A Donetsk non è difficile rischiare la vita sotto le bombe: basta prendere l'autobus. La zona a nord della città è martellata dai combattimenti da mesi, eppure la gente continua a vivere la propria vita con rassegnazione. Così, quando arriva la sera, ci vuole qualcuno che li riporti a casa
Il lavoro di Aleksander non dovrebbe essere pericoloso. Lui guida l'autobus, tutto qua. Ma forse a Donetsk non esiste più un lavoro che non sia pericoloso. Il bus di Aleksander parte dalla stazione dei treni e va verso nord. Il suo percorso è ridotto a metà, perché altrimenti finirebbe dritto in mezzo ai colpi dell’artiglieria. Poco più di due chilometri lungo via Maršala Žukova, una manciata di fermate prima di girarsi e tornare indietro. Ma quanto basta per rischiare la vita ogni giorno. Perché l'autobus di Aleksander fa una corsa andata e ritorno verso la guerra.
“Ieri ho lavorato fino a sera”, dice mentre salgono una decina di passeggeri. “Non ho fatto neanche in tempo ad arrivare alla prima fermata, dove c’era il piccolo mercato, che hanno cominciato a sparare. A mezzogiorno è caduto un colpo di mortaio da 120 millimetri. E poi altri quattro poco dopo. È quasi ogni giorno così”.
Il quartiere di Kuybishevsky è una vasta area di case a un piano, che si estende a nord della stazione di Donetsk, fino ai margini dell’aeroporto e dei sobborghi di Pesky e Vesele. La stazione è chiusa da un pezzo, i treni non vanno più. Sulla porta del deposito bagagli c’è una scritta a spray rosso che dice “Rifugio”. Il sottopassaggio invece è frequentato, è l’unica via per passare sotto ai binari e andare dall’altra parte.
Il fragore delle esplosioni è un sottofondo cui si fa velocemente l’abitudine. Salvo quando è un colpo più forte degli altri a destarti e a ricordarti che non è un temporale. Camminando di fretta insieme alla gente con le sporte della spesa, tutto ha un’aria di normalità. Ma basta soffermare lo sguardo su qualche particolare per notare fori di schegge ovunque.
Qui si combatte ogni giorno da mesi. Nonostante le tregue annunciate da entrambe le parti, l’artiglieria pesante e i mortai non hanno mai smesso di martellare. Il bus numero 6 di Aleksander, nonostante tutto, continua ad andare. “La gente deve pur tornare a casa”, dice con una scrollata di spalle. Ed è vero, perché per quanto possa sembrare incredibile, questa popolosa area di Donetsk non è stata mai completamente evacuata.
Lungo il percorso, i segni della guerra sono dappertutto. Tetti sfondati, buchi sull’asfalto, rami tranciati e caduti che nessuno si prende più la briga di rimuovere. La prima fermata, coi suoi chioschi tutt’intorno, è stata sventrata da un colpo che l’ha presa in pieno. I passeggeri aspettano in mezzo alle macerie, composti. “Devo lavorare”, dice Aleksander mentre prende i soldi della corsa. “Ho paura, molta paura. Ma che devo fare? Bisogna pur lavorare”.
I pochi passeggeri rimasti scendono tutti nel giro di altre due fermate. Gli abitanti del settore nord di via Maršala Žukova hanno abbandonato le loro case da tempo. La strada corre proprio in mezzo alle due linee del fronte. A est, nell’agglomerato di Spartak e attorno all’aeroporto, ci sono le postazioni e le trincee dei separatisti. A ovest, nel sobborgo di Pesky, le forze governative di Kiev. In linea d’aria sono poche centinaia di metri. Obici, mortai, carri armati, mitragliatrici pesanti sparano incessantemente da una parte all’altra. A vederlo dal di dentro e a sentire le esplosioni così vicine, sembra quasi ovvio che ogni tanto qualche colpo cada anche qui.
Quando anche l’ultimo passeggero è sceso, inizia l’incubo quotidiano di Aleksander. “Devo arrivare in fondo alla rotatoria”, dice Aleksander “E una volta lì fare una sosta di tre minuti per rispettare l’orario di viaggio. Il tempo di una sigaretta”.
La rotatoria è coperta di rami spezzati e fili tranciati che pendono dai pali. Quando Aleksander spegne il motore, il paesaggio assume un aspetto spettrale. I colpi degli obici scuotono l’aria e tutto intorno è solo distruzione. In lontananza, quel che resta della torre di controllo dell’aeroporto è ben visibile. L’esercito ucraino è asserragliato nel nuovo terminal – costruito solo due anni fa per gli europei di calcio – mentre a poche decine di metri scorrono le trincee della milizia della repubblica di Donetsk. “Non è il caso di andare troppo in giro, siamo sulla linea dei cecchini”, dice Aleksander tirando una boccata dalla sigaretta.
Sono tre minuti interminabili. “Ma il peggio viene col buio”. Aleksander guida fino alle otto di sera, quando ormai è buio già da un pezzo. “È allora che il fuoco si fa più intenso. Qualche giorno fa un colpo di mortaio è caduto a cento metri dall'autobus, mentre un’altra volta ero alla fermata quando l’edificio di fronte è stato colpito in pieno”.
Il percorso di ritorno verso la stazione rassicura con un’apparente normalità. Alle fermate nuovi passeggeri salgono e ci si illude di essere al sicuro, ma non è così. Una volta al capolinea è solo il tempo di un’altra sosta prima di ripartire per il giro. Sperando e pregando che Dio la mandi buona ancora una volta. Ma non funziona sempre. Meno di una settimana dopo il nostro incontro il bus numero 6 è stato investito da una gragnola di schegge di mortaio. Due passeggeri sono morti e otto feriti. Anche Aleksander è stato colpito alla mano destra e alle gambe. Ma è vivo. Altri suoi colleghi, però, continuano a guidare ogni giorno sotto le bombe.
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