Domenica in Turchia il referendum sulla riforma presidenziale fortemente voluta da Recep Tayyip Erdoğan. La campagna elettorale è avvenuta in un clima di repressione del dissenso e controllo dei media ma nonostante ciò l'esito permane incerto
Mancano due giorni al referendum costituzionale con cui la Turchia deciderà o meno di adottare un sistema presidenziale “alla turca”, abbandonando l’attuale sistema parlamentare. Una riforma estremamente controversa che prevede l’accentramento di tutti i poteri nelle mani del presidente della Repubblica, e che lo stesso presidente Recep Tayyip Erdoğan, assieme ai membri dell’AKP (Partito della giustizia e dello sviluppo), sta promuovendo a 360 gradi.
I sondaggi indicano che il fronte del “no” e quello del “sì” sono ancora testa a testa con minime oscillazioni di punti percentuali, nonostante gli oppositori della riforma riscontrino notevoli difficoltà ad esprimere e far valere le proprie posizioni, complice la prevalente omologazione dei media a sostegno della campagna del “sì”.
Il referendum sulle reti televisive
Secondo il rapporto di notizie digitali dell’Istituto Reuters, la televisione è la prima fonte di informazione per i cittadini della Turchia (con l’80% di accessi settimanali, dopo i social media che risultano al 73%). Questo dato risulta particolarmente eloquente quando si considerano le ore assegnate dalle reti televisive ai vari partiti politici e le conseguenze sulle possibilità per i cittadini di avere un quadro completo della riforma che andranno a votare.
L’Unione per la democrazia (una piattaforma indipendente che sostiene le ragioni del “no”) ha analizzato lo scorso mese le trasmissioni di 17 reti TV nazionali, unendoli con i dati messi a disposizione dal Consiglio superiore per la radio e la televisione (RTÜK). Nei primi 10 giorni di marzo, le ore dedicate dai telegiornali al presidente Erdoğan e all’AKP sono state rispettivamente 53,5 e 83, mentre al nazionalista MHP (la cui dirigenza è a favore della riforma, pur esistendo importanti disaccordi interni al partito) sono state riservate 14,5 ore. Sul fonte del “no” il repubblicano CHP ha trovato spazio nei TG per 17 ore, mentre al filo-curdo HDP sono stati riservati solo 33 minuti.
Tra tutti l’HDP risulta il partito maggiormente penalizzato per le possibilità ridotte di condurre la propria campagna referendaria, anche per le migliaia di politici filo-curdi agli arresti, inclusi i due co-leader del partito. Questa difficoltà si esprime anche a livello mediatico e difatti, nei primi 20 giorni di marzo, l’HDP non è stato invitato ad alcun dibattito dal vivo. Di contro i rappresentanti della presidenza della repubblica (incluso il presidente) e quelli dell’AKP sono apparsi sugli schermi televisivi per 470,5 ore complessive. Il CHP e il MHP sono stati ospiti rispettivamente per 45,5 ore e 15,5 negli stessi programmi.
Simili distribuzioni sbilanciate si sono avute anche nelle precedenti tornate elettorali, in particolare nelle politiche del 2015. La novità è che questa volta una legge decreto (KHK 687) emanata ad hoc (nell’ambito dello stato d’emergenza entrato in vigore dopo il colpo di stato fallito del luglio scorso) ha abolito la penale prevista per le TV e radio private “in caso di trasmissioni contrarie al principio di imparzialità”. Anche la rete statale TRT (finanziata pubblicamente e la cui imparzialità è stabilita per legge) seguendo la generale tendenza dei canali privati, ha riservato al presidente e ai suoi consiglieri 20,8 ore e altre 42 all’AKP. Il CHP e il MHP (rappresentando numericamente il primo e il quarto partito al parlamento) hanno avuto rispettivamente 3,2 ore e 48 minuti. Anche in questo caso l’HDP (terzo partito del parlamento) non ha trovato spazio alcuno.
Il quadro più ampio
Tutto ciò va considerato tenendo conto della condizione aggravata dei media a seguito del fallito golpe dell’estate scorsa, che ha visto la chiusura di 158 organizzazioni media (incluse TV, radio, quotidiani, agenzie di stampa) e il fermo di oltre 150 giornalisti la cui maggior parte si trova ancora in stato di carcerazione preventiva.
Allo stesso tempo, come riportato nel recente rapporto interim dell’OSCE sul referendum turco, nel corso dei mesi passati 10mila membri della stampa hanno perso il lavoro, mentre migliaia sono finiti sotto processo per tweet critici e altre pubblicazioni sui social media. A restringere notevolmente il campo degli organi di stampa critici è il sistema di proprietà dei media, appartenenti per la maggior parte a grandi aziende i cui interessi economici sono spesso strettamente intrecciati alle politiche di Ankara. Emblematica sotto questo aspetto sono le recenti dimissioni di Vuslat Doğan Sabancı (figlia del magnate Aydin Doğan, proprietario dell’omonimo gruppo) dalla direzione del quotidiano mainstream Hurriyet, di posizioni nazionaliste e laiche, che nel tempo si è allineato però sempre più con le posizioni del governo. Il giornale aveva recentemente cambiato anche caporedattore.
Social
Nonostante lo spazio limitatissimo riservato al fonte del “no” sui media tradizionali (con l’eccezione di pochi baluardi come i quotidiani Birgün, Cumhuriyet, Evrensel e alcune piccole radio) i social media continuano a rappresentare – come si era visto in passato durante le manifestazioni di Gezi Park – un canale di diffusione fondamentale delle informazioni e dove si raccolgono le iniziative più originali per affermare il “no”.
A gennaio, con l’inizio della campagna referendaria, i primi a prendere posizione sui social sono state alcune celebrità del mondo dello spettacolo. Sono poi seguite centinaia di nuovi account Facebook e Twitter aperti con il nome “Hayir” (no, in turco). HayirTV, tra le più quotate su entrambe le piattaforme, ha come immagine un pinguino, di nuovo con rimando a uno dei simboli di Gezi. I messaggi vengono spesso pubblicati con estrema accortezza, data la possibilità di incorrere in persecuzioni giudiziarie. Non a caso oggi il quotidiano pro-governativo Akşam titola in prima pagina: “Il 16 aprile si trasformerà nell’incubo dei traditori”, nonostante i messaggi rassicuranti del premier che ha dichiarato che al contrario i sostenitori del “no” riceveranno un bacio se perderanno.
Ma nelle ultime settimane i quotidiani pro-governativi, pur di attaccare i sostenitori del “no”, sono apparsi anche con prime pagine surreali, fedeli alla linea suggerita da Ankara, secondo il quale il “no” sarebbe sostenuto dal PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) e dal movimento di Fethullah Gülen (ritenuto responsabile del tentato golpe da parte dell’esecutivo): “Se il 16 aprile vincerà il no verrà avviata una campagna terroristica incentrata sul tema del sole e della primavera” e “Il sole e la primavera sono simboli del caos”, ha titolato ad esempio il quotidiano turco Yeni Şafak del 7 aprile scorso, riferendosi ai poster del fronte del “no” dove vengono raffigurati bambini con l’immagine del sole.
“Queste cose se le dicessi in un altro paese finiresti nel manicomio, qui puoi farne la prima pagina del giornale”, commenta un utente Twitter, postando uno spezzone da un film turco degli anni ‘70, con uno degli attori cinematografici più amati che grida: “Hayir”, no.
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