperta da quella che, un po’ scherzosamente, viene definita la ‘giungla’.
Non ho qui il tempo e lo spazio per raccontare tutto quel che ho visto e fatto in quei due giorni. Dico solo che ne ho un ricordo quasi incantato, luminosissimo, cui si aggiungono il senso impagabile della quiete immensa della notte (né televisore e nemmeno segnale per i cellulari, quaggiù), tra panorami di una suggestione assoluta. Un soggiorno non privo perfino di una punta di inquietudine. "Quando potremo rientrare a Zante da queste isole lo sa solo Lui": mi dice a tavola, puntando l’ indice verso l’alto, il Metropolita di Dodona quando gli domando del nostro ritorno. "Sa, dipende dalle condizioni del mare…".
Fortunatamente, non sono stato rapito per sempre dalle Arpie. Ma dalle bellezza di quell’eremo sperduto nel Mediterraneo, senza alcuna terra in vista all’orizzonte, sì.
Un pomeriggio, trasgredendo per l’unica volta durante il soggiorno le raccomandazioni del Metropolita, sono entrato nel Monastero abbandonato a mio rischio e pericolo: poiché è cadente e chiuso alle visite. Sugli scranni di legno del coro del tempio maggiore, una volta frequentati da tanti monaci, sugli intarsi artistici e sulle aquile bizantine una coltre di polvere e un velo di ragnatele stendono come un melanconico sudario.
Sia dentro che fuori, l’edificio è un capolavoro di architettura, tanto ricco di storia da meritare non solo di non cadere in rovina (cosa per cui sarebbe bastevole una ulteriore scossa di terremoto, una ipotesi non improbabile da queste parti: Zante fu totalmente rasa al suolo nel 1953), ma anche di essere finalmente restaurato e messo in sicurezza come meritano tutti i veri patrimoni dell’umanità.
"Salvare questo monastero è dunque uno degli scopi della sua vita?", chiedo alla fine di una lunga e solitaria chiacchierata pomeridiana all’anziano Metropolita, mentre il vento del pomeriggio piega il fumo del caffè sopra le nostre tazze, e siamo in attesa del motoscafo che - sempre ‘se Lui lo vuole’ - dovrebbe riportarci a Zante. "‘Non esattamente - mi corregge - questo è lo scopo della mia vita".
A tale confessione ripenso, quando un veloce mezzo d’altura infine arriva, e ci rapisce, lui sì, da quelle isole magiche, che rapidamente si appiattiscono e vengono riassorbite dal dorso del mare, fino a svanire come un sogno tra le ombre della sera. Chissà quando, e se mai, le rivedrò.
Negli anni passati sono stati compiuti sul Monastero delle Strofadi accurati studi e rilievi, e già esiste un progetto tecnico per il loro restauro: ma per salvare da morte certa questo monumento archeologico e renderlo visitabile in futuro anche da quelli che non hanno avuto una fortuna pari alla mia, occorrono cospicui fondi finanziari. La democrazia ellenica ha ben altri problemi e spese da affrontare, in questo duro periodo in cui si affanna ad uscire dalla terribile crisi. Ma l’Europa, chissà, potrebbe cogliere l’occasione per dimostrare di avere anche un’anima, e mandare un bel segnale ai cittadini greci e ai milioni di visitatori estivi delle isole elleniche, finanziando i lavori e rendendo di nuovo accessibili e visitabili questi gioielli perduti. Prima che le Arpie ce li rapiscano per sempre.
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