Il deludente Kusturica, la sorpresa di "Non guardare nel mio piatto". Ad alcuni mesi dalla chiusura della Mostra del cinema di Venezia una carrellata sui principali titoli balcanici passati nelle sale
Pur qualche mese dopo la sua conclusione, vale la pena di ritornare sulla 73° Mostra del cinema di Venezia . Un'edizione abbastanza interessante, chiusa con il meritato Leone d'oro al filippino Lav Diaz per “The Woman Who Left”, tra autori finalmente riconosciuti, altri emergenti e qualcuno in perdurante involuzione. In chiave balcanica il bilancio è contraddittorio, tra la delusione rappresentata da Emir Kusturica, un fiacco film italiano che arriva fino a Belgrado, l'ennesimo premio alla Turchia e una bella scoperta croata.
Il regista serbo riprende in “Sulla via lattea - On The Milky Road” elementi di tutto il suo cinema, senza però una pagliuzza di ispirazione originale e proponendo una tumultuosa sagra del già visto. Stavolta inizia alla “Underground” (1995) e prosegue come “La vita è un miracolo” (2004), l'ultimo film all'altezza del suo talento, ma ciò che resta è solo l'eco della sua forza visionaria. A differenza di quanti saccheggiano i lavori altrui, Kusturica riprende dal suo, ma è attenuante da poco se si pensa che è stato uno dei più inarrestabili e fantasiosi creatori di immagini degli anni '80 e '90.
La trama stavolta è poco più che un pretesto. Siamo verso la fine della guerra di Bosnia e Kosta (interpretato dallo stesso regista) è un lattaio serbo cui hanno massacrato la famiglia e che vive in un villaggio sulle montagne. Trasporta latte a dorso d'asino, riparandosi con un ombrello e portandosi appresso un falco pellegrino. La sua bella vicina Milena (Sloboda Micalović) gli ha promesso che alla fine del conflitto l'avrebbe sposato, ma all'improvviso compare una donna italiana, misteriosa e bellissima (Monica Bellucci), che si nasconde da un vecchio generale inglese innamorato di lei. Anche Kosta si innamora di lei, ricambiato, così quando alla proclamazione del cessate il fuoco Milena organizza come previsto un doppio matrimonio, abbinando suo fratello eroe di guerra alla nuova venuta, le cose si sconvolgono. Anche perché nel frattempo intervengono degli emissari del generale per riportare indietro la fuggiasca. È l'inizio di un inseguimento tumultuoso, con i due innamorati che cercano di mettersi in salvo. In un frangente il regista cita esplicitamente l'Odissea, quando i due amanti si nascondono sotto il ventre di altrettante pecore di un gregge: una scena che si conclude con la strage di pecore sulle mine. Nel finale Kosta, 15 anni dopo, fattosi pope, copre la terra di pietre come nel corto “Our Life” nel collettivo “Words With Gods” che è lo spunto di partenza di “On The Milky Road”. La misteriosa italiana guarda sempre lo stesso film in tv, “Quando volano le cicogne” (1957), e canticchia “La più bella del mondo” di Marino Marini.
Kusturica resta maestro nell'allestire circhi e dirigere animali, alcuni momenti sono anche divertenti, ma la vena è inaridita. La miscela di commedia e dramma è scontata nel suo susseguirsi, fatto di piatta accumulazione, senza sussulti, senza scarti. Una storia d'amore che sembra universale e astratta, ma che, andando appena sotto la superficie, risulta molto di parte. I tre caschi blu, vestiti di nero, senza simboli, come se fossero sgherri del cattivone di turno, che inseguono i due innamorati per conto del generale deluso in amore fanno rabbrividire. Va bene criticare, anche duramente, azioni e non azioni dell'Onu durante il conflitto, come han fatto già anche altri cineasti (senza andare tanto lontano “No Man's Land” di Danis Tanovic), ma una rappresentazione del genere è solo becera. La frenesia non lascia neppure emergere l'ambientazione, che pure sarebbe più di un mero contorno della vicenda.
Il film,molto a sorpresa, ha vinto il Leoncino d'oro dei giovani di Agiscuola. Una scelta che fa pensare a due ipotesi: o i ragazzi della giuria non hanno mai visto un suo film precedente e si sono fatti ammaliare da questo mondo di fantasia spinta, oppure che “On The Milky Way” possa in qualche modo risultare emozionante, soprattutto se lo si guarda con sguardo un po' ingenuo.
Vanno a Belgrado le quattro ragazze protagoniste di “Questi giorni” di Giuseppe Piccioni, già uscito in sala con esito deludente. Tre amiche accompagnano Caterina che ha deciso, senza in apparenza grandi motivazioni, di andare a fare la cameriera in un albergo belgradese. Il film è fiacco, con poco sviluppo di personaggi bidimensionali e molto connotate (una è incinta, una malata, una lesbica), troppe lungaggini e un accumulo di finali. La permanenza a Belgrado è breve e non valorizza neanche la bellissima capitale serba. Peccato, perché per una volta che il cinema italiano scopre la città, tanto valeva mostrarla almeno un po'.
Il premio speciale della giuria della sezione Orizzonti è andato a “Koca dunya – Big Big World” del turco Reha Erdem, a confermare il legame creato negli ultimi anni tra la Mostra e la Turchia. È la storia dei giovanissimi fratelli, anche se qualche dubbio sulla loro parentela resta, Ali e Zuhal. Il ragazzo la porta via dalla casa a cui è stata affidata dall'orfanotrofio, alla famiglia di un uomo che la vorrebbe sposare nonostante sia minorenne. I due scappano in motorino, con il timore di essere inseguiti, viaggiano a lungo, compiono varie soste cercando di nascondersi, alla fine sistemano una baracca ai bordi di uno stagno, aspettando di “essere dimenticati”. Si danno nomi nuovi, Mi-Mi e Kum-Kum, e, mentre Ali lavora da un meccanico e cambia la targa al motorino, la ragazza resta protetta nel bosco. Tra il folto della vegetazione cominciano a palesarsi presenze inquietanti: appaiono una capra bianca e un bufalo nero che i due chiamano madre e padre, giunge una vecchia che si è persa mentre i figli la cercano. “Big Big World” è un bel film che intriga e cresce passando da impianto realistico a fiaba nera, sicuramente una prova di maturità per l'esperto Erdem. Aleggia una componente di mistero, in mezzo alla bellezza e al fascino della natura, mentre i due giovani sublimano un amore.
Tra le non molte belle sorprese della Mostra spicca il croato “Ne gledaj mi u pijat – Quit Staring at My Plate” di Hana Jušić, presentato nelle Giornate degli autori dove ha ricevuto il Premio Fedeora come miglior film europeo. Un esordio che conferma il bel momento del cinema di Zagabria e dintorni. Siamo a Sebenico, in Dalmazia. Marijana ha 24 anni e lavora al laboratorio analisi dell'ospedale e arrotonda facendo pulizie con un'amica. Vive in famiglia con il padre, la madre invadente e il fratello Zoran. Dopo che il padre è stato colpito da un ictus, la sua presenza influenza molto la vita degli altri, anche se si vede poco, ed è la madre a prendere il sopravvento.
È un film che dà poche spiegazioni, poco narrativo, più esistenzial-intimista che sociologico, anche se la realtà sociale si inserisce. Il titolo, che pare un po' criptico, dice in realtà molto, fa sentire gli spazi stretti nei quali si muovono i personaggi e insieme il controllo sociale esistente in una situazione di questo tipo, nella quale si sa o si scopre tutto di tutti: per esempio Marijana, passando per strada, assiste a una coppia che fa sesso dentro una stanza. Bisogno di soldi e desiderio di allontanarsi (emblematico l'incontro della protagonista con gli studenti che vanno a Zagabria, dove lei non è mai stata) vanno di pari passo. La voglia di fuggire, di cambiare, di farsi valere che resta per lo più a livello di intenzione, ma si fa sentire forte. E a una battuta si affida la sottolineatura delle differenze culturali con la Slavonia.
Fuori concorso è passato “Austerlitz” dell'ucraino Sergei Loznica. Un'opera potente e da vedere, una delle più belle dell'intera Mostra, molto apprezzato dalla critica tanto da ricevere il Mouse d'argento. Un documentario molto rigoroso e spiazzante, in una trentina di inquadrature fisse, ispirato al romanzo di W.G. Sebald, per leggere i luoghi oggi attraverso le architetture e gli spazi per capire cosa sono stati.
In un bianco e nero che astrae e rende molto reale, citando nel finale i Lumière de “La sortie de l'usine”. Siamo nel campo di concentramento di Sachsenhausen, luogo di tragiche memorie visitato ogni anno da centinaia di migliaia di persone. Dalla biglietteria, il cancello d'ingresso (con la lugubre scritta “Arbeit macht frei”), fin dentro dove c'erano gli alloggi dei reclusi, i luoghi di tortura o morte, il regista osserva con la sua videocamera i visitatori in una giornata qualsiasi d'estate. Un po' come nel precedente “Maidan” sulle proteste a Kiev, Loznica filma impassibile, non commenta, non giudica, lascia allo spettatore trarre le conclusioni. E sono, in questo caso, abbastanza sconsolanti. Loznica ci impone di guardare, come se fossimo allo zoo, ma anche davanti a uno specchio: non c'è controcampo, vediamo le persone negli spazi, ma non ciò che guardano. “Austerlitz”, che uscirà nelle sale in gennaio, è un film su come viviamo la storia, molto spesso da inconsapevoli o da ignoranti, su come entriamo in questi luoghi più come turisti che da visitatori.