Il tram “514” a Largo Preneste, Roma (foto S. Kelner)

Il tram “514” a Largo Preneste, Roma (foto S. Kelner)

Una riflessione sul ruolo dell’immigrazione nella società italiana e sull’importanza di una cittadinanza inclusiva e interculturale, con uno sguardo sul quartiere romano di Centocelle

21/03/2025 -  Sielke Kelner

Il mio idraulico di fiducia si chiama Gheorghe. Io lo chiamo Gică, perché è il nomignolo che portava uno zio al quale ero affezionata, e perché mi ricorda un ben più famoso Gheorghe, il cantautore romeno Gică Petrescu, che con leggerezza metteva in versi fatalismo balcanico e debolezze dell’animo umano, canzoni nelle quali si ritrovano ritratti di una Bucarest del secolo scorso.

Ma siamo a Centocelle e Gheorghe è per tutti Gigi, è così che si presenta. Gigi è sulla cinquantina, alto, ha capelli ricci e ogni volta che lo incontro al collo porta un fazzoletto colorato che gli dona un fascino à la John Wayne. Gigi, originario di Vrancea, distretto della regione moldava della Romania, è l’idraulico di fiducia di tutto il quartiere. Gigi non è solo un mago dell’idraulica: fissa scope rotanti al muro, rimbianca, sistema maldestri assembramenti dei mobili della famosa catena svedese. Gigi è richiestissimo, perché Gigi gets the job done.

La dedizione di Gigi per la sua professione, la sua etica del lavoro, è quella degli immigrati di tutto il mondo. Lavorare duro, lavorare sempre. Basta guardarsi intorno. La dedizione di Gigi è la stessa di Bibo, il fioraio egiziano che ha rilevato il negozio lo scorso agosto. Di Luis, il calzolaio del quartiere, originario del Venezuela. Di Marta, proprietaria della sartoria e tintoria, venuta in Italia dal Messico e della famiglia cinese che gestisce il negozio con punto di ritiro pacchi aperto 7 giorni su 7. 

Lo spiraglio sulla composizione interculturale e sul collocamento settoriale dei residenti del mio quartiere conferma i dati forniti dal 30° Rapporto sulle migrazioni dalla Fondazione ISMU (Iniziativa e Studi sulla Multietnicità). Dall’analisi dei dati sull'impiego, risulta che il settore con la più elevata incidenza della popolazione migrante in Italia rimane quello dei servizi personali e collettivi (31,6%); a seguire il settore dell’agricoltura (17,7%), ristorazione e turismo (17,3%), costruzioni (15,6%).

Offrendo servizi trascurati dall’assistenza pubblica-sociale, eppure imprescindibili, come i servizi dedicati alla cura della persona, rivitalizzando settori trascurati del piccolo artigianato, e avviando attività commerciali a conduzione famigliare, i migranti costituiscono una componente fondamentale dell’economia quotidiana. Con la loro intraprendenza imprenditoriale e le loro competenze questi lavoratori non solo migliorano il loro tenore di vita, essi rafforzano l’economia del paese, a beneficio di tutta la comunità. Insomma, Immigrants, get the job done.

Ma quanti immigrati?

Un paio di settimane fa su un affollato 14 che da Centocelle si muoveva verso il Pigneto, ad un alterco tra giovani ragazzi immigrati è seguito un monologo sconclusionato di un vecchio italiano che spiegava al passeggero che gli sedeva di fronte, come avessimo rovinato il paese. 30 milioni siete, avete trasformato l’Italia in una cloaca, diceva rivolgendosi al pubblico dell’Atac. Il ragazzo che gli sedeva di fronte, e noi tutti, siamo rimasti in silenzio, nonostante sia lui, sia la maggioranza di noi fosse direttamente chiamata in causa, nonostante le nostre facce, il nostro vissuto fossero espressione dell'interculturalità del paese, quella che il vecchio stava insultando.

Sarà anche stato fuori di senno, la capitale non è una città gentile con chi vive ai margini. Eppure, dati di migrazioni iperboliche causa di tutti i mali caratterizzano il discorso pubblico italiano sull’immigrazione, che negli ultimi anni ha assunto toni sempre più marcatamente xenofobi.

Il Barometro dell’odio 2022 redatto da Amnesty International Italia ha confermato il trend degli ultimi anni, durante i quali abbiamo assistito e continuiamo ad assistere a tornate elettorali in cui il tema della mobilità viene associato ad affermazioni discriminatorie e deumanizzanti dirette a generare odio verso migranti e persone con background migratorio.

Analizzando i contenuti social pubblicati dai politici, dal report di Amnesty emerge che durante le ultime elezioni politiche italiane, il 53% dei contenuti social ritenuti problematici si siano focalizzati sui temi della migrazione. Nel 29% dei casi si tratta, senza preamboli, di hate speech, discorsi di odio associati a temi della migrazione. Non a caso, anche il recente rapporto della Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza , ha rilevato dinamiche di antagonizzazione delle minoranze, categoria che comprende rifugiati, richiedenti asilo e migranti, nonché dei cittadini italiani con background migratorio.

Il processo di deumanizzazione dello straniero, del migrante, del rifugiato, era stato descritto in termini più lirici ma altrettanto efficaci, dal premio Pulitzer Viet Thanh Nguyen, il quale ha scritto della condizione del rifugiato sia nei suoi romanzi sia in diversi saggi. Thanh Nguyen suggerisce che agli occhi di chi accoglie, i rifugiati vengono caratterizzati da estraneità. Visti come “uno stereotipo, una battuta o un orrore” (“a stereotype, a joke, or a horror”) vengono de-umanizzati.

Deumanizzandoli, non si può simpatizzare per loro, e non ci si può identificare, rendendoli o invisibili, da ignorare, o troppo visibili, da temere. Questa pratica, purtroppo diventata paradigma comune nel discorso pubblico dei partiti sovranisti europei, esibisce un sottotesto che si rifà ad argomentazioni di carattere etnico e razziale, e rivela l’inquietudine di chi crede che la propria sopravvivenza sia dettata dalla conservazione dello status quo. In fondo, la deumanizzazione dell’altro rivela una profonda insicurezza del proprio sé, che riesce ad affermarsi solo antagonizzando l’altro.

Che poi i fattori della migrazione sono universali e accomunano anche gli italiani, tradizionalmente popolo di migranti. Infatti, sebbene la spinta alla migrazione sia un’esperienza soggettiva, essa è riconducibile a fattori comuni che si contano sulle dita d'una mano : le conseguenze della colonizzazione europea dei secoli passati, degli interventi militari delle grandi potenze nel passato più recente, degli effetti catastrofici del cambiamento climatico, come anche delle profonde disuguaglianze economiche. La mancanza di una mobilità sociale si riflette nelle storie degli emigrati italiani, sia del passato che del presente .

Quanti sono, quindi, questi immigrati in Italia? Secondo i dati Istat, l’Italia è cominciata ad essere destinazione della mobilità internazionale nel 1973. Delfina Licata , sociologa delle migrazioni presso la Fondazione Migrantes (fondazione che cura sia il Rapporto Immigrazione  sia il Rapporto Italiani nel Mondo ), scrive: “Sono quasi cinquant’anni, quindi, che l’Italia si confronta quotidianamente con l’immigrazione, ma c’è chi ancora la rifiuta, come se si potessero realmente rispedire a casa ciascuno dei circa 5,1 milioni di immigrati residenti regolarmente, c’è chi ancora ne parla come un elemento che è arrivato ma che è destinato a passare prima o poi”.

I dati menzionati da Licata sono confermati dall’ultimo rapporto ISMU, che si rifà ai dati del censimento del 2021: 5 milioni e 30mila persone, ovvero l’8,5% della popolazione italiana. Di questi, 853 mila non sono affatto immigrati, ma cittadini stranieri nati in Italia.

Quale cittadinanza

Vien incontro ancora la sociologa Delfina Licata, la quale ci ridà una concezione organica di cittadinanza, intesa non come un dato immobile, fondato su elementi certi ed immodificabili, ma intesa come un processo progressivo e dinamico: “L’Italia è interculturale, ma perde tempo da troppi anni a discutere di quanto sia giusto riformulare una legge sulla cittadinanza desueta, impantanata nel passato di un’Italia che non esiste più, quella che ha dato tanti nuovi cittadini ad altri paesi europei, come al Belgio, ma anche alla Francia, alla Germania, o alla Svizzera per restare nella sola Europa.”

Del resto, il rapporto ISMU 2024 rivela che nell’intervallo 2011-2023 si sono registrate in Italia complessivamente un milione e 700mila acquisizioni di cittadinanza. Eppure l’ondata più recente di acquisizione di cittadinanza non riguarda chi è nato in Italia da genitori stranieri o chi è cresciuto in Italia, ma le acquisizioni per ius sanguinis, richieste di cittadinanza inoltrate dai discendenti di cittadini italiani che nei precedenti decenni sono emigrati, come nel caso del presidente argentino Javier Milei. ISMU registra che negli ultimi anni il fenomeno dell’acquisizione italiana per discendenza ha registrato una crescita straordinaria: +160% tra il 2021 e il 2022 e +30% tra il 2022 e 2023.

Nel corso degli ultimi 30 anni sono state presentate oltre cento proposte di legge nel tentativo di riformare la legge del 1992 che regola la concessione della cittadinanza italiana. Escludendo le naturalizzazioni e l’acquisizione per matrimonio, la cittadinanza italiana è concessa a chi, essendo nato in un paese straniero extra-UE ne fa domanda dopo aver trascorso legalmente ed ininterrottamente 10 anni sul territorio italiano. Oppure, a chi nasce in Italia da genitori stranieri, risiede ininterrottamente sul territorio italiano per 18 anni, e fa domanda entro un anno dal compimento dei 18 anni.

La decisione della Corte Costituzionale dello scorso gennaio che ha dichiarato l’ammissibilità del referendum abrogativo promosso da Più Europa con il sostegno di più di 70 realtà della società civile italiana, e che mira a ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter avanzare la domanda di cittadinanza, dà uno spiraglio di luce per il quasi milione di giovani nati e cresciuti in Italia che rimango esclusi dalla cittadinanza.

Un primo passo necessario che con il raggiungimento del quorum si spera possa avviare un dibattito su una più ambiziosa riforma della legge sulla cittadinanza. Del resto, il breve lasso di tempo nel quale i promotori dell’iniziativa referendaria hanno raccolto le firme necessarie, è sintomo che almeno una parte della cittadinanza è sensibile al tema, in grado di concepire il fenomeno della mobilità umana al di là delle considerazioni economiche, e di superare l’esaltazione dei lavoratori migranti come mera forza lavoro. Ed è sintomo che è giunto il tempo di una riflessione sul ruolo che le diverse comunità di migranti e dei loro figli e figlie hanno nella costruzione del paese. 

Uomini di Torpignattara (Roma) a guardare la partita dell’Italia (foto S. Kelner)

Uomini di Torpignattara (Roma) a guardare la partita dell’Italia (foto S. Kelner)

Epilogo

Poche opere contemporanee riescono ad arrivare trasversalmente ad un largo pubblico parlando di esperienza migratoria. Il singolo del 2017 “Immigrants, We get the Job done ” è una di queste rare eccezioni.

Al di là delle critiche che negli ultimi anni hanno investito il concetto ribadito dal musical da cui il singolo prende ispirazione, Hamilton: An American Musical —ovvero l'idea di una nazione statunitense fondata dagli immigrati, a scapito di una narrazione più accurata che evidenzia il colonialismo di insediamento e l’oppressione delle popolazioni indigene —il singolo resta un inno all’esperienza migratoria.

Con un ritmo serrato, tipico dell’hip hop, il singolo mette in scena l'epopea del migrante: dalle molte motivazioni che spingono alla partenza (Buckingham Palace or Capitol Hill/Blood of my ancestors had that all built), alle difficoltà lungo il percorso migratorio (Tenemos más trucos que la policía secreta/Metimos la casa completa en una maleta), alla fatica di affermarsi in un paese che non è il proprio (I got one job, two job, three when I need them/I got five roommates in this one studio, but I never really see them). Il tutto attraverso quattro artisti che magistralmente attraversano metaforicamente le barriere linguistiche tra l’inglese e lo spagnolo.

La lirica di Immigrants, we get the job done pretende una riflessione sul ruolo che i migranti hanno nell’odierna costruzione del paese. Una riflessione che oggi risulta ancora più necessaria, non solo negli Stati Uniti.

Potrà suonare come un paradosso pretendere una riflessione sulle politiche migratorie, di concessione della cittadinanza e sulla concezione stessa della nostra società in un momento di crisi dei valori di inclusività e dei diritti umani, come quello che stiamo attraversando. Eppure, non c’è momento migliore per riaffermare la nostra solidarietà con chi è parte integrante della nostra società ma non né può godere pienamente dei diritti. Riconoscere che la partecipazione attiva dei migranti e di chi ha un retroterra migratorio all'economia, al benessere sociale e al dinamismo culturale dell'Italia è fondamentale. 

È certamente un buon momento per ribadire che la società che vogliamo è una comunità di cittadini in cui le differenze non siano solo tollerate ma accolte, differenze intese come parte integrante dei nostri valori culturali, sociali, economici e politici, specchio di una società interculturale , perché la mobilità umana ci ha reso il paese e il continente che siamo, dalla notte dei tempi (di Neanderthal ).

Del resto il mito fondativo del nostro paese affonda le radici in un'antica narrazione che si richiama alle gesta di Enea, tradizionalmente descritto come uno straniero, un viaggiatore—o, con termini moderni, un migrante, un immigrato. In fuga dalla città di Troia in fiamme, giunse da profugo sulle coste laziali, in cerca di salvezza per sé stesso, per il padre anziano e per il figlioletto. Non è difficile immaginare una trasposizione contemporanea del mito di Enea in cui, a qualche anno dall’approdo, lo si senta recitare: Look how far I’ve come / Immigrants, we get the job done.

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Questo articolo è stato prodotto nell'ambito di “MigraVoice: Migrant Voices Matter in the European Media”, progetto editoriale realizzato con il contributo dell'Unione Europea. Le posizioni contenute in questo testo sono espressione esclusivamente degli autori e non rappresentano necessariamente le posizioni dell'Unione europea.


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