Nei Balcani la stagione dei conflitti è tramontata. Invece di procedere lungo la difficile strada del dialogo, però, in molti si affannano ad innalzare muri per tenere "l'altro" a distanza di sicurezza. E neppure l'Unione europea sembra immune da questa tentazione. Un commento
"Ogni volta che l'uomo si è incontrato con l'altro", scrive Ryszard Kapuscinski, "ha sempre avuto davanti a sé tre possibilità di scelta: fargli la guerra, isolarsi dietro a un muro o stabilire un dialogo”.
Passata la stagione sanguinosa dei conflitti, nei Balcani di oggi sono molti i segnali che raccontano di voglia di dialogo. Tra vari soggetti dell'area ex-jugoslava, ad esempio, si assiste ad un lento ma fruttuoso processo di riavvicinamento, che ha portato a un clima più sereno e costruttivo per tutta la regione.
Ultima testimonianza in questo senso è il vertice trilaterale Serbia-Croazia-Slovenia (tenuto a inizio aprile a Smederevo), in cui il presidente serbo Boris Tadić e i premier sloveno e croato, Borut Pahor e Jadranka Kosor, hanno discusso di cooperazione economica, ma anche di vecchie ferite da ricucire e di futuro comune europeo.
Il dialogo con l'altro, però, è sempre un esercizio faticoso. Per molti la tentazione rimane quella spesso miope, ma rassicurante, di innalzare muri fino al cielo.
Si tratta spesso di muri invisibili, muri di silenzio e diffidenza, come quello che divide ancora le diverse comunità in Bosnia, e che mantiene il Kosovo in uno stato di limbo. O come quello sottile e invalicabile che, con poche sfumature, separa la comunità rom dal resto dei cittadini in tutti i paesi balcanici.
A volte l'incapacità di trovare una lingua comune sfocia in situazioni paradossali, difficili da capire e ancora più difficili da spiegare, come l'interminabile faida di recriminazioni storiche e identitarie tra Grecia e Macedonia, di recente arrivata fino agli scranni della Corte internazionale di giustizia dell'Aja.
Ultimamente, però, i muri dei Balcani diventano più concreti e reali.
Per fermare il flusso di migranti (soprattutto afghani e nord-africani) in arrivo dalla Turchia attraverso il confine di terra segnato dal fiume Evros, nel gennaio 2011 Atene ha annunciato l'intenzione di innalzare un reticolato alto 5 metri e lungo 12 chilometri nei dintorni della città di Orestiada.
Nonostante le proteste e lo sdegno sollevati dalla proposta, la Grecia sembra decisa a costruire il suo muro anti-immigrati, come ha ribadito a fine marzo il ministro per la Protezione civile Christos Papoutsis. Le emozioni sollevate dal terremoto politico in atto in Africa settentrionale e nel mondo arabo in genere, insieme ai timori suscitati dalla nuova ondata di sbarchi sulle coste italiane non ispirano certo ripensamenti e aperture ai politici di Atene.
Ma non è tutto. Con un tempismo che lascia riflettere, quasi contemporaneamente anche la vicina Bulgaria ha annunciato di voler innalzare di nuovo tratti del reticolato che segnavano il confine con la vicina Turchia negli anni della Guerra fredda.
Il motivo ufficiale, stavolta, è veterinario: i reticolati servirebbero a fermare epidemie di afta epizoica, come quella che sta colpendo il sud-est del paese in queste settimane. Sulla decisione, però, sembra pesare la momentanea esclusione del paese dall'area Schengen, e il tentativo di Sofia di dimostrare agli scettici paesi della "vecchia Europa" (Germania, ma soprattutto Francia) che la Bulgaria è davvero in grado di controllare i propri confini, oggi limite esterno dell'Unione europea.
Da parte turca le reazioni alla febbre da reticolato dei propri vicini occidentali sono state fino ad ora prudenti e non gridate. Ad Ankara, però, il malumore è palpabile, e le motivazioni ufficiali di Atene e Sofia suonano poco convincenti. In molti pensano che la voglia della Grecia (e ora anche della Bulgaria) di innalzare muri abbia basi sostanzialmente politiche, e sia diretta conseguenza del lento ma inesorabile allargarsi del fossato che oggi separa la Turchia dall'Unione europea.
“Purtroppo la [progettata] barriera segnerà la vittoria della visione sarkozista delle frontiere dell'Europa”, ha scritto a gennaio Erdal Şafak, codirettore del quotidiano turco Sabah, in riferimento al "muro" di Orestiada. “Il messaggio del muro è che la frontiera dell'Europa corre lungo una riva dell'Evros”.
Per dirlo con altre parole, la manodopera che dovrebbe impastare cemento e tendere filo spinato è greca e bulgara. Gli architetti che hanno progettato il muro, però, stavolta vanno cercati a Parigi, Berlino e Bruxelles.
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