Migliaia di morti, quartieri distrutti, 90mila profughi: questo il tragico bilancio dei combattimenti tra le forze di sicurezza turche e il PKK curdo dal luglio 2015. Uno scontro pericolosamente sconfinato anche nella vicina Siria
È di nuovo scoppiato, in tutta la sua violenza, il conflitto tra lo Stato turco e i curdi di Turchia. Il Sud Est del Paese, regione a maggioranza curda, è sconvolto da scontri che hanno causato migliaia di morti, distrutto interi distretti di varie città e colpito duramente la popolazione civile.
I coprifuoco imposti dall’esercito nel corso delle operazioni contro i militanti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e i combattimenti, condotti anche con armi pesanti da guerra, hanno causato migliaia di vittime e isolato intere aree dall’approvvigionamento di cibo, acqua, elettricità, oltre all’accesso alla sanità. Si stima che 220 mila civili abbiano subito le conseguenze degli scontri, mentre sono oltre 90 mila quelli costretti ad abbandonare le proprie case.
Il conflitto turco-curdo ha origini antiche quanto la Repubblica stessa. I turchi sentono minacciata l’unità territoriale dello stato, i curdi temono per la loro stessa sopravvivenza e conducono una lotta in difesa dell’identità etnica, culturale e linguistica. Tuttavia, alla base del conflitto riesploso nel luglio 2015 si sono aggiunte nuove ragioni rispetto a quelle che hanno caratterizzato il XX secolo.
Nell’era kemalista e per tutto il XX secolo, la questione turco-curda si fonda essenzialmente sullo scontro etnico: il tentativo di assimilazione turco contro la resistenza identitaria curda. Con l’avvento al potere dell’islam politico all’elemento etnico, che pur continua ad avere un ruolo notevole, si affianca l’elemento ideologico.
Per il partito dell’attuale presidente turco – l’Akp, una formazione islamico conservatrice che ha sposato la tradizione liberista inaugurata negli anni Ottanta da Turgut Özal – l’elemento conflittuale non si trova solo nei confronti dei curdi in quanto tali, quanto piuttosto nell’ideologia anti-statale, collettivista e secolare del Pkk, oltre che in ragioni di opportunismo politico. A dimostrazione di ciò basta considerare due elementi: l’ampio consenso elettorale che l’Akp ha riscosso tra i curdi conservatori di Turchia e le buone relazioni diplomatiche con l’entità politica curda che si è affermata nell’Iraq settentrionale, la regione del Kurdistan iracheno di Mas’ud Barzani.
Per i primi 15 anni del nuovo millennio, pur tra difficoltà e violenze, si è assistito a un progressivo avvicinamento tra governo turco e militanti curdi, avvicinamento culminato con il processo di pace avviato nel 2012, quando Erdoğan annunciò pubblicamente negoziati col leader storico del Pkk, Abdullah Öcalan, in carcere dal 1999. I negoziati ebbero esito felice nel 2013 quando Öcalan si appellò ai curdi affinché abbandonassero la lotta armata in favore della ricerca di una soluzione politica. L’accordo prevedeva il ritiro delle milizie del Pkk dal territorio turco verso l’Iraq settentrionale, in cambio di modifiche costituzionali necessarie al riconoscimento formale dell’identità curda nella costituzione e alla tutela di diritti fondamentali, in particolare quelli legati all’uso della lingua.
Il processo non era però esente da difetti che, a lungo andare, ne avrebbero minato la stabilità fino al suo collasso. Non era inclusivo, ma gestito come un affare personale tra il governo e le rappresentanze curde, con i partiti d’opposizione Chp e Mhp esclusi dal tavolo. Inoltre, nessuna calendarizzazione ufficiale è stata stabilita, con il risultato che, dopo l’avvio del ritiro, si è assistito ad una reciproca, logorante attesa che ha rallentato il processo fino alla totale stagnazione e distrutto il precario clima di reciproca fiducia: mentre il Pkk attendeva che il governo promuovesse le riforme (mai avviate), il governo aspettava il completamento del ritiro (mai completato) e, nel frattempo, riaffermava militarmente il controllo sul territorio.
Erdoğan ha poi legato a doppio filo l’esito del processo a un’altra ambizione: la riforma costituzionale per trasformare la repubblica turca da parlamentare a presidenziale, per la quale i voti curdi in parlamento gli erano necessari.
Le elezioni del giugno 2015 hanno dato il colpo di grazia ad un processo che già stentava. Durante la campagna elettorale il partito filo-curdo Hdp, che per il suo ruolo di mediazione tra governo e Pkk stava raccogliendo consensi importanti, ha dichiarato che non avrebbe mai concesso ad Erdoğan il suo sogno presidenzialista. Per il leader dell’Akp, nel frattempo diventato presidente della Repubblica, questo ha significato un attacco personale. Il successo elettorale dell’Hdp ha poi privato il partito di governo di quella maggioranza assoluta di cui godeva fin dal 2003. Da allora Erdoğan, non trovando più alcuna convenienza nel continuare a sostenere il processo di pace, ha mutato radicalmente la propria retorica nei confronti della questione curda, improvvisamente divenuta inesistente, e dei gruppi curdi (Pkk e Hdp), passati nuovamente dall’essere interlocutori a terroristi nemici dello Stato.
Con lo scoppio aperto delle ostilità nel luglio 2015, i militanti vicini al Pkk hanno cominciato a creare nelle città aree dove tentare di escludere l’autorità statale in favore dell’autonomia locale e forme di autogoverno. L’esercito è intervenuto con operazioni che hanno devastato il tessuto urbano, mentre una serie di attentati sta trasferendo la lotta anche nell’occidente del Paese.
Un nuovo elemento si è poi affacciato sullo scenario: il fervore religioso, in parte dovuto alla «nuova Turchia» che l’Akp sta plasmando negli ultimi anni, in parte proveniente dal vicino conflitto siriano.
È soltanto attraverso l’enorme differenza ideologica tra Akp e Pkk che si spiega il diverso approccio di Ankara nei confronti dei curdi siriani rispetto ai ben più pacifici rapporti con i curdi iracheni. Il partito di Barzani, che governa il Kurdistan iracheno, è di stampo conservatore e legato alle vecchie dinamiche tribali di clan di cui il Pkk si è liberato decenni addietro. Il Pyd, che a partire dal luglio 2012 governa le tre regioni autonome che i curdi sono riusciti a ricavare dallo sfascio dello stato siriano, è invece affine al Pkk. Tra Barzani e Pyd, pur etnicamente accomunati, non corre buon sangue.
In più, i tre cantoni di Afrin, Rojava e Jazira sono la realizzazione concreta del progetto di confederalismo democratico teorizzato e promosso da Öcalan. Il loro successo è non solo uno schiaffo all’appoggio che la Turchia ha offerto ai ribelli sunniti contro Assad – moderati e radicali –, ma significa anche un rafforzamento di quello che oggi è tornato ad essere il nemico interno. Il collasso del processo di pace in Turchia è andato di pari passo con il successo dei curdi siriani: man mano che questi guadagnavano territorio e riconoscimento internazionale, il governo turco si è fatto irrequieto e ha avviato politiche ostili, sfruttando i collegamenti con i ribelli in Siria, che hanno adirato il Pkk in Turchia. Quando poi il tavolo è saltato dopo le elezioni di giugno, ecco che il conflitto è divenuto inevitabile.
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