Una Chișinău poco visibile ma vivace e attiva, dove sorgono spazi ricavati da vecchi edifici e che diventano laboratori di collettivi di artisti. Reportage
Raccontano che anche nella capitale della Moldavia, come in tante grandi città, il sottosuolo sia formato da una fitta rete di gallerie e cunicoli segreti. Raccontano che la collina dove sorge il quartiere di Rîşcani – in direzione nord appena oltrepassato il ponte sul piccolo fiume Bîc - potrebbe collassare su se stessa da un momento all'altro, da quanto il terreno è stato scavato durante l'epoca sovietica. Raccontano di una Chișinău invisibile, persa fra bunker nascosti e fantomatici progetti di costruzione della metro mai realizzati.
Eppure, a prima vista, la cittadina moldava sembra non possedere profondità alcuna. Complice lo sviluppo relativamente recente (agli inizi del XIX secolo era un villaggio di 7000 abitanti e un grosso balzo in termini numerici lo si è avuto solo dagli anni '50 in poi), è difficile rinvenire palazzi o monumenti storici e i pochi che ci sono vengono spesso sottratti allo sguardo da un'espansione selvaggia e incontrollata di nuovi complessi residenziali. Le chiese, a parte ovviamente quelle principali, si rannicchiano in mezzo ai condomini; le case antiche si adeguano al tessuto urbano, segnalate soltanto da una targa sommessa. Nella sua interezza – a dispetto delle colline sottostanti che ne disarticolano il terreno – Chișinău appare come una vasta distesa dominata dal canone monotono e razionale delle krushovka (unità abitative costruite uniformemente in tutto lo spazio sovietico sotto la direzione di Nikita Kruscev, appunto), in cui a far da padrone è una sensazione quasi soffocante di omogenea “orizzontalità”.
Certamente però esiste una Chișinău underground in senso metaforico, dove una quotidianità alternativa si dipana dolcemente, lontana dai ritmi serrati dei palazzi istituzionali del centro.
Anatolie e la prima occupazione
“Esiste una legge che intende tutelare gli edifici storici, vietando di costruire oltre i 3 piani di altezza all'interno del centro - ci dice Anatolie Juraveli, uno dei protagonisti di quella che è stata forse la prima occupazione di un luogo abbandonato nella capitale moldava (il “Centro 73”) - ma le sue modalità di applicazione non sono chiare e spesso non viene rispettata”.
Nell'agosto del 2011, Anatolie e una decina di altre persone decidono di entrare in un edificio in disuso con l'intenzione di trasformarlo in uno spazio “libero” di pubblica utilità. “Avevamo visitato alcuni centri occupati nell'ovest europeo ed eravamo curiosi di vedere se qualcosa del genere fosse possibile anche a Chișinău. Il nostro era una sorta di esperimento e le motivazioni che ci guidavano erano soprattutto artistiche: avevamo organizzato concerti, esposizioni ed eventi che non si potevano trovare nei posti più istituzionali della città”. Di lì a breve un'altra costruzione, la vecchia sede dell'ambasciata turca, viene “presa” e rimessa a posto grazie all'aiuto di un collettivo di artisti e di qualche volontario attratto dall'inedita esperienza. “Successe una cosa interessante: le autorità intendevano sgomberare e chiudere nuovamente lo stabile ma il processo fu rallentato dal fatto che si trattava di un edificio storico. Addirittura alcune persone che lavoravano presso l'AIRM (l'agenzia nazionale che si occupa di preservare monumenti antichi) supportarono la nostra iniziativa. Questo cambiò radicalmente il senso di ciò che stavamo facendo: l'attenzione si spostò sulla difesa del patrimonio storico di Chișinău tanto che dopo poco riuscimmo a organizzare la prima manifestazione in assoluto su tale tematica”.
Nel giro di qualche mese, con l'arrivo dell'inverno e con una presa di posizione più decisa da parte delle autorità, le due occupazioni vengono smantellate, ma alcuni semi erano stati gettati.
Art Labyrinth, il cammino verso il pubblico
Art Labyrinth è probabilmente quanto di più vicino a un centro sociale – per estetica, natura delle proposte e tipologia di frequentatori – si possa trovare oggi a Chișinău. Lo spazio, ricavato nelle sale di un vecchio museo della città, ospita concerti, esposizioni pittoriche e fotografiche, proiezioni e conferenze. Inoltre nello stesso edificio opera anche Oberliht, associazione che si occupa di spazi pubblici e sviluppo urbano, organizzando mostre e dibattiti sul tema nonché azioni di recupero e trasformazione di luoghi nel tessuto cittadino.
Il collettivo di artisti fondatori di Art Labyrinth è appunto lo stesso che ha partecipato con Anatolie all'occupazione del “Centro 73” e dell'ambasciata turca. Negli anni ha cambiato diverse sedi più o meno di fortuna fino a stabilirsi in quella attuale, trovando un accordo con la municipalità (nonostante si sia da poco riaperto un contenzioso riguardante alcune delle sale).
“Il circuito artistico ufficiale è praticamente bloccato in Moldavia. Le persone che ne fanno parte vi lavorano fin da prima dell'indipendenza e sono spesso più interessate a mantenere una posizione piuttosto che a promuovere proposte originali”. Anfisa è una delle nuove leve di Art Labyrinth. Come altri giovani si è avvicinata al centro perché era l'unico luogo in cui sentiva di poter realizzare le proprie aspirazioni.
“Certo, il percorso non è facile per il semplice fatto che siamo in pochi: tanti di quelli che avevano interessi simili ai nostri hanno lasciato il paese per far fronte all'indifferenza delle istituzioni. Però credo che ora qualcosa si stia muovendo, sono sempre di più i giovani che decidono di restare o di far ritorno in Moldavia dopo aver fatto le proprie esperienze e che stanno portando idee nuove. Se prima frequentare un posto come Art Labyrinth derivava da necessità quasi esclusivamente personali, ora è evidente che un desiderio più ampio di comunità e collaborazione sta nascendo”.
Dal privato alla comunità
Durante l'Unione Sovietica, nel cosiddetto periodo della “stagnazione” (anni '70 e '80 sotto la guida di Breznev), anche a Chișinău si diffuse la pratica di organizzare esibizioni e performance artistiche negli appartamenti privati. Era ovviamente un modo per sfuggire alla censura o per avere una libertà e facilità di azione spesso scoraggiate dalla burocrazia dei canali ufficiali. Idealmente, le esperienze del Centro 73 e di Art Labyrinth sono filiazioni dirette di quel contesto, spontanee espressioni del bisogno di vivere una socialità diversa che altrettanto spontaneamente cercano i mezzi più semplici per realizzarsi. Si capisce dunque come il senso di “comunità e collaborazione” che intravede Anfisa – vale a dire la dimensione prettamente politica e il ruolo pubblico di tali luoghi “alternativi” - è tutto da inventare. Soprattutto nel momento in cui, per usare le parole di Vladimir Us (uno dei fondatori dell'associazione Oberliht), “con l'ingresso in un'economia di mercato le autorità pubbliche locali hanno esercitato una funzione mediatrice fra l'interesse generale e quello degli investitori privati, spesso trasformando gli spazi pubblici in 'cartelloni promozionali' per attirare i capitali ed escludendo così dal loro utilizzo i gruppi sociali con minor peso economico”.
Durante la transizione degli anni '90, la nozione di “pubblico” è praticamente scomparsa dall'immaginario comune, svuotandosi di significato e diventando un termine associato all'ingombrante eredità di un passato che ci si voleva lasciare completamente alle spalle.
È allora un cammino inverso quello su cui si sta procedendo ora, che dal privato arriva alla collettività più per “saturazione” del primo che per genuino senso di appartenenza alla seconda. Ed è un cammino faticoso, che sconta appunto anche la generale mancanza di “cappelli ideologici” (non necessariamente politici) sotto i quali riunirsi. Oltre ad Art Labyrinth quasi nulle sono infatti le esperienze di spazi autogestiti, fatta eccezione per il teatro indipendente Spalatorie. Ma non è detto che le istanze che animano tali spazi non possano espandersi e ritrovarsi in altri angoli della città, sotto forme diverse e all'apparenza irriconoscibili.
Il terzo paesaggio è underground?
Andando dal centro verso Botanica, il primo e “storico” quartiere periferico della città, è possibile ripercorrere simbolicamente la lunga e controversa fase della transizione: giusto qualche centinaia di metri separano la carcassa abbandonata dell'Hotel Naţional dalla scintillante insegna “MallDova” sul tetto dell'omonimo ipermercato. Residuo dell'epoca sovietica caduto in disuso dopo vari passaggi di proprietà il primo, evidenza iconografica della rincorsa al consumismo post-indipendenza il secondo. La strada che li collega è un viale a quattro corsie sotto ai cui lati la città sprofonda in un manto verde, puntellato qua e là da alcune costruzioni che da una parte formano l'area di “Malina Mica” (una delle zone urbanisticamente meno sviluppate di Chișinău) e dall'altra circondano l'ampio parco cittadino “Trandafirilor”.
Questi spazi, visivamente stridenti fra loro, compongono un'istantanea del progressivo “ritiro dello Stato” dalla progettazione del paesaggio urbano, nella sua triplice dimensione temporale di un passato di cui si conservano solo i resti (l'hotel ormai dimora di senzatetto), un futuro fatto di promesse di abbondanza (il centro commerciale con le sue merci in bella vista) e un presente incerto, “zona grigia” fra gli estremi.
Eppure, si avverte un senso di sottile armonia a unire panorami così diversi: all'interno del parco Trandafirilor, l'argine di cemento di un laghetto ospita persone che prendono il sole mentre poco più in là dei bambini giocano sulle scalinate di una villetta abbandonata; in mezzo ai viottoli irregolari di Malina Mica, alcuni anziani coltivano il proprio orto al riparo dal traffico delle arterie principali; fra le vetrate ipermoderne del MallDova, gruppi di giovani si preparano al sabato sera, chi andando al cinema del centro commerciale, chi bevendosi una birra nel bar accanto, chi semplicemente sostando nel parcheggio a fumare e chiacchierare.
Tali luoghi rappresentano tutti - prendendo in prestito la definizione dell'architetto francese Gilles Clément - scampoli di “terzo paesaggio”, territori indecisi rispetto alla loro funzione nonostante le etichette sotto cui si presentano. In essi un'umanità viva e pulsante si incontra rimodellando se stessa, certamente in maniera totalmente estemporanea e priva di qualsivoglia direzione precisa ma con un piglio che lascia presagire inedite configurazioni. L'incuria e l'abbandono degli edifici diventano allora un “campo giochi” in cui inventare nuove modalità di convivenza, mentre il trionfo urbano del consumismo finisce per offrire più occasioni di ritrovo delle piazze principali. Come nota sempre Clément, “il disinteresse per il terzo paesaggio da parte delle istituzioni non modifica il suo divenire ma, anzi, lo rende possibile”.
Dall'Hotel Naţional al MallDova, dal parco Trandafirilor alla zona di Malina Mica – in questa cintura a metà fra naturale e artificiale che circonda il centro di Chișinău – vige dunque uno strano regime sociale di “anarchia moderata”. Qui, dove un tempo regnavano la pianificazione e il controllo della vita quotidiana, si profila ora una fruizione degli spazi deregolata e potenzialmente libera. Ed è un discorso che si può allargare a molte altre aree: gli altri due grossi parchi periferici (il parco “Rişcani” all'ingresso di Ciocana e il “La Izvor” nel quartiere Buiucani) ma soprattutto l'estensione interna dei vari block sovietici (le unità abitative formate da un quadrilatero di condomini, dentro al quale erano presenti tutti i servizi necessari ai residenti). Forse anche per questo in Moldavia non è mai cresciuto un vero e proprio movimento di occupazione o autogestione dei luoghi abbandonati: il desiderio verso modelli alternativi di aggregazione si scarica e viene parzialmente riassorbito nel “terzo paesaggio” che “non esprime né il potere né la sottomissione al potere”. Ecco che in tali interstizi urbani si ritrova finalmente una dimensione di “profondità”. Una profondità parcellizzata e per niente monumentale ma comunque verace, in cui si mescolano gli andirivieni di diverse generazioni.
Le luci iniziano ad accendersi nel parcheggio dell'ipermercato, alcune famiglie restano sulla riva del lago ad apprestare un falò dopo il tramonto mentre gli anziani ripongono gli attrezzi da lavoro per far ritorno alle modeste villette in muratura. A far da sfondo, un'architettura decadente e “orizzontale” che – all'ombra del cemento - lascia intravedere pochissima Storia, ma molti e sinceri racconti.
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