La vista del mare dalla cima del monte Ataviros, Rodi, Grecia (foto F. Fiori)

La vista del mare dalla cima del monte Ataviros, Rodi, Grecia (foto F. Fiori)

Dalla vetta dell'Ataviros, avvolto da una fitta nebbia che rende invisibile ogni cosa, al villaggio di Embonas per una sosta prandiale. Continua il viaggio in bicicletta del nostro Fabio Fiori sull'isola di Rodi

21/06/2024 -  Fabio Fiori

Proseguo, dopo l’incontro orfico sul sentiero che porta in vetta all’Ataviros, reso ancor più misterico da una nebbia fitta e da un vento arcaico. Passo dopo passo, salgo come un cieco, avvolto in tenebre color di cenere, rimandando a memoria un antico inno: “O Natura, dea del tutto, madre dalle molte risorse / operosa, augusta, demone che molto costruisci”. E tutto sai distruggere, mi permetto sempre di aggiungere. O nascondere, come in questo caso. Perché salgo da solo e a fatica, senza vedere nulla, ma sentendo tutto. Con le orecchie, i lamenti del vento, con il naso, l’acredine delle pietre e delle erbe, con la pelle, il rorido della nebbia. Ma sento anche con la bocca, perché ogni tanto raccolgo foglie d’aromatiche che mastico insieme a morsi di pane nero che mi ha lasciato Nikos.

Malgrado tutto, voglio raggiungere i ruderi del Tempio di Zeus Ataviros, voglio sentirne l’energia e viverne la relazione, anche se non vedrò nulla, anche se non descriverò nulla. Rimando a Gemini, AI di Google, il resoconto oggettivo o per meglio dire e-gettivo, di ciò che un tempo avremmo letto su una guida turistica. Quindi per una volta trascrivo, senza nulla aggiungere o modificare, dal mio taccuino, dalla pagina scritta lunedì 10 aprile 2023, alle 14:45.

Seduto con la schiena appoggiata al muro perimetrale del tempio, che avrei voluto vedere, ma che gli dèi mi hanno meravigliosamente nascosto. Immerso nel nebbioso lucore e nel ventoso silenzio di questo luogo antichissimo, miceneo. Reso ancor più suggestivo dalla fatica della pedalata e del cammino, cinque ore in tutto. Ma soprattutto misterico per la fitta nebbia che mi ha avvolto subito dopo che ho lasciato la bici appoggiata al guardrail, di una strada bianca che si era fatta impedalabile, non tanto per la pendenza, ma per il fondo disconnesso. Almeno per me oggi, con la mia bici da trekking, carica. Eccomi quindi; seduto, sorretto e protetto da pietre sacrali, grigi diatoni e ortostani, ciò che rimane del muro perimetrale del tempio. Pietre pensate, scolpite e posate tremila anni fa. Grossi blocchi calcarei da 100x50x50 cm, ciò che rimane di un muro, le prime quattro file.

Resti del muro perimetrale del tempio - Foto F. Fiori

Resti del muro perimetrale del tempio - Foto F. Fiori

Il muro perimetrale d’occidente dista una cinquantina di metri dal costone che scende quasi verticale, o così mi sembra, verso la costa dell’isola. Posso solo immaginare oggi la magnificenza della vista, sull’Egeo e sulle isole minori che come diamanti impreziosiscono il diadema rodiota. Un raggio di sole!… o per meglio dire un tiepido chiarore che accentua ancor di più questa remota solitudine. Sono corpo tra le pietre, respiro tra gli ánemoi, vapore tra le foschie, preghiera tra gli inni. “O Natura… signora / domatrice di tutto, indomita, timoniera, tutta splendente, / onnipotente, sempre onorata, demone superiore a tutti, / imperitura, primigenia, celebrata, doni gloria / … custode dell’etere, della terra e del mare”, custode di quest’invisibile, sapido incanto orfico, che le divinità dell’Ataviros mi hanno regalato.

Ma la bici è un’arpia severa, capace d’interrompere qualsiasi incanto, perché chiede tempo e fatica, perché impone ritmo e oneri. La bici non perdona e non rimanda: impone i suoi tempi e i suoi dolori, per rivelare le sue epifanie e le sue gioie. Così scendo di passo spedito e risalgo in sella, per godermi la discesa in direzione di Embonas, il paese/porta dell’Ataviros, a ottocento metri d’altezza, sul versante settentrionale. Una quindicina di chilometri in discesa, anche se ancora una volta sperimento che “La salita è sempre salita, mentre la discesa è anche salita”, riprendendo il motto di Davide, amico e ciclo-guru di vecchia data.

Una discesa in cui ritrovo il sole e la vista su un Egeo ancestrale, immemore dell’uomo e delle sue barche, della storia e dei suoi segni. Un mare d’un blu persiano, vergineo, reso ancor più siderale da scogli e isole, tra cui le più grandi Calchi e Alinnia, che sono lì di fronte a me e seducono allo stesso modo il navigante e il pedalante. Embonas è il classico villaggio greco cresciuto troppo in fretta negli ultimi decenni, comunque fortunato per una geografia che perdona le malefatte architettoniche, per una viticoltura che stempera le suggestioni malinconiche. Geografie del Gigante che nasconde il capo tra le nebbie; viticoltura che mi regala tenere foglie di vite, con cui l’oste Giorgos mi ha cucinato squisiti dolmades, e i grappoli, da cui i due bicchieri di mandilaria, il rosso di Rodi, che mi ha servito.

“Giorgios! This is Tito?!?!”, dico io, fermandomi incredulo di fronte a una foto in bianco e nero appesa di fianco alla porta della cucina.

“… but you don’t like Tito?”, mi risponde sorridendo, uscendo con un piatto in mano.

“Not exactly”, non esattamente, ma gli spiego che da romagnolo, figlio di un comunista, ne ho sentito parlare spesso da bambino negli anni Settanta del Novecento.

“So, I don't love Tito, but I suffer from jugonostalgija!”.

Io gli ho accennato il significato di questa parola a lui sconosciuta e astrusa. Lui mi ha raccontato la visita di Tito a Rodi alla fine degli anni Cinquanta e soprattutto della nonna che, allora giovanissima, aveva partecipato ai balli tradizionali in onore del Maresciallo. Me la indica, è in terza fila, seriosa, esattamente sotto la stella jugoslava.

“Star that exploded in the nineties”, lo interrompo. Ma lui non mi segue e continua il suo racconto famigliare, la sua chará, la gioia di quella ragazza rodiota. Charà degli incontri, istituzionali o fortuiti, immaginabili o inimmaginabili, comunque forieri di inaspettate scoperte.

Tito a Rodi (foto F. Fiori)

Tito a Rodi (foto F. Fiori)


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