Alcuni giorni trascorsi in Albania. Sotto la pioggia a cercare gli odori e i colori della propria infanzia per capire chi si è. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
“Già è dura ritrovarsi adulti, figuriamoci senza sapere dove si è cresciuti…”, reinterpretando un po’ De André.
È strano come le case della propria infanzia, seppur cambiate da piccoli accorgimenti moderni che non avresti mai voluto vedere, riescono a conservare negli anni quell’alone di paura e fobie che pensavi di avere oramai superato.
Mi trovo nella mia casa a Shijak, piccola cittadina nel distretto di Durazzo di circa 8000 abitanti, dove ho vissuto per i primi otto anni della mia infanzia prima di essere sradicata in un altro stato e soprattutto in un clima del tutto differente: Bolzano, che ho imparato ad amare solo piano piano.
Sono passata dieci giorni a trovare le mie zie con le quali vivevo allora, i vicini del quartiere che non so più riconoscere, il cibo, le tradizioni e tanto altro.
Il sogno
Sono tornata soprattutto col desiderio di dare un continuum a un mio sogno ricorrente nel quale giungo per alcuni giorni nel paesino dove sono nata ma del quale non conosco affatto le aree periferiche, i contorni, le strade. Ogni giorno mi prefiggo di uscire da sola e respirare ciò che c'è fuori. Mia zia però non vuole, secondo lei e quelli della sua generazione - parliamo di ultrasettantenni - oramai non si può più lasciare una giovane fanciulla in giro da sola: ti rapiscono, ti violentano, ti sparlano dietro alle spalle perché esci senza compagnia e senza meta, i tempi sono cambiati, e poi il paesino “ka mor fun” (è finito oramai), insomma te le cerchi. Nel sogno mi dice che mi accompagnerebbe lei, ma purtroppo data l’età non riesce a camminare a lungo. I pochi amici che ho conservato invece sono tutti emigrati a studiare o lavorare. Ed ecco che passa un giorno e non esco, l’indomani c’è ancora tempo penso, il pomeriggio successivo si va a Durazzo, poi a Tirana e niente, arriva il tempo di tornare in Italia.
Mi sveglio bruscamente quando finalmente avevo trovato il coraggio di inoltrarmi lungo una stradina lontana… non riesco a girare l’angolo che apro gli occhi. Mi risulta impossibile scoprire dove ho vissuto, dove sono nata, il luogo da dove me ne sono andata.
Una volta risvegliata, tutta sudata, mi riprometto di riuscirci un giorno, mi giro dall’altra parte e continuo a dormire in un letto del quale per fortuna conosco ogni minimo dettaglio.
La zia
Adesso ho 21 anni ed ho deciso di tornare in Albania. Forse difficile immergermi in una realtà un po' stretta e chiusa dopo un’estate di workaway a Madrid, di couchsurfing, salite in montagna, di lavoro come educatrice nei Centri Giovani. Ma ora sarò io la bambina da gestire.
L’ostacolo più grande è come sempre la zia che appena rendi noto il desiderio di prendere un po’ d’aria “fresca” comincia coi suoi melodrammi del “Sei proprio rimasta la stessa di quando avevi sei-otto-dieci-dodici anni al massimo!”, “Sei proprio uguale a tuo padre che nuk i rri suma vendit” (non gli sta il sedere a posto), “Qyqa do me smush depsize” (Mi ammalerai disgraziata), “Un u kputa per ty por ti ske ardh fare per mu e shkreta une qe te besoj” (Io mi faccio a pezzi per te ma te non sei venuta per me povera illusa che non sono altro), “Gjol me govate je” (Sei una bacinella col fango). Dovevo assolutamente riportare questi modi di dire, sono una delle cose che più amo della mia madrelingua, soprattutto se una volta tradotta letteralmente pare la lingua più assurda di sempre.
E io me la rido di gusto in quei momenti, leggera scappando a gambe levate, senza nessun senso di colpa avendo recentemente imparato come reagire a queste situazioni. E sento che la bambina rimasta a Shijak diventa un pochino più alta.
Me ne esco con l’ombrello in mano come una sorta di difesa, respiro a pieni polmoni tutti i colori regalati dalla pioggia, giro gli angoli, ignoro gli sguardi, vedo tutto per la prima volta, come se avessi reimparato a camminare, mi muovo al mio passo da “Karroz e prishur” (carro malconcio) o “Kal i eger” (cavallo selvaggio) come direbbe mia zia con le sue enfasi geniali.
È solo ora che mi rendo conto di essere arrivata in Albania, dopo aver intuito almeno un poco a quali paesaggi appartengono i miei ricordi lontani, da dove sono spuntata fuori; dopo aver captato quei colori che mi facevano apparire il paesino come un quadro, aver udito il canto dalla moschea in sottofondo, aver parlato con la signora che porta le mucche a spasso col guinzaglio… Mentre io giravo invece senza il mio animale domestico (la macchina fotografica) ma catturavo al meglio la mia essenza in quell’esatto istante.
Mi capita spesso di pensare a come sarei cresciuta stando qui, se avrei scelto ugualmente un percorso artistico-umanistico (frequento il corso d’Illustrazione e Fumetto all’Accademia di Bologna), che genere di persone avrei conosciuto, se mi sarebbe passata quella rabbia che ho dall’infanzia e se nelle foto avrei finalmente sorriso.
Poi i miei pensieri tornano sull’oggi.
Proteste
In questi giorni gli studenti che hanno conseguito la maturità stanno protestando davanti alle sedi delle istituzioni a Tirana. A pochi mesi prima della fine della quinta superiore è stata cambiata la legge che permetteva di entrare alle varie università. Ora serve avere una media alta oppure, banalmente, pagare. Molti sono rimasti fuori con la media del 9,4 mentre i compagni col 7,5 muniti di banconote a settembre entreranno nelle loro aule.
Protestano, evento raro da noi, e io sono quasi esaltata. Il primo ministro Edi Rama cerca di tranquillizzare tutti chiedendo a un paio di studentesse a cui era garantito l'accesso a dieci facoltà differenti di spiegare meglio la situazione: gli studenti con la media più alta hanno il diritto d’accesso a oltre dieci facoltà per poi sceglierne una entro l’inizio dell’anno accademico. Automaticamente si libereranno i nove posti restanti che slitteranno ai loro compagni con la media inferiore che a loro volta sceglieranno e avanti tutta. Ansia e nodi alla gola insomma. E poi il ministro si dimentica di chiedere scusa per la legge applicata solo ad anno scolastico già iniziato…
Alla televisione ho seguito una specie di “Striscia la notizia” dove ridendo e scherzando paragonano gli anni delle proteste studentesche bolognesi a quelle di oggi a Tirana, ma ben poco si assomigliano nella forma e nella sostanza. Sono fiera dei giovani che hanno trovato il coraggio di scendere finalmente in questa democrazia “che semplicemente non funziona” (citando Appino) e per quanto inutile potrebbe sembrare, far sentire le loro voci, girare gli angoli insomma.
Penso poi alle vecchie generazioni, rassegnate ai mali fisici, morali e soprattutto a quelli che si autoinfliggono. Un paio di giorni fa cercavo di dare una risposta “sostenibile” al bisogno di nutrirsi parlando del risparmio spontaneo, del coltivare la terra, di non pensare unicamente ai soldi… Cercavo di introdurre gli workaway e i couchsurfing e tutte le novità buone del mio presente. Mi è però impossibile venir presa sul serio. Per loro è oramai inimmaginabile che qualcuno ti ospiti gratuitamente senza pretendere altro. Per loro resto la ragazzina che non deve badare ai figli, che studia arte e quindi vola, la piccola illusa che andando in Italia ha creduto vi fossero altre realtà e un mondo alla “Mulino bianco”. Potrebbero aver ragione dopotutto.
Ma io oggi ho girato gli angoli e ad aprile sono riuscita a far appendere una foto di due vecchiette di Shijak (scattata tre anni prima) sui muri bolognesi grazie al cheap festival, e questo mi basta per credere ancora in qualcosa.
"C’na shkrive ri Joana, rri dhe icik” (Ci hai fatte morire dal ridere Joana, stai ancora un po’ dai), e con questa frase voglio ricordare il mio ritorno in questo 2016 in Albania. Con la zia che una volta rientrate in casa mi lancia il sale addosso contro il malocchio: “Hai parlato troppo”, dice “hai visto come ti guardavano?”.
È strano come una volta tornati nelle case d’infanzia pur essendo riusciti ad andare appena un po’ oltre se stessi, torni la paura del buio e dei fantasmi e di tutti gli spiritelli che potrebbero dimorare proprio lì accanto a te, mentre scrivi sul letto col rumore della pioggia di notte che ti festeggia.