Un'immagine da una sala del festival

Dal 6 al 10 novembre nella capitale rumena il Festival Internazionale del cinema Femminista e Queer. Una rassegna. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

13/11/2015 -  Francesca Gabbiadini

Due sono gli aggettivi scelti per questo concorso cinematografico dedicato alle differenze di genere. “Femminista” il primo, dedicato alla profonda e radicale nozione per cui le donne sono essere umani e in quanto tali aventi il diritto di possedere pari opportunità a livello sociale, politico, legale ed economico. “Queer”, traducibile in “bizzarro” e “curioso”, nonché nella sua concezione spregiativa di “frocio”, ad indicare una persona che non si conforma all’orientamento sessuale degli eterosessuali, né all’identità di genere a doppio binario femmina-maschio; una nozione dunque dedicata agli omosessuali, ai bisex e ai transgender. La relazione fra queste due comunità, scelta a indicare il Festival, può essere facilmente compresa volgendo lo sguardo al passato, alla storia dei grandi movimenti civili, soprattutto degli anni ’70 quando in America lesbiche e femministe protestavano assieme per gli stessi diritti.

In Romania la tolleranza e l’accettazione delle persone LGBTQIA è di gran lunga minore rispetto alla parte occidentale d’Europa, e dunque ecco nella capitale un evento culturale che affida alla pellicola l’importante compito di porre l’attenzione cittadina su queste minorità civili e politiche.

Il Festival si prefigge l’obiettivo di proiettare un’immagine realistica di cosa significhi appartenere alla comunità queer rumena, e di creare uno spazio d’incontro e dialogo tra le persone, appartenenti o meno a tale comunità. «L’elemento caratteristico di tale festival è dunque la volontà di mostrare “che cosa è”, piuttosto che il “cosa dovrebbe essere”, o qualsiasi cosa il pensiero dominante di una società vorrebbe sentire», si legge sul loro manifesto programmatico.

Ma cosa offre nel concreto questo Festival cinematografico? Tantissime le attività proposte: non solo proiezioni, ma anche dibattiti, performance interattive e corsi specializzati. Ad aprire il Festival venerdì 6 novembre, il film “Pierrot Lunaire” del canadese Bruce LaBruce, una revisione in chiave queer e cinematografica del poema omonimo di Albert Giraud, seguito dall’Opening Party al locale Queens (ovviamente!).

Sabato, domenica e lunedì invece si sono sfidate le pellicole in gara: durante il giorno, i corti cinematografici l'hanno fatta da padrone, susseguendosi in tre sessioni, seguiti da due proiezioni serali di lungometraggi. Nonostante per l’edizione di quest’anno sia stata cancellata la serata dedicata alle proiezioni sperimentali, che avrebbe dovuto prender luogo nell’eclettico PLANTelor, i circa novanta corti sperimentali sono invece stati distribuiti per tutto l’arco dei quattro giorni del Festival all’interno della prediletta sala cinematografica “Cinema Studio”.

Martedì 10 sono stati finalmente nominati vincitori. La Finlandia e il suo regista Simo Halinen si sono aggiudicati il titolo di migliore lungometraggio grazie alla pellicola “Open Up to me” (2013), incentrato sulla figura della transessuale donna Maarit che dopo aver completato la transazione cerca di riottenere la sua laurea in legge in accordo con il gender nel quale si identifica. Nel frattempo, innamorata perdutamente di un uomo, gli fa credere di essere una psicologa per entrare in intimità con lui, mentre in realtà lavora come umile donna delle pulizie… nasce insomma una storia d’amore fragile incentrata sull’identità dell’uomo di cui è attratta, con tutte le sfumature psicologiche che possiamo ben immaginare. Il concorso fra i cortometraggi è stato vinto invece da “Technical Difficulties of Intimacy / intimate technical difficulties” (2015), diretto dall’americano Joel Moffet, incentrato sulla relazione tra un uomo e una donna che, per cercare di salvare il loro amore, iniziano ad esplorare nuovi orizzonti sessuali senza limiti né preconcetti.

In attesa dell’edizione 2016 del Festival Internazionale del cinema Femminista e Queer dunque, la Romania, non di certo a digiuno di sperimentazioni cinematografiche, utilizza ancora una volta l’arte a lei più cara per trasmettere valori sociali ancora poco affermati.