Gerald Knaus, direttore di ESI

Gerald Knaus, direttore di ESI

Nell’acceso dibattito sulla proposta di modificare i confini tra Serbia e Kosovo, con possibile conseguente spostamento di popolazione, interviene il direttore del think tank European Stability Initiative

31/08/2018 -  Sead Numanović

(Originariamente pubblicato da Dnevni Avaz , il 28 agosto 2018)

La modifica dei confini potrebbe rappresentare una soluzione alle questioni irrisolte tra i paesi dei Balcani? Oppure contribuirebbe soltanto a gettare ulteriore benzina sul fuoco?

L’idea che i problemi delle minoranze vadano risolti spostando confini o popolazioni è sempre esplosiva perché apre la strada a nuovi conflitti. Basti pensare alla situazione in ex Jugoslavia negli anni Ottanta, quando gli intellettuali e i politici, invece di discutere delle riforme, si erano focalizzati sulle questioni etniche e quelle relative ai confini. Tutti sappiamo com’è finita. Chiunque abbia qualche conoscenza della storia e un minimo di buon senso dovrebbe opporsi a questa idea.

Che cosa pensa di un eventuale scambio di territori tra Kosovo e Serbia?

Qui non si tratta di territori. Ciò che rende l’intera vicenda così pericolosa è il fatto che riguarda la vita di migliaia di persone. Qui abbiamo a che fare con la più vecchia delle idee nazionaliste, secondo la quale si può essere al sicuro e avere una vita dignitosa solo all’interno della propria tribù, circondati da persone che condividono la nostra stessa religione e lingua madre. Pertanto i confini tra gli stati, secondo questa logica, dovrebbero essere tracciati in modo da assicurare che tutte le persone appartenenti allo stesso popolo vivano nello stesso paese.

Questa idea in passato è stata spesso considerata semplice da realizzare, e persino positiva: perché non creare gli stati in modo tale da permettere alle persone accomunate da molte caratteristiche di vivere insieme? Ma una volta messa in pratica, questa idea produce conseguenze mostruose, perché la vera società è solo quella fondata sulla diversità e le persone non vogliono essere costrette a spostarsi.

Tra tutte le tendenze regressive che hanno caratterizzato la storia recente dei Balcani, la più pericolosa – accanto alla legittimazione dell’uso della violenza per scopi politici – è proprio la tendenza a creare stati monoetnici. Sarebbe estremamente irresponsabile da parte dei leader dei paesi balcanici e funzionari europei tentare di far rivivere questa creatura frankesteiniana.

Se non si tratta di territori, come lei afferma, perché allora i leader dei due paesi continuano a parlare delle possibilità di scambiare territori?

Nessuno sa esattamente di cosa si stia parlando. Il presidente del Kosovo non ha ottenuto il via libera dal parlamento per avanzare alcuna proposta concreta. Egli parla di una “correzione dei confini”. Va bene, non sarebbe la prima volta che accade una cosa del genere. Ma tutti sanno che Belgrado non si accontenterebbe di qualche città deserta e qualche foresta nel nord del Kosovo.

Qui si tratta di persone che hanno già vissuto esperienze traumatiche in Kosovo e in Serbia, come anche in altre parti della regione. Assistiamo a una situazione in cui i leader dei due paesi discutono in maniera tutt’altro che trasparente del destino di queste persone. Discutere a porte chiuse del futuro di decine di migliaia di persone è esattamente quello che hanno fatto i diplomatici europei durante il Congresso di Berlino, e sappiamo com’è finita: con lo scoppio di nuovi conflitti nei Balcani, che si sono protratti per un intero secolo, provocando milioni di sfollati.

Lo scambio di territori è un’opzione realistica per risolvere la disputa tra Kosovo e Serbia?

No. La sola discussione su questo tema accende gli animi. Già assistiamo al crescere dei timori, agli scostamenti rispetto all’agenda politica prestabilita… Questa situazione non gioverà a nessuno.

Il presidente del Kosovo non otterrà mai il consenso dal parlamento alla cessione del nord del Kosovo alla Serbia. Né il presidente Vučić potrà facilmente cedere al Kosovo i comuni di Preševo e Bujanovac. Pertanto la cosa migliore sarebbe che l’Unione europea dimostrasse autorevolezza, dicendo chiaramente che incoraggia il raggiungimento di un compromesso, ma che certe idee su come risolvere la questione delle minoranze sono inaccettabili.

Invece succede l’esatto contrario. Si discute seriamente della possibilità di modificare il confine tra i due paesi e molti funzionari occidentali ne sono al corrente, e alcuni persino partecipano alle trattative in corso…

Questo dialogo non porta da nessuna parte. Ma potrebbe rivelarsi vantaggioso per qualcuno. La Serbia deve dimostrare all’Ue di essere seriamente impegnata a trovare una soluzione. Nessuno in Serbia vuole davvero che l’intero Kosovo torni ad essere parte integrante della Serbia; che esistano, come in Macedonia, due lingue ufficiali; che lo sviluppo delle zone rurali del Kosovo venga finanziato dal bilancio dello stato; che i posti di lavoro nella pubblica amministrazione vengano equamente ripartiti tra serbi e albanesi.

Allora qual'è la seconda migliore soluzione per la leadership serba quando il controllo dell’intero territorio del Kosovo non è più un’opzione? Ottenere una parte del territorio del Kosovo senza dover dare nulla in cambio, tranne il riconoscimento, che è comunque inevitabile. E poi questo viene presentato a Bruxelles come un compromesso.

Nessun leader politico serbo a cui importa davvero del benessere dei serbi del Kosovo avrebbe mai imboccato questa strada. Ma qui non si tratta dei serbi del Kosovo.

Perché pensa che la divisione del Kosovo non sarebbe una buona soluzione per i serbi del Kosovo?

Perché la maggioranza dei serbi del Kosovo non vive nella parte del paese che potrebbe eventualmente essere annessa alla Serbia. Nel caso in cui il Kosovo venisse diviso, la loro vita diventerebbe ancora più difficile, se non impossibile, com’è successo ai greci di Istanbul dopo lo scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia nel 1923. Potevano rimanere a Istanbul, senza però godere degli stessi diritti dei cittadini turchi. Sono diventati pedine di un gioco diplomatico, ostaggio delle dispute tra i due paesi. I serbi del Kosovo e gli albanesi che vivono in Serbia non possono essere ostaggio delle trattative tra i rispettivi governi.

Belgrado sostiene che la maggior parte dei serbi se ne sia già andata dal Kosovo…

Contrariamente a quanto si crede, la maggior parte dei serbi del Kosovo è rimasta in Kosovo, non hanno mai lasciato il paese, né nel 1999 né dopo le violenze subite nel 2004. Vivono nei villaggi sparsi in tutto il paese e godono di molti diritti garantiti dalla Costituzione kosovara. La leadership kosovara ha tutto l’interesse a rispettare i diritti della minoranza serba, dimostrando in tal modo che il Kosovo è un paese serio che merita il riconoscimento internazionale e l’apertura dei negoziati di adesione all’Ue. E la leadership al potere in Serbia, che si autodefinisce patriottica, ha il dovere di rispettare la scelta dei serbi del Kosovo di rimanere in Kosovo. Un’eventuale divisione del Kosovo, che vedrebbe l’unica grande città a maggioranza serba, Mitrovica nord, annessa alla Serbia, significherebbe la scomparsa del Kosovo multietnico.

Se la divisione del territorio kosovaro non è una buona soluzione per i serbi del Kosovo, perché i leader nazionalisti serbi sono favorevoli a questa opzione?

Perché ai nazionalisti non importa nulla della gente comune, né tanto meno si preoccupano della sopravvivenza di una società multietnica. La presenza di una forte minoranza serba in un altro paese rappresenta una minaccia per i nazionalisti serbi. Basta ricordare come nel 1996 i nazionalisti serbo-bosniaci abbiano costretto i loro connazionali a lasciare Sarajevo. Oppure come nel 1997 abbiano cercato di impedire il ritorno dei serbi a Drvar.

Per come stanno le cose, la Russia è l’unica che potrebbe trarre qualche vantaggio da un’eventuale divisione del Kosovo…

L’obiettivo di Putin è di rallentare il processo di integrazione dei Balcani occidentali nell’Unione europea. E ci sta riuscendo. La divisione del Kosovo rappresenterebbe un precedente a cui far riferimento per giustificare l’occupazione da parte della Russia di diversi territori, dalla Crimea alle regioni del Caucaso. Tuttavia, il futuro dei Balcani occidentali non è nelle mani di Mosca né di Washington. È nelle mani dell’Unione europea.

Pensa che Bruxelles potrebbe appoggiare un’eventuale proposta di uno scambio di territori tra Kosovo e Serbia?

L’atteggiamento di alcuni funzionari europei, che affermano che “qualsiasi accordo raggiunto tra le due parti sarà accettabile per l’Ue”, è molto pericoloso. Certo che bisogna incoraggiare il raggiungimento di un compromesso, per una questione di principio, ma anche le ragioni pragmatiche. Ma se i leader dei due paesi raggiungono un accordo sullo scambio di popolazioni, e non di territori, come successo a Losanna nel 1923? La scorsa settimana, l’ex ambasciatore della Serbia negli Stati Uniti ha dichiarato che lo scambio di popolazioni tra Serbia e Kosovo potrebbe essere una buona soluzione. Bruxelles ha forse dimenticato quali conseguenze abbiano portato alcuni accordi raggiunti in passato tra i leader nazionalisti?

L’Unione europea deve dire chiaramente che appoggerà la proposta di una modifica del confine tra Serbia e Kosovo solo nel caso in cui fosse frutto di un accordo bilaterale, raggiunto dopo un dibattito pubblico, serio e trasparente, finalizzato a migliorare le condizioni di vita di tutte le persone coinvolte. Una divisione del Kosovo che avrebbe portato al peggioramento delle condizioni di vita della maggior parte dei serbi del Kosovo solo per soddisfare l’agenda nazionalista della leadership di Belgrado è inaccettabile.

Cosa dovrebbe fare l’Unione europea?

L’Unione europea dovrebbe essere molto più proattiva. Dovrebbe dire chiaro e tondo che la Serbia potrà entrare a far parte dell’Unione europea solo se riconosce il Kosovo nei suoi confini attuali, e che il Kosovo potrà diventare membro dell’Unione europea solo se rispetta gli impegni, previsti dalla Costituzione, relativi ai diritti delle minoranze e alla protezione della comunità serba.

L’Unione europea si è impegnata a fornire un sostegno concreto alla Serbia e al Kosovo, come anche agli altri paesi dei Balcani occidentali, al fine di aiutare la loro ripresa economica e rendere credibile la prospettiva di integrazione. Bisognerebbe stimolare lo sviluppo dei Balcani occidentali sull’esempio della regione baltica: piccoli paesi, focalizzati sulle riforme economiche e sociali, con i più avanzati sistemi di istruzione. Questa è la strada giusta da percorrere per raggiungere gli standard europei e avvicinarsi all’obiettivo dell’adesione.


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