Frontiera, esuli, questioni identitarie. Parla di questo il libro di Aljoša Curavić, abile nel raccontare una sorta di psicopatologia identitaria e di frontiera attraverso i vari personaggi del romanzo
Mi permetto di recensire un libro, “Una vita in secca” di Aljoša Curavić, uscito in una collana che io stesso curo per la Oltre Edizioni. La mia, perciò, potrebbe apparire come un’operazione promozionale, ma se così fosse dovrei farlo per tutti i libri che produco come titolare di una collana editoriale. Invece lo faccio solo per il libro di Curavić. Perché?
La ragione è molto semplice. Perché è un libro complesso, denso di motivi che invitano alla riflessione il lettore, perché è un libro ben scritto, con momenti di alta prosa e capace di penetrare nella psicologia dei tanti personaggi che vi compaiono. Con l'autore che se ne resta un po’ fuori, quasi un entomologo della natura umana. Perché è un libro che fa uso, nella composizione, di diversi tasti narrativi, da quello dell’ironia, piuttosto frequente, a quello della analisi storica, da quello della cronaca cittadina a quello di uno smaccato ritratto di interni. Infine, è un libro - come ha sottolineato Stefano Lusa in una sua recensione per Radio Capodistria - sul cui dorso “campeggia una bandiera slovena anche se è stato scritto da un autore italiano, con un cognome croato”. E quest’ultimo aspetto, di cui sono in qualche modo responsabile (la collana si chiama “Narrativa straniera”), si aggiunge ai motivi di interesse, oltre a quelli letterari, dell’opera con la quale, per dirla ancora con Lusa, “Curavić si confronta ancora una volta con le psicopatologie di frontiera”.
Qualcosa che ha a che fare anche con me personalmente e in cui sono certo si riconosceranno molti esuli, mi riferisco in particolare a quelli giuliani e dalmati. Persone che la frontiera se la portano dietro, ovunque si trovino, anche se non vivono, come Curavić, attualmente caporedattore responsabile del programma radiofonico per la comunità nazionale italiana della RTV Slovenia, a Capodistria, sul confine, appunto. Parlo, per gli esuli, di quella frontiera che, come il sottoscritto nato e cresciuto in territorio italiano ma in un campo profughi, hanno avvertito forte la barriera tra noi che vivevamo nel campo e gli altri che vivevano fuori, noi che eravamo istriani, fiumani, dalmati e loro che erano, per restare alla mia esperienza e seguendo gli spostamenti della mia famiglia, prima marchigiani e poi romani. Uno iato che, pur crescendo, è sempre rimasto, facendo crescere dentro ciascuno di noi problemi identitari, quelle psicopatologie di frontiera di cui parla, appunto, Stefano Lusa.
Ciò non toglie che persone come Aljoša Curavić, sostanzialmente nascendo e crescendo nello stesso posto degli avi, non soffrano, come noi esuli, di problemi identitari. Questi si creano pertanto in due modi: quando tu esule te ne vai dalla tua terra e ti ritrovi a vivere in una realtà e dimensione molto diversa come lingua, cultura, tradizioni, riferimenti valoriali, da quella da cui provieni; e, viceversa, quando tu resti nella tua terra, ma questa, occupata da altri, si modifica altrettanto intorno a te nella sua essenza identitaria vera e propria, cioè, come nel primo caso, anche qui nella lingua, nella cultura, nelle tradizioni, nei riferimenti valoriali della tua famiglia.
Aljoša Curavić, nel suo romanzo, racconta questo secondo tipo di psicopatologia identitaria. Lo fa attraverso una storia che ha un avvio “romanzesco”: Luca Sinicovich, un medico veneziano, nel corso di un viaggio aereo dal Cairo ad Addis Abeba, con altri dottori di Medici Senza Frontiere, precipita in mezzo all’Africa. Prima di intraprendere quel viaggio ha scritto una sorta di memoriale in forma di romanzo il cui protagonista è Davide Santin, chiaro alter ego di Luca Sinicovich, memoriale il cui plico arriverà misteriosamente, con la posta, nelle mani di Johnny K. Paries, a New Orleans, che Luca Sinicovich aveva conosciuto anni prima in un convegno, diventandone amico. Johnny leggerà, e lui con noi, il memoriale-romanzo di Luca Sinicovich, ma è chiaramente non il suo, bensì quello di Aljoša Curavić che, per farlo con lucidità narrativa, ha avuto bisogno di due passaggi, prima quello di Luca Sinicovich e poi quello di Davide Santin, con l’intermediazione di Johnny K. Paries, per mettere una certa distanza tra il suo vissuto quotidiano nella città dal nome inventato (ulteriore distanza) di Castello-Kaštel.
Lo scopo, per quanto smascherato, è di concedersi libertà inventive che la città di Capodistria-Koper non gli avrebbe emotivamente consentito, pur nella analogia del passaggio da città veneta a città jugoslava e quindi a città slovena. Afferma la figura del terzo intermediario, ovvero l’americano Johnny: “Il personaggio immaginato dal suo autore si muove in un mondo oscuro e difficile da cogliere per chi non è abituato a vivere in quel regno di mezzo scontroso, refrattario, spesso violento, come di solito sono i territori di frontiera”.
Un mondo, emergerà, in cui “la campagna, messasi in marcia decenni prima, si era impossessata della città cambiando definitivamente la sua composizione etnica, fino allora prevalentemente italiana, e le linee urbanistiche, da orizzontali a verticali”, un mondo in cui l’unico giornale del paese era in lingua slovena e nel quale dominava l’Alleanza degli Uguali, che evidenzia nel nome il gusto ironico dell’invenzione, presente altrove, quando non sfiora il sarcasmo, come nel caso in cui il giornale racconta l’anno “diabolico” in cui piovve di seguito per una settimana travolgendo ogni cosa in un modo che l’autore ci narra, con grande efficacia descrittiva, apocalittico, con le bare che uscite dalla terra del cimitero avevano preso a galleggiare ovunque. Il tutto a causa dei rivolgimenti urbanistici per cui anche un editoriale sulla prima pagina dell’Ugola degli Uguali “si chiedeva se, in definitiva, fosse giusto squilibrare la natura con tutti quegli scavi e smottamenti provocati da macchine”.
Che il tutto abbia anche un significato metaforico è suggerito da quanto si legge dopo, ovvero che “l’editoriale provocò un cupo disagio fra i kaštelani. Qualcuno si allarmò. La Comunità dell’acqua si riunì in gran segreto e decretò che l’Ugola si era presa troppe libertà. Di certo è che la firma dell’autore dell’editoriale sul fossile non comparve più. Di lui non si seppe più nulla”.
Il romanzo non ha una trama definita, se non per l’apertura sull’incidente aereo e il plico che arriva a casa di Johnny K.Paries a New Orleans e la chiusura con la notizia del ritrovamento di un aereo in Africa nella sabbia privo però dei passeggeri, come per una loro misteriosa scomparsa. Non ha trama ma è tutto costruito ad ampi frammenti che si ricompongono dando vita a diverse storie (compresa ad esempio la contesa tra Italia e Slovenia dei dipinti istriani, del Tiepolo, dell’Algardi, di Paolo Veneziano e i fratelli Carpaccio, messi in protezione altrove dall’Italia in guerra nel 1940), storie sempre collegate a Castello-Kaštel, in un ispirato e sapiente assemblaggio di materiale, che nell’insieme producono per accumulo il senso di un’epoca, offrendo uno spaccato politico, sociale, linguistico dell’attuale condizione del litorale sloveno e dei suoi abitanti, in particolare dei “rimasti” che, forse, la fine della Jugoslavia ha reso ancora più smarriti di quanto già non lo fossero.
Curavić lo spiega molto bene, per interposta persona prestata a uno dei personaggi che si alternano sulla scena del romanzo, quando racconta di Mario, giornalista candidato alla carica di redattore capo della testata, voluto dai proprietari su insistenza della politica, che per guadagnarsi il posto deve sottoporsi a un test formulato da uno psicologo clinico. Per cui, nonostante in quel lavoro conti “il lavoro svolto, il profilo acquisito in anni e anni di carriera e l’impeccabilità del curriculum” Mario accetta la prova del test. E conclude, amaramente: “Capì anche che sotto la veste, molto ‘yuppie’, di terminologie quali ‘pianificazione aziendale, pianificazione e gestione carriere’, molto in voga negli anni rampanti della nuova democrazia post regime degli Uguali, si nascondeva la volontà di controllare e manipolare i nuovi candidati da inserire nelle vecchie strutture sorte durante il passato regime, e ancora controllate da cellule mutate dal vecchio partito”.
Perché se c’è qualcuno che sa perpetuare se stesso è chi detiene il potere vero fino a spingere chi non lo riconosce, nel movimento delle maree della storia, con i suoi alti e bassi (l’acqua, così presente in questo romanzo!), verso una vita in secca. Quella vita che Aljoša Curavić ha saputo raccontare nel suo romanzo.
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