Peć/Peja

Peć/Peja (Pricey/flickr)

Non solo la val Rugova con i suoi profondi canyon e le sue valli incontaminate. Il Kosovo occidentale offre valide ragioni per visitarlo anche dal punto di vista storico-culturale. Un reportage dalla cittadina di Peć/Peja realizzato da www.viaggaireibalcani.it. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

05/05/2011 -  Eugenio Berra Peć/Peja

Scriveva Nicolas Bouvier ne La polvere del mondo che “un viaggio non ha bisogno di motivi. Non ci mette molto a dimostrare che si giustifica da solo: pensate di andare a fare un viaggio, ma subito è il viaggio che vi fa, o vi sfa”.

Sono partito per Peć/Peja con una destinazione ben precisa: la val Rugova e i villaggi coinvolti all’interno del programma Seenet nell’azione "Valorizzazione del turismo ambientale nei territori di Scutari, Niš, Kraljevo, Nikšić, Peć/Peja". Con Luca Lietti - coordinatore trentino del progetto per conto del Comitato Servizi di Cooperazione con i Balcani – si era pianificato tutto nei minimi dettagli: arrivo a Peć/Peja, spostamento in Val Rugova, incontri, fotografie… non avevamo però previsto la forte nevicata che per giorni si è abbattuta sulla regione, bloccando strade e sbarrando anche il nostro accesso alle zone più interne della valle. Dopo aver lasciato la città e percorso una ventina di chilometri nella stretta gola scavata dal fiume Lumbhard (il "fiume bianco"), tra alte pareti di roccia che sembrano finire nel cielo il cui lucore grigiastro è stemperato dalla presenza di numerosi pini loricati, la jeep su cui viaggiavamo si è arenata nella neve costringendoci ad abbandonare i nostri piani. Il viaggio ha così preso tutt’altra direzione ricordandoci che è sempre lui a farsi, mischiando e stravolgendo percorsi prefissati. E svelando al contempo luoghi e volti nemmeno presi in considerazione al momento della partenza.

La nostra visita alla cittadina di Peć/Peja è partita dalle sue propaggini occidentali, sulla riva sinistra del fiume Bistrica. Qui si trova la sede del patriarcato serbo-ortodosso, fondato nel XIII secolo quando Sava, fratello del principe Stefan Nemanja, si staccò per la prima volta dal patriarcato greco di Costantinopoli e pose le basi dell'autocefalia serba. Per entrare nel patriarcato si è obbligati a lasciare i propri documenti ai soldati italiani dell’Eufor, che da anni vigilano sul complesso monastico. Con modi gentili e sguardi assenti, la voce che tradisce un accento meridionale, ci fanno entrare nel lungo viale costeggiato di cipressi che porta al patriarcato.

Tre sono le chiese che compongono il complesso: la più antica è quella di San Salvatore, costruita circa agli inizi del tredicesimo secolo sulle fondamenta di un metochio dipendente dal monastero di Zica; qualche decennio più tardi, verso il 1320, sul lato nord della chiesa, l’arcivescovo Nikodim edificò la chiesa di San Demetrio. Dopo altri dieci anni il suo successore, Danilo II, eresse a sud della chiesa di San Salvatore altre due chiese, la prima dedicata alla vergine Odighitria mentre la seconda a San Nicolò. Per completare il complesso, sempre Danilo II edificò un nartece monumentale (il vestibolo esterno alle chiese dove si trattenevano i catecumeni durante la parte sacrificale della messa) davanti alle tre chiese principali, e una torre davanti al nartece.

All’interno della chiesa di San Demetrio è conservata una ricca collezione di antichi manoscritti, icone e opere d’arte – donazioni fatte nel corso dei secoli da vescovi e arcivescovi al monastero in cui risiedeva il patriarca. Ci piacerebbe visitarla, ma la suora che ci ha accolti sembra quantomai ansiosa di veder finire la nostra visita: ci segue furtiva lanciandoci occhiate circospette, ben attenta alla macchina fotografica di Christine che deve restare spenta nella sua borsa. Non ci resta che ammirare velocemente il sarcofago di marmo roseo in cui sono conservate le spoglie del patriarca Jefrem, l’iconostasi e gli antichi affreschi trecenteschi dedicati per la maggior parte alle sofferenze e i miracoli di San Demetrio di Salonicco, il patrono della chiesa.

Di ritorno sul viale ghiaioso non si ode altro rumore che il lento scorrere del fiume Bistrica; ai lati della strada, spogli alberi da frutta ricoperti di neve parlano di un’estate ancora lontana.

A farci da guida per il centro di Peć/Peja è Ilir Beqiraj, collaboratore del Tavolo Trentino con il Kossovo. “Questa città conserva le diverse stratificazioni depositate dai passaggi della Storia. Illiri, slavi, albanesi, turchi… i segni di ciascuno sono ancora ben presenti, rendendo questa regione colma di fascino e interesse”. Il nostro giro comincia dalla ćaršija, l’anima commerciale ottomana cresciuta nel quindicesimo e sedicesimo secolo trasformando la città in un centro nevralgico per i commerci da Oriente a Occidente e viceversa: metalli non preziosi (soprattutto ferro e rame) e prodotti agricoli come le pelli e la lana costituivano le principali esportazioni internazionali della regione, giungendo in Europa occidentale attraverso i mercanti di Ragusa, l’odierna Dubrovnik.

Come ha scritto Mariola Rukaj sulle pagine di Osservatorio Balcani e Caucaso, ben poco è però rimasto delle vecchie produzioni locali, la maggior parte delle merci acquistabili per strada o all’interno delle botteghe proviene oggi soprattutto dalla Turchia. Riusciamo a scovare un piccolo negozio-laboratorio dove acquistiamo una plisa, il tradizionale cappello bianco indossato ancor oggi dagli uomini delle diverse comunità albanesi sparse per il mediterraneo; come ci ricorda il proprietario,“anche da voi in Italia è possibile vederne, basta andare a cercare le comunità arbresh sparse tra Sicilia e Calabria”. Il vecchio hamam è stato ben ristrutturato dall’Ong italiana Intersos, ed oggi è di proprietà della comunità islamica di Peć/Peja. Nell’ala adiacente ai bagni è presente una sala multifunzionale utilizzata da diverse associazioni cittadine. Al momento del nostro arrivo, un gruppo di donne è raccolto attorno ad una lunga tavolata: scopriamo che stanno partecipando ad un corso per imparare a leggere il Corano in lingua araba.

Ilir ci guida in un bar non lontano dalla ćaršija, vuole farci assaggiare un particolare tipo di thé. Colpisce la sola presenza maschile all’interno del locale, segno di una divisione spaziale di genere ancora molto forte.“Nonostante sia chiamato thé russo, in realtà proviene dallo Sri Lanka. Fu diffuso durante il periodo ottomano all’interno degli strati sociali benestanti della città, tra i bey di Peć/Peja. Anche il caffè turco era un lusso ai quei tempi, non tutti potevano permetterselo...”.

La nostra visita si conclude al museo etnologico della città, ricavato all’interno di una casa tradizionale kosovara nel centro cittadino. Sebbene composto di sole quattro stanze, rappresenta un interessante testimonianza degli antichi usi e costumi della regione, dagli abiti agli utensili domestici.

Quello che in origine doveva essere un viaggio alla scoperta della Val Rugova e delle sue cime incontaminate si è trasformato nell’incontro con una città di grande fascino, capace ancora – a saper guardare bene – di narrare al turista la sua complessa e plurisecolare storia. Le “montagne maledette”(la catena montuosa che circonda Peć/Peja) ci osservano nell’ultima luce del tramonto. Sarà per un’altra occasione.


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