Le elezioni a Donetsk e Lugansk dello scorso 2 novembre rischiano di segnare un punto di non ritorno verso l’incancrenirsi del conflitto. Una rassegna
“Le elezioni farsa del 2 novembre mettono a repentaglio l’intero processo di pace e non saranno mai riconosciute dalla comunità internazionale”. L’eco delle parole di Poroshenko non si è ancora spento, che notizie di movimenti di truppe russe al di qua e al di là del confine hanno cominciato a circolare. Anche fonti dirette da Donetsk parlano di un sensibile aumento delle esplosioni, mentre da Kiev si registrano nuove partenze verso la linea del fronte a Lugansk.
L’Ucraina probabilmente non ha mai visto così tante elezioni come in questo anno. Prima il referendum in Crimea, poi quello nelle repubbliche di Donetsk e Lugansk. Dopo ci sono state le presidenziali straordinarie che hanno portato alla guida del paese Petro Poroshenko, e ancora quelle parlamentari anticipate del 26 ottobre. E infine, si è votato anche a Donetsk e Lugansk, il 2 novembre, per eleggere i presidenti delle repubbliche separatiste. Elezioni autonomamente decise dai separatisti senza l’avallo di Kiev.
Per questo Poroshenko, primo motore del processo di pace delineato dagli incontri del gruppo di contatto informale a Minsk, lo ha detto senza mezzi termini. Il suo piano di pace ruota attorno alla legge speciale 1680, votata dalla Rada lo scorso 16 ottobre. Prevedendo uno status speciale e transitorio per le aree sotto il controllo dei separatisti, la legge traccia un percorso di tre anni per la ricostruzione delle strutture amministrative e democratiche del Donbass. E il primo passo sarebbe dovuto essere le elezioni locali, programmate per il 7 dicembre sotto il controllo di Kiev.
Un’occasione sprecata
Ecco perché la scelta dei vertici separatisti di indire elezioni autonome e anticipate è parsa come una sfida. Raccolta. La contromossa di Poroshenko infatti non si è fatta aspettare. In un messaggio televisivo due giorni dopo le votazioni nelle repubbliche popolari di Donetsk (Dnr) e Lugansk (Lnr), ha fatto sapere di aver sottoposto al Consiglio della difesa l’abolizione della legge speciale 1680. “Siamo pronti a riconoscere più ampi poteri alle autorità locali purché legittimamente elette, e non a banditi che si incoronano da soli”, ha detto Poroshenko. Il presidente ha aggiunto che la legge speciale creava un’occasione unica per gettare le basi di una pace duratura in Donbass, “I miliziani, però, hanno voluto sprecarla”.
Nello stesso discorso di lunedì, Poroshenko ha anche lasciato la porta aperta al dialogo. “Siamo pronti a varare una nuova legge se i separatisti torneranno a osservare gli impegni presi a Minsk, ossia il rispetto della tregua, la creazione di una zona cuscinetto e la tutela dei confini, oltre a mostrare chiare intenzioni di annullare le elezioni”. Sembra sempre di più che le votazioni del 2 novembre abbiano segnato un punto di non ritorno verso l’incancrenirsi del conflitto.
Bisognerebbe allora domandarsi che senso ha avuto una legge speciale sullo status del Donbass, emanata da un governo che non ha alcun controllo sul territorio. Ma anche cosa c’è di tanto sbagliato in quelle elezioni.
Gli osservatori dell’Asce
Possiamo dire che finora i movimenti separatisti nati in Ucraina all’indomani di EuroMaidan non hanno mostrato di avere grande dimestichezza con le regole democratiche. Dalla Crimea a Novorossiya, i referendum popolari per l’indipendenza si sono svolti in spregio degli standard internazionali. A voler fare le cose male e in fretta si è finiti per vanificare, agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, il risultato della volontà popolare.
Non diversamente, le elezioni in Dnr e Lnr sono state solo una pallida immagine di quelle svoltesi la settimana prima nel resto del Paese. A cominciare proprio dagli osservatori internazionali che – secondo le fonti separatiste – hanno legittimato le operazioni di voto. Non erano infatti incaricati dell’Osce né dell’Onu, ma di due fantomatiche organizzazioni nate la notte prima del voto, l’Eurasian Observatory of Democracy and Elections (Eode) e l’Agency for Security and Cooperation in Europe (Asce), composte perlopiù da rappresentati delle destre europee. L’Eode, per esempio, è presieduto dal nazionalista belga Luc Michel mentre a capo dell’Asce c’è il neofascista polacco Mateusz Piskorski. Per l’Italia hanno preso parte l’europarlamentare Fabrizio Bertot, il senatore Lucio Malan e Alessandro Musolino, tutti e tre di Forza Italia. Nessuna delle due organizzazioni risulta abbia mai partecipato a missioni di monitoraggio prima d’ora. La confusione, anche dei nomi, è stata tale da costringere l’Osce a smentire la presenza di propri osservatori in Donbass.
Ma non si è trattato solo di questo. Proprio come già visto in Crimea, i seggi erano pieni di miliziani armati e incappucciati che controllavano i voti sulle schede, non c’erano liste elettorali e poteva votare chiunque mostrasse un documento, anche in più seggi. La vera novità è che si poteva votare anche per email. Il massimo della democrazia.
Zakharchenko contro Zakharchenko
Qualcuno potrebbe sentirsi tranquillizzato dal fatto che il risultato delle elezioni non ha cambiato nulla. Hanno vinto infatti i due leader già in carica, Aleksander Zacharchenko a Donetsk e Igor Plotnitsky a Lugansk. Del resto era piuttosto difficile che andasse diversamente, data la scarsità di candidati e un campagna elettorale piuttosto noiosa. “I cartelloni in giro per la città suggeriscono un’agguerrita concorrenza tra Zakharchenko e Zakharchenko”, ha scritto il New York Times.
Ma chi sono questi due nuovi presidenti? Zakharchenko e Plotnitsky, entrambi cittadini ucraini, sono succeduti ai precedenti “primi ministri” delle due repubbliche di Donetsk e Lugansk, rispettivamente Aleksander Borodai e Valery Bolotov, entrambi cittadini russi. Nella conferenza stampa di agosto in cui ha comunicato che avrebbe lasciato il suo posto a Zakharchenko, Borodai ha dichiarato che “era ora che il comando della Dnr fosse nelle mani di un uomo di Donetsk”.
Nato a Donetsk, comandante del battaglione Oplot sotto Igor “Strelkov” Girkin e con un passato da elettricista, Zakharchenko deve probabilmente apparire agli occhi della gente di Donetsk come uno di loro, almeno più del moscovita Borodai. I natali di Plotnitsky sono invece meno certi. La sua biografia afferma che è nato a Lugansk, ma secondo diverse fonti sarebbe originario della Bucovina, al confine con la Romania.
Comunque la si voglia vedere, sembra chiaro che entrambi i nuovi presidenti delle due repubbliche, forti della affermata legittimazione popolare, hanno intenzione di alzare la posta. Non si spiegherebbero altrimenti le parole di Zakharchenko durante il suo insediamento. “Sono pronto a incontrare Poroshenko”, ha detto Zakharchenko durante il suo insediamento.
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