A margine del Festival Mediterraneo Downtown 2017 di Prato abbiamo incontrato il giornalista turco Can Dündar. Timori e speranze per la Turchia dopo la vittoria di Erdoğan al referendum costituzionale
Dopo il referendum costituzionale, la Turchia sembra un paese lacerato. Come valuta il risultato della consultazione, e cosa attende il paese nel prossimo futuro?
Se aver spaccato il paese può essere considerato un successo, allora possiamo dire che Erdoğan ha trionfato: è riuscito a polarizzare la società, dividendola a metà. Il referendum non era sulla costituzione, ma su Erdoğan: il paese appare ora diviso tra quelli che lo amano e quelli che sono contro di lui. E' un esito molto pericoloso per tutti. D’altra parte è importante e significativo perché ha dimostrato che oltre il 50% dei votanti sperano ancora nella democrazia e lottano per difenderla. Personalmente, ho accolto il risultato con gioia perché so in quali condizioni è stata realizzata la campagna per il “no”. Il fatto che in queste circostanze il 49%-50% della popolazione dica ancora “no” ci permette di non smettere di sperare per la Turchia.
Il fronte del “no” è composto da gruppi con posizioni molto eterogenee. E' possibile che formino un fronte comune?
In realtà un’unica parola, la parola “no” è riuscita a unirli. Di conseguenza tale convergenza, qualcosa che è sfuggita per anni, c’è già. Sono convinto che nemmeno il fronte del “sì” sia monolitico: ciò che li lega, più che la parola “sì” è l’effetto di attrazione esercitato dal potere. Sono molto scettico su quanto tale fronte resterà solido nel momento in cui verrà a mancare quel potere. Invece, per la prima volta dopo tanto tempo, il fronte del “no” ci ha dimostrato che settori molto diversi della società sono in grado di muoversi in un unico blocco. Anche dopo il referendum sono stati lanciati appelli in questo senso e mi aspetto che queste iniziative evolvano in una direzione positiva.
La situazione attuale del paese è stata in parte causata dalla debolezza dell’opposizione politica. E’ ottimista anche a questo riguardo?
Purtroppo è così, ma spero che questa volta le opposizioni potranno agire in maniera più razionale, visto che in passato hanno commesso molti errori. Sfortunatamente ci troviamo nella situazione in cui uno dei leader politici dell’opposizione [Selahattin Demirtaş, co-leader del filo-curdo Partito democratico dei popoli HDP, nda] si trova in prigione, mentre l’altro [Kemal Kılıçdaroğlu, leader del kemalista Partito repubblicano del popolo CHP, nda] non sa come procedere. Ma tra le fila del CHP si stanno sollevando voci discordanti e soffia un vento per il cambiamento. Forse un po’ fuori tempo, ma non è mai troppo tardi per correre ai ripari. Ci sono segnali per creare nuove alleanze e lo stesso messaggio inviato dal carcere venerdì scorso da Demirtaş [relativo alla possibilità di costituire nuove alleanze accomunate dalla comune istanza di democrazia, nda] va in questa direzione. Sono tutti segnali positivi, di cui la Turchia ha bisogno.
Crede che il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP, al potere) possa andare incontro ad uno sfaldamento?
Ciò che tiene unito l’AKP è la forza del potere e la paura di Erdoğan. Nel momento in cui questi elementi verranno a mancare non ci sarà più un partito chiamato AKP. Penso quindi che l’alleanza esistente sia passeggera e che si basa sul potere. So inoltre che diverse personalità interne al partito, dotate di buon senso, sono molto disturbate dagli sviluppi della situazione politica. Restano in silenzio perché temono Erdoğan, ma fin da ora si percepisce il loro fastidio, sia dai dibattiti a cui assistiamo nei media pro-governativi che dalle voci di protesta che sommessamente provengono dalla parte di Abdullah Gül e Ahmet Davutoğlu [rispettivamente ex capo di Stato ed ex capo di governo, membri dell’AKP, ndr].
La riforma costituzionale approvata con il referendum avrà effetti diretti sulla difficile condizione dei giornalisti in Turchia?
E’ prevedibile che aumenterà la pressione di Erdoğan, perché ora è ancora più forte. La giustizia è passata totalmente sotto il suo controllo. Se in passato qualche tribunale poteva ancora emettere sentenze a favore della libertà dei media, come accaduto nel nostro caso, e sul quale si è espressa la Corte costituzionale, questo ora non è più possibile. Anche l’esecutivo esercitava un ruolo di contrappeso, ora con l'abolizione del Consiglio dei ministri Erdoğan ha la possibilità di governare direttamente senza intermediazioni: tutto questo avrà come effetto quello di accrescere la pressione sulla stampa.
Lei ha fondato un nuovo giornale in Germania, Özgürüz (“siamo liberi”, in turco). Nel frattempo si sono uniti all’iniziativa anche altri colleghi. Com’è nato questo progetto?
Ho continuato a scrivere dopo che mi hanno imprigionato e così anche dopo esser venuto Germania. Ci siamo organizzati con i colleghi pensando a quello che avremmo potuto fare per utilizzare al meglio le nostre voci e farle arrivare in Turchia. Con cinque colleghi turchi e altri giornalisti tedeschi abbiamo fondato il portale web Özgürüz Ma è stato bloccato dal governo turco già un giorno prima che andassimo in rete. Ciò nonostante i lettori riescono ad accedervi e fortunatamente riusciamo ancora ad incontrarci con i nostri lettori. Ora stiamo lavorando anche al progetto di una rivista che verrà pubblicata a partire dal prossimo mese. Visto che non ci permettono di pubblicare in Turchia lo faremo in Germania.
Riceve sufficiente supporto dai colleghi in Europa?
Sì, ci sono grandi manifestazioni di sostegno in Germania, aumentate visibilmente dopo l’arresto di Deniz [Deniz Yücel, corrispondente turco-tedesco del quotidiano Die Welt]. Peccato che si sia aspettato che venisse arrestato un giornalista con il passaporto tedesco per dimostrare maggiore solidarietà. Ma è un dato comunque positivo. Ora lottiamo insieme, perché il problema ha assunto una dimensione che va oltre il nostro caso.
E riguardo al finanziamento del portale?
Abbiamo organizzato un crowdfunding, chiedendo ai nostri lettori di sostenerci con piccoli contributi. Non accettiamo sovvenzioni governative, ma abbiamo senz’altro bisogno di ogni tipo di sostegno che può arrivare dalla società civile.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
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