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Bosnia: la privatizzazione della 'Aluminijum' e' legale

05/09/2001 -  Anonymous User

"La procedura di privatizzazione seguita è interamente legale e quindi la proprietà della Aluminijum è incontestabile" recita il rapporto presentato dall'Agenzia Federale per la privatizzazione che non molto tempo fa aveva avviato un'indagine di controllo relativa - per l'appunto - alla vendita dell'azienda statale mostarina. Ma il fronte politico bosniaco, in capo l'Alleanza per il cambiamento, ha già presentato le proprie proteste all'Alto Rappresentante - Wolfgang Petritsch - dichiarando che il verdetto dell'indagine è una truffa legalizzata.
L'azienda "Aluminijum" di Mostar, prima della guerra era una delle più grandi fabbriche metallurgiche della Federazione Socialista Jugoslava. Allo scoppio del conflitto, l'attività produttiva dell'azienda venne sospesa, per essere poi riavviata nel 1997. Trovandosi nella parte occidentale della municipalità - la zona a maggioranza croato-bosniaca - riprese a funzionare con operai tutti croati, grazie ad un primo finanziamento proveniente dalla ditta di Sibenik "TLM" e sotto la gestione del precedente direttore - Mijo Brajkovic.
Con la ripresa della produzione, la Aluminijum è lentamente divenuta l'azienda bosniaca con il maggior volume di esportazione in questo settore. Nel frattempo si avviarono battaglie sindacali portate avanti dai lavoratori musulmano-bosniaci, che prima della guerra erano dipendenti dell'azienda e ai quali non è mai stato restituito il posto di lavoro. L'indagine aveva quindi dato ad essi nuove speranze, completamente disattese dal verdetto emesso dalla commissione formata da osservatori locali ed internazionali.
Come riportato da Oslobodjenje del 24 agosto scorso, Safet Halilovic - vice Presidente della Federazione della Bosnia Erzegovina - ha dichiarato che il bilancio iniziale dell'azienda presentato nel 1997 è incredibilmente sottostimato rispetto al valore che l'azienda aveva prima della guerra.
"Il nostro governo non accetterà mai un rapporto del genere" ha dichiarato quindi Halilovic, e anche il Presidente del cantone Herzegovina-Neretva - Sefkija Dziho - ha chiesto spiegazioni sul perché il bilancio presentato corrisponde al 15% del reale valore dell'azienda. Di senso opposto l'opinione del Primo ministro dello stesso cantone - Josip Merdzo - dichiaratosi soddisfatto della relazione finale dell'indagine. Medzo, intervistato il 20 agosto dalla HTV (Televisione bosniaco-croata con sede a Mostar) ha dichiarato che il rapporto non fa che riconoscere l'inesistenza di irregolarità nella procedura di privatizzazione, mentre ha sottolineato il fatto che i procedimenti realizzati all'interno della comunità musulmana, non vengono mai sottoposti a controllo. E' emersa grande soddisfazione anche tra le fila del partito HDZ (Comunità democratica Croata), mentre sono state lanciate pesanti accuse da parte di esponenti del partito di Silajdzic - SbiH - secondo i quali Brajkovic è da mettere sotto indagine al pari di Edhem Bicakcic, ex Primo Ministro accusato di corruzione. (Dnevni Avaz 14 agosto, HTV Mostar 31 agosto, Dani 30 agosto)

Macedonia: riprendono i lavori

04/09/2001 -  Anonymous User

Il presidente macedone Boris Trajkovski rivolgendosi venerdì ai membri del Parlamento macedone per spiegare la proposta di modifica all'attuale costituzione ha ricordato che "nella storia di tutti i paesi arriva il momento in cui ci si trova di fronte a delle decisioni difficili e che, in una democrazia, queste decisioni sono di competenza dei rappresentanti eletti dai cittadini". Ha spiegato che i lavori di riforma a cui è chiamato il Parlamento, come conseguenza degli accordi di Ohrid, sono di fondamentale importanza per assicurare un futuro di pace, stabilità e prosperità alla Repubblica macedone.Dopo l'improvvisa sospensione della settimana scorsa, che ha costretto i rappresentanti dell'Alleanza atlantica e dell'Unione europea ad esercitare fortissime pressioni sulle autorità macedoni perché riprendessero il dibattito parlamentare, il Parlamento ha finalmente ripreso lunedì i lavori per la riforma della Costituzione che dovrebbero garantire maggiori diritti alla minoranza albanese.
Intanto c'è chi, criticamente, si interroga sul ruolo esercitato dalla stampa e sul tipo di informazioni che vengono divulgate riguardo agli avvenimenti macedoni. Rilanciamo qui un commento dello studioso danese Jan Oberg da tempo voce fuori dal coro nel commentare le vicende del sud est Europa.

Ex-Jugoslavia. Dopo 10 anni una pace ancora da costruire

01/09/2001 -  Anonymous User

27 GIUGNO 1991. PRIMI SCONTRI LUNGOIL CONFINE TRA TRIESTE E GORIZIA TRA LA DIFESA TERRITORIALE SLOVENA E L'ARMATA JUGOSLAVA, SCONTRI CHE PROSEGUIRANNO PER POCO PIÙ DI DUE SETTIMANE PROVOCANDO54 MORTI. È IL PRELUDIO, PIÙ O MENO ARTEFATTO, DELLA DISGREGAZIONE DELLA JUGOSLAVIA, LA SCINTILLA CHE FA DIVAMPARE UN INCENDIO LUNGO DIECI ANNI.
Sei diverse guerre combattute (tra Slovenia e Federazione Jugoslava, tra Croaziae serbi delle Krajine, tra serbi e croato-musulmani e tra croati e musulmani di Bosnia Erzegovina, tra Serbia e albanesi kosovari e infine l'intervento della Nato del 1999),almeno 300.000 morti, 2.700.000 tra profughi e sfollati a causa di una pulizia etnica spaventosa, l'assedio di Sarajevo durato oltre 1.000 giorni: questi i tristi dati "contabili"del bilancio decennale di una guerra che ha sconvolto il cuore dell'Europa. Accolto da molti come una improvvisa escrescenza violenta della crisi del dopo '89, sottovalutatocome una parentesi dai responsabili di governo, utilizzato inizialmente per provare
ad estendere l'area di influenza economica o politica, il conflitto in Jugoslavia hasconvolto il ruolo degli organismi internazionali, ha riportato la guerra generalizzata, la pulizia etnica, i campi di concentramento sul suolo europeo, ha permesso alla NATOdi affermare il proprio ruolo in un'area fino a qualche tempo prima "off limits". A dieci anni dall'inizio delle guerre jugoslave, i Balcani sono ancora sospesi tra emergenza e ricostruzione, conflitti e pacificazione. Una vera pace, ancora non c'è,nonostante la scatola mezza vuota del Patto di Stabilità, che ha esaurito rapidamente
la sua piccola "spinta propulsiva" e anche i tanti soldi (in gran parte, solo promessi).E ancora grandi le incognite, nonostante l'uscita di scena dei "signori della guerra" e delle leadership più nazionaliste. Altrettanto critico il bilancio "politico": inadeguatezza e fallimento dell'Europadi fronte allo scoppio del conflitto, crisi e umiliazione delle Nazioni Unite sacrificate sull'altare della realpolitik occidentale ("L'ONU è morta a Sarajevo", recita il titolo diun libro di G. Riva e Z. Dizdarevic), violazione del diritto internazionale con l'intervento della Nato e diffusa impotenza di fronte alle tante violazioni dei diritti umani. E così,due anni fa, per 78 giorni, bombardieri occidentali da 7-8.000 metri in nome di una falsa "ingerenza umanitaria" hanno ribadito l'idea di un ordine internazionale fondatosulle armi, provocando una guerra mai decisa da nessun organismo democratico,
né dall'ONU, né da nessun parlamento nazionale, ma solamente dal "club esclusivo"delle grandi potenze. I Balcani hanno dunque rappresentato un laboratorio per sperimentare nuovi assetti di potere (economici e militari) nelle relazioni internazionali dopo la vittoria occidentale nella guerra fredda. Il conflitto mette così in luce contraddizioni, nodi politici e culturali non sciolti.Questi sono: il nazionalismo come reazione ai processi di modernizzazione, il difficile rapporto tra i principi della cittadinanza e la pratica della convivenza multietnica(interrogando anche validità, limiti e regole del principio di autodeterminazione), la ridefinizione del ruolo degli stati messo in crisi dalla globalizzazione, le forme e gli strumenti dell'intervento delle Nazioni Unite di fronte alle violazioni dei diritti umani. Edinfine la questione di un'Europa ancora dimezzata dal perdurare di nuove mura, come recentemente denunciato dal sindaco di Sarajevo.

LO SPECCHIO, DI LÀ DEL MARE

Un'Europa che in questi anni ha sostanzialmente rimosso la tragedia che si andavaconsumando di là dell'Adriatico. Una rimozione che non riguardava solo le cancellerie, una rimozione collettiva che non corrispondeva semplicemente al chiudere gli occhidi fronte a quanto stava avvenendo a poche decine di chilometri dal nostro quotidiano, e che affondava le proprie radici nei luoghi comuni e nel vuoto di conoscenza del contestobalcanico, come se lì qualcosa di ineluttabile stesse accadendo, quasi ad alleggerire il peso sulle coscienze. "È sempre andata così ..." In realtà quanto stava avvenendo nel sud est europeo corrispondeva all'avvio diun nuovo tipo di conflitto, un conflitto che pure utilizzando gli arcaici richiami ai fondi genetici dei popoli, rappresentava in realtà le forme post moderne della riorganizzazionedegli assetti geopolitici ed economici del dopo '89. Basti pensare alle strette relazioni fra il nord est italiano e le dinamiche assunte dalla transizione economica nei paesi post comunisti. Se dieci anni fa la città di Timisoaradiede il la, nell'artefatta manipolazione di una rivoluzione decisa nel palazzo come ci hanno spiegato le mirabili pagine di Paolo Rumiz in "Maschere per un massacro", alla cadutadel regime di Ceaucescu, oggi questa stessa città ospita le riunioni degli industriali del miracolo economico italiano. C'è dunque qualcosa di terribilmente moderno nelle vicendeche hanno segnato i Balcani degli anni '90, che ha a che vedere con le dinamiche della globalizzazione e la crisi degli stati nazione, dell'accumulazione finanziaria, del controllodei corridoi strategici fra l'Europa, il Caucaso e l'Oriente, della sperimentazione dei
più sofisticati sistemi d'arma, nell'intreccio fra deregolazione e neoliberismo. E dunque di terribilmente cinico. Ecco perché i Balcani sono lo specchio dell'Europa,dell'Italia, di ciascuno di noi. A pensarci bene si tratta di una rimozione che affonda le proprie radici nella storia, nell'inquietudine di un intreccio di culture e di religioniche proprio lì si sono incontrate e spesso scontrate, nel classico rincorrersi di vincoli ed opportunità. Così la parola balcanizzazione è diventata nell'immaginario collettivo (ma anche nei dizionari) sinonimo di caos e di instabilità. In realtà del nostro vicino di casanon sappiamo nulla, non la storia, non la letteratura, non la lingua. E nel tempo della semplificazione questa complessità era meglio fosse cancellata, rimossa appunto.

MACERIE E UNA PACE CHE NON C'È

La ferita dei Balcani non è guarita, nonostante le iniezioni di aiuti internazionali,un protettorato che riguarda direttamente la Bosnia e il Kosovo e una "protezione" militare che interessa anche la Macedonia e l'Albania. I rischi di guerra in Macedonia enel Sud della Serbia, la crisi degli accordi di Dayton in Bosnia Erzegovina, gli interrogativi sul futuro del Kosovo e il protagonismo sempre maggiore di un aggressivonazionalismo panalbanese, senza dimenticare i nodi irrisolti delle Krajine, del Sangiaccato e della possibile secessione del Montenegro disegnano scenari per i Balcaniche li tengono sospesi tra integrazione e disintegrazione. A questo si aggiunga la grave situazione sociale con la disoccupazione oltre il 50%, stipendi e pensioni che non vengono pagate (o con mesi e mesi di ritardo) e chenon coprono il costo della vita, il venir meno di ogni elementare forma di protezione
sociale; la crisi ambientale, dal Danubio, agli effetti dei bombardamenti Nato, alle conseguenze ereditate da sistemi economici e produttivi insostenibili ed inquinanti; il mancato rientro di almeno 2.000.000 di profughi nelle loro case; la debolezza politico-istituzionaleche ha lasciato mano libera alle forme più perverse della criminalità economico-finanziaria, che ha potuto fiorire proprio dentro la guerra, luogo per eccellenzadella deregolazione estrema, così come nel traffico di armi, nel riciclaggio, nel trafficking, nel mercato della droga o dei rifiuti.

LE RESPONSABILITÀ DELL'EUROPA E LA SCELTA DELL'INTEGRAZIONE

A dieci anni dall'inizio della tragedia dei Balcani, l'Unione Europea continua a nonriflettere sulle cause e sulla natura del conflitto. Si pensa invece ancora a quest'area solo come ad un terreno di incursione, rischiando di perseverare nella mera ricerca di propriearee di influenza nazionale senza sviluppare un approccio d'area complessivo. Oppure si interviene con una logica puramente emergenziale, per poi affidarsi nella ricostruzioneal presunto potere taumaturgico dell'economia di mercato e della sua capacità di auto-regolamentazione. In sostanza l'Europa deve fare un bilancio autocritico del suo comportamento (che è stato concausa delle guerre) verso i Balcani, caratterizzato da latitanza politica, inefficaciadiplomatica, incapacità di prevenzione e, soprattutto, commistione con i nazionalismi jugoslavi. L'Europa deve ancora fare i conti con la sua parte sud orientale, e più in generale con la transizione del "dopo '89", affrontata più con iniezioni di "turbocapi-talismo"e di neoliberismo selvaggio che con politiche di integrazione e di cooperazione. L'Unione Europea deve oggi fare una scelta precisa e coraggiosa: quella dell'integrazione, superando le lentezze, abbattendo le barriere (anche quelle dei visti, delle tariffe,delle protezioni commerciali) che impediscono uno sviluppo economico significativo di queste aree e la circolazione delle persone e dell'incontro delle culture e delle storiedei popoli e dei paesi. Il nazionalismo alligna nella chiusura e nell'isolamento. Obiettivo dell'Europa è rompere questo isolamento e questa chiusura sostenendo concretamenteanche la fine delle barriere tra i paesi dell'Europa sudorientale e l'inizio di una cooperazione transbalcanica.

LE PROSPETTIVE DELLA PACIFICAZIONE E DELLA RICOSTRUZIONE

Una strada da seguire, dunque, per la pacificazione dell'area è quella dell'integrazione europea, mettendo al bando ogni geopolitica o pretesa di condizionamentoneocoloniale o occidentale, ogni civetteria con qualsiasi nazionalismo locale. L'integrazione non può avvenire seguendo i parametri tradizionali, economici, contabili, direddito. Non si può affrontare il tema dell'integrazione dei Balcani e dell'Europa del dopo '89 come se fossimo rimasti alle procedure contabil-finanziarie di quindici annifa quando dovevano accedere alla Comunità Europea il Portogallo o la Spagna.
A fianco e prima dei parametri economici ne vadano individuati altri che riguardano gli standard dei diritti umani e delle minoranze e in campo sociale (servizi per idisabili, pensioni, servizi socio-sanitari, tassi di istruzione), ambientale (aree protette, difesa e gestione delle foreste e dei corsi d'acqua, gestione rifiuti, servizi idrici, interventi per il disinquinamento), di democrazia reale, di presenza e partecipazione dellasocietà civile organizzata. Sta qui, attorno a questo nodo cruciale, la possibilità di superare il vuoto progettuale che caratterizza la diplomazia ufficiale e, a ragion del vero, anche molta parte del mondo non governativo. Si tratta di riempire il vuoto tracciandoun possibile itinerario di ricostruzione incardinato a nostro giudizio su tre concetti di fondo: l'opzione per uno sviluppo locale autocentrato quale criterio di rinascita economica, l'autogoverno delle comunità come strada per ricostruire coesione ed identitàsociale, la cooperazione dal basso come strategia per rafforzare un tessuto civile e istituzionale democratico e sano. E l'Italia? Il nostro paese - nonostante l'importanza del suo ruolo nell'area - non ha un vero progetto unitario e organico della sua partecipazione alla ricostruzione e allacooperazione nei Balcani: i soggetti che intervengono non sono coordinati, manca un'ideaarmonica degli interventi sociali, economici e istituzionali, non esistono strumenti normativi adeguati. La crisi strutturale della Cooperazione allo sviluppo e la frammentazionedegli interventi istituzionali producono effetti contraddittori e negativi.
Occorre immaginare invece un percorso economico inedito, fortemente intrecciato ai saperi e alle intelligenze, unite alle tradizioni culturali e alle nuove sensibilità ambientali. Bisogna costruire un disegno di sviluppo integrato del territorio, sul quale far convergerele risorse locali e gli aiuti internazionali. Questo approccio ha come caratteristiche fondamentali di essere endogeno; di prendere come punto di partenza la logicadei bisogni: la salute, l'istruzione, i trasporti, le infrastrutture collettive, ecc.

IL RUOLO DELLA SOCIETÀ CIVILE E DELLE COMUNITÀ LOCALI

Un concetto di fondo per immaginare una rinascita dei Balcani è l'autogoverno democratico delle comunità. C'è bisogno di ricucire, sulle macerie dei regimi e delle guerre, un legame con le istituzioni pubbliche fondato sulla partecipazione e su un diffuso sistema di autonomie locali anziché su rapporti gerarchici e di delega. In altre parole, unapproccio comunitario capace di affrontare i bisogni individuali e collettivi in un'ottica diversa tanto dallo statalismo, quanto dalla privatizzazione mercantile di ogni segmentodella vita economica e sociale di un territorio. Questo percorso si è già manifestato negli anni scorsi attraverso le mille relazioni della cooperazione decentrata e della diplomazia delle città, che hanno cercato di ricostruire i ponti di dialogo e di civiltà demolitidalla guerra. Molte organizzazioni nongovernative e associazioni italiane in questi annihanno lavorato nei Balcani - anche in collegamento con quell'"altra Jugoslavia" fatta di associazioni e gruppi indipendenti, comunità democratiche che hanno resistito al nazionalismo
- con l'idea di scardinare la cittadinanza fondata sull'appartenenza etnica e dipromuovere i principi dello stato sociale e dei diritti per tutti. In ciò si è capito che a nulla serve impegnare risorse ed energie, se contestualmente non cambia il quadro sociale e politico dell'area. E questa riflessione tocca anche noi, le nostre comunità. In questosenso la vicenda jugosava parla anche di noi. La sfida della convivenza è comune a tutte le società figlie in diverso modo della globalizzazione.
Dunque nei Balcani, l'integrazione, la lotta per la democrazia e contro il nazionalismo, la ricostruzione economica e sociale procedono insieme influenzandosi l'una con l'altra, appoggiandosi spesso sugli stessi soggetti e condividendo un'unica prospettivadi trasformazione pacifica di tutta l'area. Le guerre jugoslave in questi anni ci hanno insegnato molto e continuano a farci riflettere su noi stessi, sul destino delle istituzioni e dei valori dell'Europa, sulle prospettive della democrazia nel continente. Lo spazio jugoslavo, da giungla inestricabile, può diventare un giardino dove affondino le radici della pace. Sta anche a noi coltivarlo e seguirlo, consapevoli che si tratta di un impegno e di un futuro comune.


© ICS - Osservatorio sui Balcani;

Disastri umanitari e sociali

01/09/2001 -  Anonymous User

LE UCCISIONI DI CIVILI, I DANNI MATERIALI (DISTRUZIONE DI INFRASTRUTTURE, STABILIMENTI INDUSTRIALI, ECC.) E LE CONSEGUENZE AMBIENTALI (INQUINAMENTOTOSSICO E RADIATTIVO, URANIO IMPOVERITO, ECC.) CAUSATE DALL'INTERVENTO DELLA NATO (MARZO-GIUGNO 1999) IN SERBIA E IN KOSOVO SONO SOLO L'ULTIMO TASSELLODI UN DECENNIO DI DEVASTAZIONI CHE HANNO SCONVOLTO I PAESI DELL'AREA DELL'EX JUGOSLAVIA E CHE HANNO CAUSATO OLTRE 300.000 MORTI, PIÙ DI 2.700.000PROFUGHI, LA DISTRUZIONE GENERALIZZATA DI CITTÀ COME VUKOVAR, MOSTAR, SARAJEVO (E DI TANTE ALTRE CITTÀ E VILLAGGI), LA DEVASTAZIONE DEL TESSUTO SOCIALE,COMUNITARIO, CIVILE, UMANO, LA RIDUZIONE DELLE ECONOMIE DEI PAESI EX JUGO-SLAVI AL DI SOTTO DEI LIVELLI DI SUSSISTENZA.

Prendiamo proprio le conseguenze di dieci anni di guerre sulla situazione economica:i dati economici parlano chiaro: la disoccupazione è a percentuali altissime:
oltre il 40% in Bosnia e oltre il 30% in Macedonia e Repubblica Federale di Jugoslaviae quasi il 25% in Croazia. La Macedonia ha avuto una contrazione del 4% della propria
crescita economica nel corso del 1999. Tra il 1990 e il 1995 il PIL in termini realisi è ridotto di quasi il 30%, il volume dei traffici commerciali è sceso del 40% e i consumi sono caduti ad un tasso del 5% annuo. Si calcola che nella Repubblica Federale di Jugoslavia a causa delle conseguenzedella guerra - con la distruzione di infrastrutture e industrie - saranno
necessari 15 anni per ritornare ai livelli produttivi prebellici. Le stime riguardo alladisoccupazione parlano di 800.000 persone senza lavoro (oltre il 35% della popolazione attiva) e ben il 60% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.Nel '99 la produzione industriale è diminuita del 23% ed ora continua ad essere a livelli nettamente inferiori a quelli anteguerra. Inoltre va ricordata la situazione drammaticadei profughi (circa 800.000) che vivono in FRJ e che non riescono a tornare alle loro case in Kosovo, in Bosnia e nelle Krajine.
Oggi la situazione della Croazia, dopo l'avvento del governo democratico diRacan (gennaio 2000), sembra sulla via della lenta ripresa. Va ricordato che solo un
anno fa la produzione industriale era il 20% di quella del 1990; i livelli produttivi didieci anni fa dunque sembrano ancora lontanissimi. La disoccupazione è oltre il 22%
(settembre 2000). Ad un tasso d'inflazione contenuto (non superiore al 4%) corrispondeperò un pesante debito estero: 9,9157 miliardi (giugno 2000). In Croazia il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Oggi quella della Bosnia è un'economia di sussistenza con larghe sacche di povertà: i dati riportati mostrano l'elevato tasso di disoccupazione nelle due entità territoriali bosniache. La disoccupazione è oltre il 40% nella Federazione mentre senzai finanziamenti internazionali - come già ricordato - la percentuale del PIL nel 1999
avrebbe fatto registrare un desolante -1%. Il PIL procapite bosniaco è il 3,3% di quellodegli Stati Uniti. Va ricordato che degli aiuti internazionali (più di 5 miliardi tra il 1995 e il 1998) arrivati circa il 20% è andato disperso, male utilizzato o finito nellereti dell'economia illegale e mafiosa. Solo il 10% di questo aiuto è stato destinato ai settori produttivi che oggi arrivano solo al 28% di quelli del 1991, l'anno precedenteallo scoppio della guerra. Riguardo ai profughi bosniaci va ricordato che in Bosnia Erzegovina erano rientrati nel 1999 circa 395.000 dei profughi che avevano abbandonatoil paese durante la guerra.
In Montenegro - centro di numerosi circuiti mafiosi e criminali - oltre il 40%
della popolazione montenegrina vive sotto la soglia della povertà e le perdite finanziarieper gli effetti delle sanzioni sull'economia generale del Montenegro sono state stimate approssimativamente in 6.39 miliardi di dollari. In Kosovo, dopo la cospicua assistenza della Federazione Jugoslava, la sopravvivenzadell'area è ancora legata all'aiuto della comunità internazionale per almeno molti anni. Il varo del Patto di Stabilità (Sarajevo, luglio 1999) con la partecipazione degliorganismi internazionali e dell'Unione Europea aveva aperto qualche speranza di ricostruzione,
di cooperazione e di integrazione nell'area, ma ben poco è stato fatto. Moltisoldi sono stati promessi (10.000 miliardi di lire solo dall'Unione Europea nel periodo 2000-2006), ma pochi sono stati effettivamente spesi. Inoltre ciò che è stato realizzatoè andato soprattutto a sostegno degli interventi per le infrastrutture e le vie di comunicazione: si tratta di ben il 90% dei fondi finora stanziati. Solo le briciolesono andate alla ricostruzione sociale e agli interventi di sviluppo umano. Sembrano così confermate le linee di tendenza di una strategia della ricostruzione verso l'areabalcanica che invece di privilegiare interventi a favore dell'integrazione e della cooperazione nell'Unione europea e tra i paesi dell'area propone un approccio estemporaneoe di breve respiro, legato magari a qualche interesse economico o di penetrazione commerciale. Altri - le organizzazioni non governative, le comunità locali,il terzo settore, ecc. - hanno proposto una diversa strada: un sostegno economico e una strategia cooperativa che valorizzino l'impatto integrativo, la formazione delcapitale sociale e delle risorse umane, lo sviluppo della comunità e delle democrazie locali, la costruzione di piani territoriali, l'economia sociale. E' questa la stradadi uno sviluppo umano e sostenibile che assicuri la transizione e l'integrazione nella
pace di tutti i Balcani.

© ICS - Osservatorio sui Balcani;

Aiuti, diplomazia popolare, solidarietà

01/09/2001 -  Anonymous User

A GLI INIZI DI GIUGNO DEL 1992 COMPARVE SULL'UNITÀ UN EDITORIALE,DAL TITOLO: "MA DOVE STANNO I PACIFISTI?", IN CUI CI SI INTERROGAVA COME
MAI PER SARAJEVO - ALLORA ALL'INIZIO DI UN LUNGO ASSEDIO- NON C'ERANO STATE LESTESSE MANIFESTAZIONI CHE ERANO STATE ORGANIZZATE CONTRO LA GUERRA IN VIETNAM.
Don Tonino Bello aveva così risposto dalle colonne di un altro quotidiano, quelle de
L'Avvenire: "Non stanno nelle piazze: non saprebbero che fare dal momento che nonè identificabile un soggetto preciso contro cui prendersela, stavolta. Non stanno a far
chiasso in corteo: fatica sprecata, visto che certi clamori non si sa bene, in questo caso,chi dovrebbe ascoltarli ... Voi lo sapete dove sono andati a finire i pacifisti. Li troverete
negli innumerevoli laboratori d'analisi in cui si smaschera la radice ultima di ogniguerra e quella ultimissima del suo archetipo di sangue: il potere del denaro. Li troverete
nei luoghi dove si formano le nuove generazioni a compitare le letture sovversivedella pace, facendo loro capire che i cannoni non tuonano mai amore di patria, ma sillabano
sempre in lettere di piombo la suprema ragione dell'oro. Li troverete là dovesi coscientizza la gente sulle strategie della nonviolenza attiva e la si educa a vivere
in una comunità senza frontiere e senza eserciti. Li troverete là dove, scoprendo tuttal'impostura dell'antico mito della città che si fonda sul sangue, si mostra che invece
è possibile fondarla sulla solidarietà...".

20.000 VOLONTARI

Molti pacifisti erano - ai tempi dell'editoriale de l'Unità - già in Jugoslavia a fiancodelle vittime della guerra. Nell'ex Jugoslavia le iniziative di volontariato, le esperienze
di diplomazia popolare dal basso, l'azione umanitaria e il sostegno alle forze democratichee non nazionaliste sono state molte diffuse sin dall'inizio, come in nessun altro
conflitto. I numeri lo testimoniano. Diverse fonti (Ics-Consorzio Italiano di Solidarietà,Agesci, Forum del Terzo Settore) concordano nello stimare in almeno 20.000 i volontari,
gli operatori umanitari e in generale i civili che si sono recati nelle aree della exJugoslavia per realizzare interventi umanitari, di interposizione e di cooperazione. E
sono stati, in base a queste stime, almeno oltre 1.200 le associazioni, i gruppi grandie piccoli, le parrocchie, le scuole, i comitati spontanei che si sono mobilitati per la solidarietà con le aree colpite dal conflitto. E per l'accoglienza diretta ai profughi: più di
5.000 in Italia, più di 45.000 nelle aree di conflitto. Analogamente si possono fare stime così significative anche per gli enti locali e, a alla luce dei dati accumulati fino ad oggi,si può realisticamente affermare (si tratta anche in questo caso di una stima prudente)
che in questa esperienza di intervento umanitario e di cooperazione con l'Europacentrale, orientale e balcanica siano stati coinvolti non meno di 1.000 enti locali.

IL PACIFISMO CONCRETO

Si potrebbero citare, a fianco delle mobilitazioni umanitarie, le tante iniziative politiche
e pacifiste promosse con alterni risultati: la "Carovana della pace" da Trieste aSarajevo (settembre 1991), la "marcia dei 500" a Sarajevo (dicembre '92) e "Time for
peace" in tutti i territori jugoslavi (dicembre '92), Mir Sada (agosto '93), "Tre città, unapace" (dicembre '93) ... e tante altre. E poi le manifestazioni in Italia: a Trieste nel giugno
del '91, il corteo da Ancona a Falconara nell'aprile del '93 e la marcia Perugia-Assisinel settembre '93, "mille giorni bastano!" a Roma per i mille giorni di assedio di Sarajevo
nel dicembre del 1994 e poi nel luglio del '95, manifestazioni e cortei in 50 città italianecontro le stragi di Srbrenica e Zepa. E poi, recentemente: le manifestazioni a Roma,
Aviano, da Perugia ad Assisi nel 1999 contro l'intervento della Nato in Kosovo.
Ma la novità del pacifismo di fronte al dramma jugoslavo si è manifestato "sulcampo". Il lavoro pacifista e di volontariato è stato uno strumento per conquistare la
fiducia delle comunità coinvolte nel conflitto e per ristabilire dei ponti di dialogo, esercitando un ruolo di pacificazione concreto e sul campo. Ha detto Alex Langer: "I pacifisti, anzi, sono più presenti che mai nel conflitto jugoslavo. Con meno tifo e meno bandiere, meno slogan e meno manifestazioni, ma con un'infinita quantità di visite, scambi,aiuti, gemellaggi, carovane di pace e quant'altro. Un pacifismo (finalmente!) meno gridato, ma assai più solido e concreto. Il che vuol dire anche più complicato, perchéla vita è complicata, e la pace non si ottiene per vie semplicistiche: né con il sostegno unilaterale alle parti ritenute 'buone', e neanche con l'idea che un massiccio interventoarmato esterno potrebbe pacificare la regione".
E fu nell'ambito del sostegno concreto alle alternative democratiche che fu promosso
dall'Associazione per la pace e dall'Arci nel maggio del 1995 a Perugia un incontrotra Milorad Dodik, presidente del gruppo di 11 parlamentari serbi indipendenti
del Parlamento di Pale che si opponevano a Karadzic e Sejfudin Tokic, leader dei social-democratici bosniaci all'opposizione di Izetbegovic. Fu firmato un documento comunea favore della Bosnia multietnica, ma come ricorda Stefano Bianchini: "l'evento fu ignorato dalla stampa e i partecipanti invitati dal mondo politico ad "adeguarsi" allarealtà". Come al solito i pacifisti sostenevano le forze democratiche e l'occidente trattava con le leadership nazionaliste.
Quella dei volontari è stata la più vasta mobilitazione pacifista e umanitaria internazionale realizzata dal tessuto della società civile e degli enti locali negli ultimi anniche - pur concentrata in gran parte nella fase dell'emergenza bellica con l'invio degli aiuti e l'assistenza ai profughi - ha avuto un significativo prolungamento nella fase dellaricostruzione e ora della cooperazione.

GLI INSEGNAMENTI

Nel corso di questi anni abbiamo imparato che le guerre jugoslave parlano di noi, delle contraddizioni irrisolte della costruzione dell'Europa e del processo di integrazione, della crisi dello Stato nazionale e del nazionalismo come risposta alla modernizzazione, dei valori conclamati (convivenza, multietnicità, solidarietà) da un'Europache li ha sistematicamente traditi a Sarajevo, Belgrado, Pristina. Nel corso di questa esperienza società civile ed enti locali hanno maturato, in condizioni drammatiche di guerra, non solo una approfondita conoscenza dei territori dovehanno iniziato ad operare, ma anche acquisito nuove metodologie e approcci originali
di intervento rispetto ad un'area dalle dinamiche politiche, sociali e culturali complesse.
Da subito - anche nel corso degli interventi di emergenza e di invio di aiuti nellaprima metà degli anni '90 - l'approccio culturale e le metodologie operative utilizzate hanno teso a sostenere e a valorizzare il tessuto sociale e comunitario, la società civilelacerata dal conflitto, le forze che si opponevano al nazionalismo. Infatti in un conflitto che aveva tra i suoi obiettivi la pulizia etnica, la rottura della convivenza (colpendo adesempio le città simbolo della multietnicità come Mostar e Sarajevo), la distruzione del tessuto comunitario interetnico era necessario difendere le isole di resistenza a questafolle logica bellica e nazionalista: fu questa la ragione del sostegno a situazioni così diverse come la città multietnica di Tuzla in Bosnia, il sistema dei media indipendenti in tutte le aree della ex Jugoslavia, le esperienze di incontro e cooperazione multietnica (forse
l'unica insieme a quella dei giornalisti) delle donne di tutte le repubbliche jugoslave.
Inoltre la "crisi jugoslava", dopo la drammatica fase postbellica, ha evidenziatonell'esperienza della società civile e degli enti locali l'affinamento di metodologie e approcci legati ad una fase dell'intervento che si situa tra l'emergenza e la cooperazione,quello del post conflict o del peace building (cosa diversa dalla ricostruzione in senso stretto) che è particolarmente importante per costruire le condizioni di cooperazionee di sviluppo in territori colpiti da conflitti etnici dove sono state divise le comunità, è stato lacerato il tessuto sociale, sono state ferite le istituzioni democratiche.

SVILUPPO UMANO E SOCIALE

È per questi motivi che la cooperazione della società civile e degli enti locali può avere un ruolo importante e strategico, se adeguatamente sostenuta e valorizzata dalle istituzioni nazionali ed internazionali. Così finora non è stato. Nell'elaborazione delleorganizzazioni della società civile e degli enti locali è stata in questi ultimi mesi ripetutamente criticata l'impostazione di una strategia sulla ricostruzione fondata preva-lentementesugli interventi di natura invasiva rivolti agli aspetti materiali infrastrutturali, lasciando sullo sfondo la priorità della ricostruzione sociale, civile e democratica delle aree interessate. Nonostante gli organismi comunitari ed internazionali, ed anche istituzioni come Banca Mondiale e FMI abbiano sostenuto a parole l'importanza di investire sullo "sviluppo umano" e sociale, nella pratica ben pochi soldi sono stati spesi per questo proposito: l'ingente massa delle risorse è stata indirizzata alle infrastrutture, alsostegno del mercato, allo sviluppo delle vie di comunicazione. La cornice dei programmi del Patto di Stabilità evidenzia un assoluto ritardo nel sostenere progetti e interventi nella direzione dello sviluppo umano e sociale. Lo stessovale per l'Italia che ha destinato solo il 25% (nominale, perché in realtà le somme
effettivamente stanziate sono la metà di quelle dichiarate e promesse) dell'intera sommaper i progetti del Patto (304 miliardi a marzo del 2001) ai progetti del Tavolo 1 (sulla democratizzazione e i diritti umani), mentre tutto il resto è andato a sostenereprogetti su vie di comunicazione, infrastrutture e - in minima parte - alla ripresa delle attività produttive. È evidente che in questo contesto istituzionale di investimento marginale a favoredell'intervento per lo sviluppo umano e sociale, le organizzazioni della società civile si sono mosse con scarsità di mezzi, affidandosi a strategie di progettualità, in parteautosostenute, fondate sulle relazioni e cooperazione tra comunità. Il tema è proprio questo: come sostenere una strategia -che pacifisti, volontari e comunità locali hannocercato di promuovere- della ricostruzione fondata sullo sviluppo umano e sociale e non sugli interessi degli interventi economici privati o sulla miopia dei grandi donatori inter-nazionali e delle politiche neoliberiste delle istituzioni finanziarie internazionali.

SOCIETÀ CIVILE ED ENTI LOCALI AL LAVORO

Organizzazioni della società civile ed enti locali hanno individuato nel corso diquesta esperienza di cooperazione e di intervento umanitario con i paesi colpiti dai conflitti e dalle tensioni interetniche nell'Europa centrale, orientale e balcanica, alcunedirettrici fondamentali del proprio impegno che hanno ispirato gli interventi concreti realizzati e quelli in via di progettazione.
Tra questi vanno ricordati il sostegno alle democrazie locali e alle società civilicon programmi specifici di gemellaggio, cooperazione decentrata, formazione degli amministratori locali, sviluppo di reti di protezione e di rafforzamento del tessuto civile e democratico, attraverso il sostegno alle associazioni e ai media. In secondo luogova evidenziato l'impatto strategico dell'investimento sulla formazione, gli scambi culturali e la cooperazione universitaria, come antidoto a ogni tentazione di chiusurae nazionalista, come costruzione di opportunità di lavoro. In questo senso la sperimentazione di forme originali di economia locale e sociale che aiutino la coesione diun tessuto comunitario lacerato, il potenziamento dei servizi alla comunità e il welfare distrutto dalle politiche degli anni '90, uno sviluppo economico "labour intensive" inpaesi di crescente disoccupazione, diventa un obiettivo di fondo: aiuto al terzo settore, alle imprese sociali e di tipo cooperativo e al microcredito sono i programmi già avviatie da potenziare. Nel sostegno di un intervento a forte tasso sociale e comunitario, centrale è l'intervento a favore della tutela dell'ambiente. Infatti questo da una parterisponde all'esigenza di sanare le gravi ferite prodotte dalle guerre con la devastazione
del territorio, dall'altra può avere un impatto di tipo integrativo e di sviluppointegrato con alcune attività economiche. Va infine ricordato che gli obiettivi dell'intervento delle organizzazioni della
società civile e degli enti locali non sono dissimili da quelli prevalentemente solo dichiarati dalle istituzioni della comunità internazionale: sviluppo e cooperazione economicaintegrazione europea e transbalcanica, sostegno alla democratizzazione e promozione dei diritti umani, la pace e la sicurezza e - questione ancora irrisolta - una stabilizzazionedell'area che riconosca il principio della convivenza multietnica con il ritorno dei profughi alle loro case: problema che interessa ancora 2.000.000 di persone di tuttala ex Jugoslavia. Come ricorda il Dossier sulla ricostruzione dei Balcani elaborato dall'ICS "... Ci sono tanti progetti che potrebbero essere approvati e sviluppati e che sarebbero simbolicamenteimportanti: un progetto sul modello Erasmus per far circolare 50.000 giovani "da e per" i Balcani; un programma generalizzato di microcredito per sostenere l'economiasociale e le nuove micro-imprese in campo agricolo e ambientale; un pro-gramma
di institutional building per 500 municipi di tutte le aree per gemellaggi e formazioneamministrativa; un piano straordinario che faccia del Danubio un'arteria di commerci, di trasmissione di culture e di incontro per i sette paesi di quest'area, un pianoper far rientrare già nel 2001-2002, 20.000 profughi serbi in Krajina, sviluppando in questo modo un'area depressa a ridosso dell'Adriatico..." .
Esempi e idee non mancano. Naturalmente istituzioni internazionali, comunitarie e nazionali devono essere convinte della giustezza di una strategia unitaria - nonseparando mai ricostruzione economica, democratizzazione, pacificazione e sviluppo sociale - per sradicare il nazionalismo e ricostruire la pace nella regione, evitando glierrori fatti in questi anni.

© ICS - Osservatorio sui Balcani

Croazia: turismo da record

30/08/2001 -  Anonymous User

La stagione turistica in Croazia ha raggiunto nel mese di agosto il suo culmine di presenze. E' la stagione più riuscita nella storia della neonata Repubblica di Croazia, anche se dai dati che emergono i numeri rimangono inferiori a quelli della stagione in assoluto migliore, quella del 1989 quando la Croazia era ancora membro della Federazione Jugoslava. I risultati si vendono anche sul piano della borsa valutaria. Il valore della valuta croata, la kuna, veniva da anni sopravalutata tramite la politica monetarista del Banco nazionale. Nella seconda metà di agosto invece il valore della moneta locale è diminuito rispetto alle valute europee, tanto che il prezzo di acquisto del marco tedesco è passato da 3.69 a 3.85 kune. Secondo tutti i dati apparsi sui quotidiani dalla metà di luglio in poi, ma anche in base alle informazioni rilasciate dalle agenzie turistiche locali, le strutture di accoglienza turistica della costa sono sfruttate al massimo delle loro capacità.

Turismo non solo europeo

Le caratteristiche della clientela turistica si mantengono fondamentalmente identiche a quelle del passato, anche se con alcune differenze rispetto alla spesa media che i diversi gruppi affrontano. La maggior percentuale dei turisti arrivati quest'anno in Croazia appartengono per la maggior parte ai ceti medio-bassi dei paesi occidentali, provenienti soprattutto dall'Europa centrale. Al primo posto si trovano come sempre gli ospiti tedeschi (circa 20% del totale), ai quali seguono in ordine di percentuale gli austriaci, gli italiani, i cechi e gli ungheresi. Quest'anno si registrano però anche alcuni segni di cambiamento. Per esempio risulta moltiplicato il numero dei turisti britannici, e per la prima volta vi è un numero rilevante di turisti israeliani, anche se questi due gruppi non rientrano numericamente tra i primi dieci nella classifica delle presenze.
Non di poco conto anche il numero dei turisti provenienti da ex-repubbliche jugoslave, come la Slovenia e la Bosnia Erzegovina. I bosniaci frequentano soprattutto la Dalmazia centrale e meridionale, dove molti di loro possiedono case di villeggiatura ancora dal periodo pre-guerra. Non è invece significativo il numero dei turisti provenienti da Serbia, Montenegro e Macedonia. Questo è dovuto sia alle difficoltà burocratiche per l'ottenimento del visto di ingresso, sia per il timore che nelle regioni dalmate possano scoppiare scontri con la destra radicale - tradizionalmente antiserba - nel caso dell'arrivo di un numero rilevante di turisti jugoslavi. Nonostante ciò i cittadini jugoslavi, specialmente coloro ancora proprietari di case di villeggiatura ora liberate o parzialmente liberate dagli occupanti - profughi o ex-militari croati - trovano il modo di passare le proprie vacanze sulla costa adriatica.

Turismo povero e turismo abbiente

I turisti tedeschi e quelli provenienti dai paesi dell'Europa centrale appartengono alla categoria di coloro che per le proprie vacanze spendono di meno, giustificate in parte dagli alti prezzi dei ristoranti e dei servizi come escursioni e gite guidate, in parte dalle condizioni sociali ed economiche medio-basse di questi turisti.
Si nota invece una differenza sostanziale tra questi e i turisti britannici e israeliani, che spendono molto di più, sia per gli alloggi che per i servizi. Un esempio emerge dalle dichiarazioni rilasciate da fonti vicine alla Giunta Regionale di Fiume, da cui risulta che le percentuali dei turisti provenienti da Israele e dalla Svezia - quindi i più ricchi- rientrano tra le prime dieci categorie di stranieri che alloggiano negli alberghi della Costa di Abbazia, conosciuti per il livello lussuoso dei servizi offerti. Ma non si devono dimenticare i russi- anche se statisticamente ancora irrilevanti - appartenenti al ceto dei nuovi ricchi, spesso collegati alla malavita locale ed internazionale e pronti a spendere cifre altissime. La maggior parte della popolazione croata invece non ha possibilità economiche tali da permettersi l'alloggio in albergo. Ma molti di essi possiedono una seconda casa sulla costa o in zone interne del paese - in campagna o in zone montuose - e riescono a trarne un vantaggio economico affittandola in parte ai turisti stranieri.
Un'altra categoria che influenza in positivo l'economia turistica è quella del turismo nautico, in crescita costante come numero di presenze, e di provenienza soprattutto austriaca, tedesca e italiana. La recettività delle marine attrezzate riesce per ora a coprire la domanda, ma se i numeri dovessero aumentare con la linearità di questi ultimi anni, si dovrà certo prevedere la costruzione, o la ristrutturazione, di nuovi spazi adibiti all'accoglienza organizzata delle barche da diporto.

Prezzi elevati rispetto alle aspettative

Rispetto ai costi, i commenti che si raccolgono tra gli ospiti dei luoghi di villeggiatura sono abbastanza simili, con eccezione di alcune categorie comunque avvantaggiate perché provenienti da paesi in cui lo standard di vita è molto elevato.
Mentre la media dei turisti considera i prezzi dei ristoranti molto alti, dove una bottiglia di vino che normalmente si acquista al supermercato per 10-40 kune viene fatta pagare dalle 80 alle 250 kune, coloro che non si lamentano di questo aspetto sono i turisti scandinavi, per i quali tutto costa molto meno che nel proprio paese di residenza. Inoltre la scarsità di produzione interna, obbliga la Croazia ad importare molti prodotti i cui prezzi alla vendita non sono ovviamente bassi.
Rispetto all'inspiegabile lievitare dei prezzi arrivano critiche durissime anche dalla Slovenia. Come scrive un quotidiano di Maribor, la gente della Dalmazia non ha alcun rispetto o interesse reale verso i turisti, anzi - come riporta il titolo dell'articolo menzionato - "se ne frega altamente".
L'interno del paese non presenta un'industria turistica di rilievo. Tra i più conosciuti rientrano il complesso dei Laghi di Plitvice - al confine est con la Bosnia Erzegovina - e alcune terme nella zona di Zagorje, ma in generale i complessi turistici dell'interno ricoprono meno del 5% della recettività turistica complessiva. Alcune aree della Slavonia potrebbero divenire di interesse turistico, sia per cittadine interessanti a livello architettonico sia per centri termali e aree verdi di ampio respiro, ma le devastazioni della guerra sono ancora visibili e la ricostruzione avanza molto lentamente.

Strutture alberghiere e alloggi privati

La struttura dell'industria turistica croata è mista. Gli alberghi appartengono per lo più ad aziende private, una volta statali e con la privatizzazione venduti a realtà locali oppure ad aziende turistiche internazionali. I piccoli proprietari di strutture privatizzate si riferiscono per la maggior parte a dipendenti o ex-dipendenti delle stesse aziende turistiche. Ma a causa di numerosi abusi subiti negli anni passati, parecchi hanno perso la proprietà delle azioni, e la percentuale dei piccoli azionari si è ridotta di molto. Anche vista questa esperienza, in alcune zone esistono oggi associazioni di categoria - soprattutto nell'area di Split e di Sibenik - che si occupano di difendere legalmente gli ex-piccoli azionari e tutelare coloro che lo sono ancora.
Molti dei grandi proprietari privati sono oriundi croati. Tra i più conosciuti vi sono il cileno Andronico Luksic - personaggio già molto vicino a Pinochet e al governo di Tudjman, e Goran Strok - emigrato a Londra nel 1990 e vicino al Partito Socialdemocratico croato (SDP). Mentre Luksic ha acquistato le sue proprietà - presso Parenzo in Istria - durante gli ultimi anni del governo Tudjman e i primi anni della svolta politica, Strok è comparso sulla scena solo quest'anno, acquistando in contanti strutture alberghiere situate in Dalmazia meridionale e nella zona di Dubrovnik.
Esiste poi la categoria dei piccoli alberghi a conduzione familiare, che rappresentano il 50% della recettività turistica totale - se si esclude il settore relativo ai posti letto offerti in appartamenti o stanze. Infatti quasi metà del totale dell'offerta si riferisce ad abitazioni private. I proprietari - ed usufruenti - sono persone residenti nelle stesse località turistiche, ma anche persone residenti in zone interne che utilizzano le proprie case di villeggiature come fonte di introito economico.

Industria turistica ed evasione fiscale

Un problema connesso al "piccolo" commercio turistico è collegato al fatto che una grande parte di esso (si dice non meno del 30% sul totale) non e' registrata presso le autorità turistiche locali. Questo significa che nelle casse del fisco - sia locale che statale - non entrano le imposte a carico di questa fonte di profitto. Il controllo e la prevenzione del turismo clandestino dipende dalla situazione locale: in alcuni casi viene assunto un atteggiamento di "tolleranza", mentre in altri viene usato il meccanismo della corruzione. In ogni caso, sia che si tratti di metodi legali o illegali, sulla costa adriatica guadagnano anche i piccoli imprenditori, e non soltanto le grandi industrie turistiche.
In conclusione si deve dire che una buona stagione turistica non risolve le difficoltà economiche e sociali del paese, ma di certo riesce ad attenuare quelle delle zone costiere, drammatiche soprattutto nelle zone dell'Adriatico meridionale per anni evitate dai turisti perché più prossime ai confini della Bosnia Erzegovina e quindi considerate maggiormente "a rischio".

Summer time in Serbia and Montenegro - 2° parte

15/08/2001 -  Anonymous User

According to the estimates of the Serbian government about one third of citizens in Serbia is living in poverty, and over than 750 000 citizens in their best years are unemployed. On the other hand, it is possible to find the same number of citizens actually employed, who again live on the fringes of existence. There are approximately one and a half million pensioners living in Serbia, and again a little bit more than a million and a half in actual employment. Therefore the estimate is that there are 1,4 employees to one pensioner, a statistic which demonstrates high dependency. Further to this, when we consider the 600 000 refugees, it is not hard to define the social situation in Serbia as unpromising.

Offers

However, a lot of Serbian people somehow manage to afford going to the sea and most often it is the Montenegrin coast which they visit. The largest travel agency in Serbia, Yugoslav Airline Transport, offers many proposals every year where it is possible to pay in dinars even though the official currency in Montenegro is DEM (Deutsche Mark). The cheapest accommodation, in the peak season from 21- 31 July, for one person for 10 days is 269 DEM in Budva, whilst the most expensive is 1125 Dem in Milocer. It is quite a lot of money, when knowing that an average salary in Serbia is not more than 200 DEM. Hence it is much more cheaper for Serbian people to go to private accommodation. A bed in a private accommodation costs 10 to 15 DEM per night. By doing that a lower price for rooms is paid and by arranging their own meals they spend less money (often they eat sandwiches or biscuits. These tourists are called by a common name "tomato tourists").
Still the most common means of transport is the car. Therefore there are a lot of car accidents, because most of the drivers are tired of poverty, and the problems they confront each day. Sometimes they are even hungry, because it is not enough eating sandwiches and tomato and driving at least 600 km. The trauma people still suffer due to the last decade of dictatorship is still present. Some other causes of frequent accidents are overcrowded roads, old cars, routes in very poor condition and bad discipline of the drivers.
There are of course people from Serbia who spend their holidays in Greece or Turkey. Mostly those are young people who come from rich families. One quite strange thing very vivid in Serbian society is that a small group of rich people (businessmen, etc.) does not find the time to rest whereas the poor majority, with financial problems, actually does go on holidays. This is quite a paradoxical situation. In mid-August, for example, it was not possible at all to find any free rooms by going to the agencies. Everything the agencies were offering was full until after August 25. No special programmes for foreign tourists were offered this year by Belgrade tourist agencies. The price was the same for them but they cold not book anything from their country of origin. Notwithstanding all these problems, the Montenegrin coast is full of tourists, which was not the case in the previous few years. Then, people were afraid of conflict, sometimes of NATO, and sometimes of the possibility of sudden civil war emerging in Montenegro.

Destinations

One can also find a small group of people travelling to the Croatian coast. Here it would be good to remind oneself that besides the fact that Milosevic is not ruling any more and Serbia is becoming open to the West and the rest of the world, it is still very hard to get a Croatian visa, because this relationship is still not renewed, and the shadow of the recent war is still present in the minds of the people. These people visiting Croatia are mostly people who have relatives there or have Bosnian or Croatian passports (refugees). Nowadays, besides the fact that the relationship between Serbia and Montenegro, as we know it, is not so friendly as it traditionally used to be, it is not an obstacle for Serbian people to visit the beaches of Herceg Novi, Kotor, Tivat, Budva, Sveti Stefan, Petrovac, and Bar. The situation in Macedonia also helped the number of tourists in Montenegro as it is not possible, at the moment, to travel safely to Greece by car. Since democratic changes in Serbia after October 5 2000 a lot of aid and donations have been coming to Serbia from abroad. This summer there were many projects to help children go to the seaside, the mountains, or somewhere else. One of these projects was run by the Red Cross, Belgrade which organized summer holidays during August for children coming from poorer families. The value for this kind of programme was put at 1.3 million dinars (DEM equals 30 dinars). This summer a lot of foreigners came to Montenegro Riviera. These foreigners, besides Cheks and Slovaks came mostly from the former Yugoslav republics of Slovenia, Macedonia and even Croatia. Ulcinj, the town on the very South of the Montenegrin coast, recorded the best tourist season ever. During July it was recorded that over 100 000 visitors spent their holiday on the Ulcinj Riviera. Employees in tourist services stated that in Ulcinj and its surrounding area there were around 60 000 visitors from Kosovo. Some newspapers published stories that Hasim Taci, one of the Kosovo Albanian leaders, was holidaying on one of Ulcinj' s beaches. Besides the dominant presence of tourists from Kosovo, there are also people from Bosnia and Herzegovina, Albania, Novi Pazar (a town in Sandzak, the southern part of Serbia where the majority of the population is of ethnic Bosniak (Muslim) background). Russians, Checks and Slovaks also visited Ulcinj.Ada Bojana, however, once a famous nature haven, is not any more what it used to be and no more foreign tourists come there. It is actually the first year that people, especially those coming from FRY, are a little bit less tense. A new trend that shows how a residue of war memories are still floating in the air. Pictures of some war criminals, like General Mladic, sunbathing on Budva's Riviera were published, for example. There are some cultural events that bring a little bit of glamour to the picture of the overcrowded Montenegrin coast, with its problems of drinking water among others. Maybe the best example would be the 15th Budva Festival, famous for its numerous performances, theatre plays, concerts, etc. It starts on July 1 lasts for 51 days. It unites artists, not only from Montenegro, but also from Serbia and other foreign countries. Also in Ulcinj, a book fair was held between August 8- 13, which promoted 5000 titles in Albanian. The situation is certainly more optimistic this year than it was in the last decade. The Montenegrin coast was never so full of tourists. However not so many tourists from abroad came. Only foreigners from the former republics of Yugoslavia, who themselves felt nostalgia and now finally lived a moment passing the Croatia- Montenegro border not free of fear. The divisions are still visible however: Albanians and Bosnians stay in Ulcinj, while Serbs, Macedonians and Serbs from Republic of Srpska stay in the northern points of the Montenegrin Riviera.

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Bosnia Erzegovina - turismo in un paese in transizione

10/08/2001 -  Anonymous User

Sembra che in Bosnia sia tutto in transizione, le aziende, le banche, il turismo, lo Stato, il paese intero. Il vecchio sistema del periodo comunista non esiste più ed in questi anni di dopoguerra il paese sta cercando la strada per trovare una soluzione stabile a tanti problemi e così divenire un paese stabile. La Bosnia d'oggi è attraversata da diversi tipi di turisti, tra i quali anche coloro, forse con un misto di sadismo e di gusto dell'orrido, che oggi vengono in Bosnia Erzegovina per cibarsi con avidità dei segni lasciati dalla guerra. E come scritto dal quotidiano Slobodna Bosna il 2 agosto scorso, c'è qualcuno che pare essersi già preparato a soddisfare tale domanda, proponendo la visita ai simboli di guerra di Sarajevo e Pale. Un operatore turistico indipendente che opera nella capitale, organizza per gli stranieri la visita alla casa del latitante Karadzic - ricercato dal Tribunale Internazionale de L'Aja - alla "modica" cifra di 500 marchi tedeschi, un giro di visita al "Tunnel" sotto la pista dell'aeroporto di Sarajevo - che ricordiamo essere stato in guerra unica via di fuga dalla città - e la visita alle fosse comuni di Srebrenica.

Gli "internazionali"

Se vogliamo parlare della presenza di stranieri in Bosnia Erzegovina, si deve sottolineare che sono tantissimi, tra americani, francesi, italiani e tanti altri. Tutti loro appartengono alla stessa categoria, e denominati "internazionali" dalla popolazione locale. Tra questi troviamo gli appartenenti allo SFOR - la Forza Internazionale di Stabilizzazione, ma anche coloro che operano sotto l'egida dell'OHR (Ufficio dell'Alto Rappresentante), delll'UNHCR (Alto Commissariato per Rifugiati delle Nazioni Unite), della CRI (Croce Rossa Internazionale), delle varie ONG e delle ambasciate. Ma li si può inscrivere nella categoria dei turisti? Se consideriamo che tutti loro sono stranieri, vivono temporaneamente in Bosnia e spendono - parecchia - valuta, forse possiamo azzardarci a farlo. In fin dei conti pagano l'affitto di casa - a prezzi salati, comprano nei negozi - soprattutto in quelli che offrono prodotti d'importazione, mangiano nei ristoranti - di qualità e anche molto cari. Sarajevo oggi è una città vivace e grazie a loro possiede uno standard di vita superiore alla media bosniaca. E la stessa cosa avviene, anche se in scala minore, in città come Mostar e Banja Luka. Ma cosa accadrebbe a queste città, se tutti questi stranieri dovessero andare via?

I "turisti per caso"

Se non fosse per la presenza degli "internazionali" d'inverno le città sarebbero ancora più vuote e desolanti di quanto non siano già. D'estate invece avviene come nei paesi di mare, le città si riempiono di gente: profughi scappati all'estero ai tempi della guerra, che ora tornano a trovare i parenti. Se nei primi anni del dopoguerra le loro visite avvenivano quasi in incognito, di cui si aveva notizia solo nell'ambito ristretto del proprio nucleo familiare rimasto a vivere in Bosnia, ora essi vengono considerati dai residenti dei veri turisti. Ormai fuori dal luogo di origine da molti anni, mostrano su di sé i classici segni dell' "integrazione": vestiti come un qualsiasi svedese, tedesco, italiano, girano per le città con cinepresa o macchina fotografica appesa al collo, e portafoglio alla mano per comprare souvenir. Ma alla fine di quello che doveva essere un "ritorno a casa", partono alla volta dei paesi che li hanno accolti con la sensazione di aver fatto la parte dei "turisti per caso".

Il turismo "religioso"

Unico luogo bosniaco dove i "turisti" ci sono sempre stati - anche negli anni del conflitto - è Medjugorje, anche se molti di coloro che frequentano questo luogo Santo pensano di essere in Croazia. Medjugorje, situata in Erzegovina a circa 40 km a sud di Mostar, non tanto tempo fa era solo un paese, ma l'arrivo massiccio e costante di migliaia di pellegrini in visita ai luoghi dove si dice appaia la Madonna, l'ha trasformata in una città. E se i mesi di maggior afflusso sono quelli estivi, i "turisti" di Medjugorje non si arrestano di fronte all'inverno così come non si sono fatti fermare in passato dalla guerra in corso.
Gli introiti derivanti dal passaggio di tantissimi americani, irlandesi, tedeschi, francesi e italiani, ma ultimamente anche di cechi, slovacchi e polacchi, entrano maggiormente nelle tasche di aziende private, anche se numerosi viaggi di pellegrinaggio vengono organizzati direttamente dalla Chiesa Cattolica bosniaca, in diretto contatto con le "consorelle" straniere, soprattutto quella italiana.

Mare e montagna per i più ricchi

La Bosnia Erzegovina presenta, all'interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti, 24 km di costa adriatica che interrompono - sulla carta - il tratto meridionale della costa Croata, isolando Dubrovnik dal resto della Dalmazia. Nei fatti le cose sono invece un po' differenti. Infatti Neum, unico grande centro abitato della costa bosniaca, è in realtà considerata croata, come se esistesse ancora l'autoproclamata Repubblica di Herceg-Bosna (link al libretto ICS dove si parla del 1993) Le istituzioni federali e statali della Bosnia Erzegovina non hanno ancora ripreso il controllo su questa cittadina, che continua ad essere "sorvegliata" dall'Autonomia croata. Gli alberghi costruiti prima della guerra da ditte bosniache di Tuzla, Zenica e Sarajevo per essere utilizzate come luoghi di villeggiatura per i propri operai, durante la guerra sono stati "confiscati" da imprenditori croati grazie al forte sostegno della lobby politica di Tudjman.
Ma anche quest'estate, la maggior parte dei bosniaci si è dovuta accontentare di fare brevi visite ai laghi antistanti alle città di residenza, perché la villeggiatura al mare - anche sulle coste montenegrine dove i prezzi sono decisamente più bassi che in Croazia - per il loro standard di vita rappresenta ancora un miraggio. I laghi più famosi, meta dei brevi viaggi di piacere che i locali si concedono, sono il Boracko Jezero nei pressi di Mostar, e il lago di Modrac frequentato soprattutto dai cittadini di Tuzla. Ma secondo i dati resi ufficiali dalla Televisone TPK di Tuzla, quest'anno la presenza negli alberghi antistanti al lago di Modrac è diminuita di molto a causa dell'inquinamento dell'acqua.
Mostar e Sarajevo vengono considerati luoghi turistici "mordi e fuggi". La gente che viene da fuori si ferma per due o tre giorni e poi continua il proprio viaggio. Le zone montagnose che circondano Sarajevo si riempiono di cittadini sarajevesi per la classica gita domenicale con pic-nic a base di "cevapcici", mentre i turisti stranieri - anche se ancora molto pochi - vi fanno visita d'inverno. Essi vengono più che altro per vedere i luoghi e le piste dove si tennero le Olimpiadi invernali del 1984, e la bassa affluenza è in parte dovuto alla scarsità di strutture alberghiere - di cui molte ancora rase al suolo e non ricostruite - ma anche a causa di un certo tipo di messaggio propagandistico che all'estero fa pensare alla Bosnia come ad un paese dove la guerra non è ancora finita.

L'Ente del Turismo è inesistente

Nessuno è in grado di dire quanti turisti visitino la Bosnia Erzegovina nell'arco di un anno. Innanzitutto perché è difficile capire chi è il "vero" turista, e in secondo luogo perché non esiste un ente turistico che funzioni in maniera coordinata su tutto il territorio nazionale. Ecco che la situazione di transizione si nota anche ambito turistico. Alcune realtà locali si sono auto organizzate, come quella di Banja Luka che ha realizzato una guida turistica dei luoghi da visitare in città e dintorni, ma per la quale ci sono voluti due anni di lavoro. Tra le questioni poco chiare e che sfuggono al controllo, sono le modalità di finanziamento di queste programmi cosiddetti turistici e le proprietà delle strutture d'accoglienza turistica. Infatti ono poche le "organizzazioni" del turismo in regola con il fisco, mentre non si comprende chi sia il proprietario della maggior parte degli alberghi della Bosnia Erzegovina. Una parte di essi è statale, altri sono già privatizzati, alcuni vengono affittati a stranieri per essere usati come sedi di ambasciate. In uno Stato in transizione forse non può che essere così.
E come realtà in transizione non esiste lo Stato, un'istituzione che organizzi un programma unitario. Anzi, qui sono fin troppe: una locale, una federale, una della Repubblica Srpska, una Federale, etc. In Bosnia Erzegovina si combatte da anni anche solo per definire quale sia il souvenir tipico. Mentre a Mostar si continua a vendere l'immagine dello "Stari Most" - Ponte Vecchio - distrutto quasi otto anni fa, Sarajevo offre oggetti tipici del periodo turco come kilim e oggetti in rame battuto. Qualcuno ha anche provato a lanciare sul mercato lo "stecak" - stelle sepolcrali dei Bogumili - come souvenir nazionale, ma è stato un tentativo che non ha attecchito.
La comunità internazionale, presa da priorità ben più urgenti, non si è chiaramente occupata di questo settore. Solo quando si supererà questo periodo di transizione, potremo dimenticare il turismo di transito.

I rifugiati macedoni in Albania

09/08/2001 -  Anonymous User

Albania: rifugiati macedoni alle porte?Da Valona, Elidon Lamani.

L'escalation della violenza etnica in Macedonia, nei primi mesi del 2001 ha innescato l'ennesimo esodo di profughi secondo un meccanismo ormai tristemente usuale nella regione. I giornali albanesi del 16 marzo riportavano la notizia dei primi 25 profughi albanesi provenienti dalla Macedonia, che avevano attraversato il confine a Qafe Thane, nei pressi del lago di Ohrid. Nei giorni immediatamente successivi il numero dei profughi aumentava in modo esponenziale: 287 il 18 marzo, circa 400 il 19 marzo. Tra i profughi vi erano e vi sono soprattutto donne e bambini, ma quasi tutti continuano il loro viaggio in direzione del Kosovo.
L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), insieme all'Ufficio per i Rifugiati (OFR) e alle numerose organizzazioni non-governative ed associazioni albanesi presenti sul territorio, si sono immediatamente mobilitati per monitorare la situazione, valutare le capacità di ognuno ad assistere il Governo nell'eventualità di un nuovo massiccio flusso di profughi, e costituire un'unità di crisi in grado di affrontare ogni emergenza.

Unità di crisi: per evitare gli errori del passato
Secondo il responsabile dell'UNHCR in Albania - Terry Pitzner - l'unità di crisi dovrebbe lavorare in stretto coordinamento con le autorità albanesi, il cui coinvolgimento deve essere decisivo sia nella fase della pianificazione di un piano d'emergenza, che in quella della sua realizzazione sul terreno. I referenti istituzionali dell'unità di crisi a livello locale sono stati individuati nella Prefettura e nella Municipalità.L'analisi dell'esperienza drammatica vissuta durante la crisi dei rifugiati kossovari del 1999, ha offerto diversi spunti critici e occasioni di confronto. Obiettivo dell'unità di crisi è quindi ottimizzare le risorse e le capacità disponibili in loco, creare un piano di emergenza in grado di offrire adeguate risposte ad ogni possibile situazione critica, ed evitare così gli errori fatti durante la crisi del 1999, spesso dovuti all'impreparazione, ma anche al mancato coordinamento tra le forze in campo.
La filosofia che sottende tutto il piano d'intervento è quella che predilige la partecipazione della società civile locale nella gestione dell'assistenza ai rifugiati. A capo di tutto rimarrà l'Ufficio del Governo albanese per i Rifugiati in coordinamento con l'UNHCR, mentre alla guida dei settori specifici (minori, sanità, alimentazione, ecc.) vi saranno le principali organizzazioni internazionali specializzate nell'emergenza (CARE International. ICMC, CRS, OXFAM, ecc.), mentre le organizzazioni locali albanesi rivestiranno il ruolo di "implementing partner" delle attività specifiche.

Profughi: solo di passaggio per il Kosovo
Già alla fine di marzo del 2001, 400 persone avevano attraversato Qafe Thane per ritornare in Macedonia, ma i lavori di preparazione del coordinamento sono comunque andati avanti. Sono stati identificati tre settori di intervento (approvvigionamento idrico e misure igieniche, salute, servizi alla comunità) e le rispettive "lead agency" che avranno il compito di coordinarne l'organizzazione decentrata. E' stata inoltre sottolineata l'esigenza di garantire un approccio basato sulla gestione partecipata dei bisogni, attraverso un metodo di coinvolgimento democratico degli stessi rifugiati, chiamati ad esprimere una propria leadership.In ogni caso, il territorio albanese ha visto un massiccio passaggio di profughi diretti verso il Kosovo, tra i quali solo un piccolissimo numero ha chiesto lo status di rifugiato. Inoltre, i movimenti degli albanesi macedoni hanno seguito l'andamento della crisi, e sono stati in molti a rientrare non appena giungevano segnali di stabilità provenienti dalla zona di Tetovo.
Attualmente nella zona di Podragec (che abbraccia il lato ovest del lago di Ohrid, confine naturale tra Albania e Macedonia) sono solo 5 le persone che hanno lo status di rifugiati, mentre nella municipalità di Korça (sempre vicino al confine macedone, ma più a sud rispetto a Podragec) non si registra alcun caso di rifugiato ufficialmente riconosciuto come tale.

Croazia: crimini di guerra

07/08/2001 -  Anonymous User

Il generale Ademi va all'Aja

Come informa il quotidiano Vecernji list del 25 luglio scorso, il Presidente della Repubblica - Stipe Mesic, ha liberato il Generale Ademi dall'obbligo del segreto militare, e gli ha imposto la partenza per il TPI con indosso la divisa militare. Egli è convinto che il Generale Ademi sarà in grado di dimostrare la suo innocenza. Sullo stesso quotidiano, il giorno successivo si scrive che prima di partire per l'Olanda, Ademi ha dichiarato di essere vittima di un complotto ideato da generali vicini a Tudjman e che Janko Bobetko, già capo di Stato maggiore, è il maggior responsabile della sua partenza per il Tribunale de L'Aja.
Ma considera maggiormente colpevole lo stesso Tudjman, personaggio freddo e calcolatore, totalmente indifferente alla sorte di semplici vite umane, incluso quelle dei propri soldati. Secondo la confessione rilasciata ai giornalisti - Zvonimir Despot e Sasa Zinaja - durante il suo viaggio in aereo verso L'Aja, Ademi si è dichiarato vittima di azioni estorsive ad opera dei generali vicini a Tudjman (Bobetko e colleghi). Sempre sullo stesso quotidiano, Bobetko ribatte invece che è il Ministro degli interni Sime Lucin ad aver messo sotto controllo le linee telefoniche per impedire i contatti con Ademi, che secondo Bobetko sarebbe invece vittima di del Presidente Mesic e di altri "amici" del Tribunale. Anche Nenad Ivankovic, presidente dell'HONOS (Associazione per la difesa dei valori della Guerra patriottica) considera le dichiarazioni di Ademi vere e proprie falsità.
Su Vjesnik del 30 luglio scorso, il difensore legale di Ademi - Cedo Prodanovic - ha detto in un'intervista rilasciata a Biljana Basic, che la strategia di difesa del suo cliente (nel frattempo dichiaratosi innocente di fronte alla Corte de L'Aja) è in fase preparatoria. Nella sua intervista, Prodanovic (di nazionalità serba) ha inoltre attaccato severamente il presidente dell'associazione "Veritas" di Banja Luka - Savo Strbac - per aver diffuso notizie false (come quella secondo la quale Carla del Ponte stia preparando un'indagine a carico di Stipe Mesic) le cui conseguenze ricadono poi anche sui serbi.

Gotovina ancora latitante

Ante Gotovina l'ex Generale di cui è stato emesso un mandato di cattura lo scorso 26 luglio, e' ancora latitante. Le informazioni sui luoghi in cui pare oggi trovarsi, vanno dall'Erzegovina al Sud America - dove ha vissuto un decennio facendo il mercenario - anche se pare più verosimile che si trovi ancora in Croazia.. In una dichiarazione rilasciata il 25 luglio da Nenad Ivankovic a Davor Krile di Slobodna Dalmacija, Gotovina non è latitante ma si trova semplicemente in ferie, e non si è ancora presentato perché nessuno gli ha consegnato il mandato d'accusa. Secondo Ivankovic, Gotovina si trova tra gli accusati perché è in atto un processo di criminalizzazione della maggior parte dei comandanti croati che hanno fatto la guerra. E in questo disegno c'è la pressione fatta sugli ufficiali a dichiararsi pentiti e a testimoniare contro i propri comandanti.
Nel frattempo, come emerge dall'informazione rilasciata a Vecernji list del 27 luglio dalla portavoce del Ministero degli interni - Zinka Bardic, la polizia ha già avviato l'operazione di ricerca del Generale Ante Gotovina, anche se è probabile che essa non verrà portata a termine prima della fine dell'estate. Zinka Bardic non è in grado di confermare le notizie secondo le quali Gotovina si troverebbe in Dalmazia settentrionale dove possiede una villa a Pakistane, presso Zara. Il sindaco di Pakostane - Milivoj Kurtov (HDZ) - ha dichiarato al corrispondente locale del Vecernji list che "Anche nel caso in cui questo dovesse essere vero, noi non parleremo. La polizia può cercare quanto vuole, dico solo che ogni Croato che non aiuterà Gotovina sarà maledetto". Una simile dichiarazione è stata rilasciata anche dal Conte spalatino Branimir Luksic, il quale ha oltretutto negato alcuna informazione sull'incontro avvenuto alcuni giorni fa a Pakostane tra i tre Conti dalmati (tutti tre dell'HDZ), dichiarando che si è trattato di un incontro privato.
Su Novi list del 27 luglio si dà per certa la presenza del generale ricercato su di una nave che naviga nei dintorni di Zara e Sebenico. E intanto nella regione la gente inneggia a Gotovina con slogan "Lui è un eroe, non è un delinquente" e nei ristoranti viene messa in mostra la sua foto, accanto a quella di Tudjman e di Jure Francetic, famoso boia ustascia della seconda guerra mondiale.

L'Aja pende sulle teste di tutti

Si intensificano le discussioni relative alla collaborazione con il Tribunale Internazionale de L'Aja. Il vescovo di Gospic e di Senj - Mile Bogovic (anche professore di storia ecclesiastica presso la scuola superiore di Teologia di Fiume) - ha rilasciato un'intervista a Darko Pavicic (Vecernji list, 26 luglio) in cui ha duramente criticato la decisione del governo attuale di collaborare con il TPI, mettendo così rischio a la stabilità dello Stato. Bogovic continua ribadendo che i "vicini" vogliono mettere in ginocchio la Croazia, sia come stato che come comunità,. Perciò è assolutamente necessario cessare le divisioni e le polemiche nazionali e lavorare tutti insieme verso l'integrazione europea e la globalizzazione. Ma l'arcivescovo di Zagabria - Josip Bozanic (anche lui docente di diritto canonico nella stessa istituzione scolastica) - nega il diritto ai vescovi di intervenire nelle quotidiane bagarre politiche, e insiste sulla necessità di limitare la confusione che già esiste nel mondo ecclesiastico (e di cui si parla in maniera estesa sull'ultimo numero del settimanale Nacional).
Commentando le ultime polemiche Milan Ivkosic (Vecernji list, 27 luglio) delinea tre aree di polarizzazione dell'opinione pubblica: verso il governo che dimostra la volontà di cooperare con il Tribunale, verso l'opposizione che critica il governo di minacciare gli interessi nazionali e la Chiesa che vacilla tra governo e opposizione, anche se con posizioni più prossime all'opposizione nazionalista. E queste continue polemiche e lotte politiche interne instillano nella popolazione timori e insicurezze.
Su Jutarnji list del 28 luglio viene scritto d'altra parte che le accuse contro Gotovina sono legittime, perché durante le azioni militari avvenute il Croazia nel 1995 egli ha partecipato al progetto di pulizia etnica ideato da Tudjman, ed esse smentiscono il tentativo di difesa dell' "azione Tempesta" fatta dal Primo ministro Ivica Racan, secondo il quale non è stata un'azione genocidi ma dove ad opera di alcuni sono stati perpetrati crimini di guerra nei confronti della popolazione civile.
Il presidente della Commissione parlamentare per gli Affari esteri - Zdravko Tomac (SDP) a seguito del colloquio avvenuto con il sottosegretario tedesco Cristoph Zopel, ha dichiarato che definire la "guerra patriottica" con l'epiteto di genocidio può peggiorare la situazione politica nel paese, perché esistono forze politiche che puntano sull'emotività della gente per rovesciare il governo. Perciò il Tribunale de L'Aja non dovrebbe mostrarsi così intransigente rispetto ai protagonisti croati della guerra, anche quindi nei confronti dell'ex Presidente Tudjman (Slobodna Dalmacija, 31 luglio). Su Vjesnik uscito lo stesso giorno, appare invece un articolo a firma di Davor Genero, in cui si insiste sulla necessità sfruttare i processi del Tribunale Internazionale per confrontarsi con la storia recente, e liberarsi definitivamente dall'eredità politica di Tudjman. Secondo Gjenero non esiste altra alternativa, se non quella di arrivare all'isolamento e divenire una società chiusa, basata sulla xenofobia e sulla menzogna.

Co-operation with the ICTY: the question is still open

07/08/2001 -  Anonymous User

More than a month after Milosevic was extradited to The Hague ICTY, and the question of co-operation with The ICTY still remains open and undefined. The citizens of Serbia, occupied with everyday existence and survival, begin step by step to forget about the recent president detained in Scheweningen , while the politicians remain the ones who are certainly occupied with the question of "who will the next traveller to The Hague be" among the other four accused together with Milosevic in spring 1999. They are: the current Serbian president, Milan Milutinovic; the member of the main body of Socialist Party of Serbia (SPS), Nikola Sainovic; SPS MP Vlajko Stojiljkovic (former Serbian Interior Minister); and lastly as the columnist of Daily Danas, Jasmina Lukac, names him "forgotten" office commander of Yugoslav Army (VJ), Dragoljub Ojdanic.
In the article, written by Jasmina Lukac, published in Danas, July 28- 29, the present situation and behaviour of this four previously mentioned is described. For instance, of the four, the person in the worst situation is probably Sainovic who himself constantly rejects any kind of statements to the press and never leaves house without his bodyguard. Whereas, on the other hand Milutinovic, it is presumed, will be called as a witness, instead of being the indictee. This is due to his "good behaviour" in the period after the fall of Milosevic' s regime (as it is well known Milutinovic refused to block some decisions of the DOS coalition as Milosevic family and SPS were asking him, Milutinovic as a Serbian president was in a position to do such a thing, however he did not), the fact is that he was an ambassador in Greece until 1995, so therefore he could not have been involved in the Bosnian war, as Sainovic is presumed to be. After Milosevic was arrested he resigned from all his SPS functions, etc. (Danas, July 28- 29)
In his interview to magazine "Vreme" (No 551) Serbian Prime Minister, Zoran Djindjic, stated that Democratic Opposition of Serbia (DOS) has some time to prepare and define a concept of co-operation with The ICTY. Djindjic stated that one might say that with having Milosevic in The Hague, about 50 per cent of the obligations of Serbia, concerning the topic of extradition of the FRY citizens, have been fulfilled.He then explained that now two strategic plans are in front of DOS. The first would be that the list of FRY citizens to be extradited to the Hague finishes here, or the second that a part of those be put under the trial in FRY if that is possible and also if The ICTY accepts that...

Supporters of Milosevic and legalists

The best example on which the fractions in Serbia, FRY, formed on the different opinion about The ICTY itself and co-operation with it, is certainly the case of extradition of the former President, mister Slobodan Milosevic.First, there is a fraction that consists of relatively small number of Milosevic supporters, the majority of which come from the Socialist Party of Serbia (SPS), and Serbian Radical Party (SRS). This fraction is against any co-operation with The ICTY, their politics do not differ at all from Milosevic' s in the last 10 years. Secondly one can find a fraction, whose best representative would surely be FRY president Kostunica. To define this group, the simplest way would be just to refresh in one' s memory the statements of Kostunica, related to Milosevic' s extradition. He condemned extradition and said that it is not in accordance to the FRY Constitutional Law. People sharing this kind of opinion in Serbia, FRY are called Legalists.
Here it will be also good to cite Belgrade's famous law expert and president of the Belgrade Centre for Human Rights, Vojin Dimitrijevic. In his interview for the magazine "Reporter" (No 169, year V, July 18) he said that among Serbian citizens it is still not rare to hear that Milosevic has made Serbian people suffer the most, and therefore he must be put on trial in Yugoslavia and not somewhere else. Dimitrijevic in his interview later explains that people saying this, however right they might be in a moral way, are as well trying to avoid the fact that Milosevic committed crimes against humanity and war crimes towards other nations and that by trying to trial Milosevic here they want to escape that part of his responsibility.

The third fraction

Besides the fraction of Milosevic supporters, and fraction of legalist, there is also another fraction. To explain this one it would be best to write how executive director of Yugoslav Lawyers Committee for Human Rights commented Milosevic's extradition. It is a fact that according to FRY Constitutional Law it is not permitted to extradite FRY citizens to another foreign country. However, the Executive director of Yugoslav Lawyers` Committee for Human Rights, Dusan Ignjatovic pointed out that in the case of Mister Milosevic one could not speak of extradition, in its classical interpretation. He stated that Yugoslav Lawyers` Committee for Human Rights finds that ICTY is not the court, nor body of any foreign country, but the body established by the United Nations. It is therefore important, he added, to comprehend that it is a duty for all countries, whether they are members of the UN or not, to respect the main UN documents like for instance Universal declaration for Human Rights. Today, stressed Ignjatovic, this kind of documents are in the field of common law. Ignjatovic also commented on the atmosphere during the rule of the previous regime, by saying that there were some signs and attempts of collaboration with the ICTY during Milosevic` s reign. As an example for that he cited former commanding officer of the Yugoslav Army VJ, Momcilo Perisic who said that Milosevic ordered him to surrender to the ICTY. However Perisic refused this.Ignjatovic also reminded us that since spring 1999, from the time when ICTY charged Milosevic with war crimes on Kosovo, any kind of co-operation was stopped, by Milosevic` s regime of course. Dusan Ignjatovic concluded that Yugoslav Lawyers` Committee for Human Rights finds that it is not possible to define cases such as Milosevic`s as an extradition, but simple transfer and a sort of collaboration with the ICTY, which is the court of FRY itself.

Citizens' opinion

Finally, it would be good to mention how citizens of Serbia see The ICTY. An opinion poll conducted by the weekly NIN in July 2001, which shows that a slightly over than a third of the citizens of Serbia, about 36.5 per cent think that the Serbian government was right to have extradited Milosevic to The ICTY, whereas about 56. 5 percent find that this was not the right move. That ICTY does not enjoy the support of the majority of the Serbian citizens upholds the fact that 61 per cent of those polled do not consider this court legitimate. Only 28 per cent approves of it. One third of the polled citizens think that Milosevic will have a fair trial in The Hague, whereas on the other hand, about 58. 5 per cent think the opposite.

Una vita senza casa. La situazione dei rom in Bosnia-Erzegovina

06/08/2001 -  Anonymous User

La privatizzazione minaccia anche i Rom. Questa volta è il turno dei Rom di Mostar, città in cui fin dalla sua fondazione esiste un quartiere - Bisce Polje - abitato da nomadi. E' stata una grande sorpresa per Zarif Ahmetovic tornare a casa pochi giorni fa, e trovare le ruspe che gliela stavano radendo al suolo. Il Comune di Mostar est ha venduto la terra abitata dai Rom ad un imprenditore, Camil Zuharic, che su quel terreno ha in progetto la costruzione di un piccolo centro commerciale. L'accordo tra l'imprenditore e la municipalità di Mostar non ha però preso in considerazione la sorte di Zarif e dei suoi sei figli. La prima notte successiva alla distruzione della casa, la famiglia ha dormito nella casa di amici, ma all'indomani sono dovuti andar via da Mostar, per sempre. "Noi Rom siamo fatti cosi, adesso siamo qui, domani chi lo sa. Quando andiamo via una volta, non torniamo più". "Adesso nessuno della nostra tribù sa dove siano finiti" dice Ramadan Haziri, presidente dell'associazione "Neretva" che raduna i Rom di Mostar.
Sembra che l'accordo con l'imprenditore Zuharic sia ormai una cosa fatta e che una trentina di famiglie Rom dovranno andarsene, mentre il rappresentante del municipio di Stari grad (Città Vecchia) di Mostar - Zijad Hadzionerovic - ha promesso di trovare una soluzione per tutti i Rom di Bisce Polje. In realtà, in passato venne già individuata una località in cui spostarli, ma durante l'inverno scorso la zona venne inondata dal fiume Neretva. Ancora meno fortunati i Rom di Kiseljak (ad ovest di Sarajevo), che durante le inondazioni di luglio si sono ritrovati senza casa. Le famiglie sono state evacuate, ma fino ad ora non è stata trovata per loro ancora nessuna sistemazione definitiva. Sono state proprio queste due storie ad attirare l'attenzione sulla situazione attuale dei Rom in Bosnia.

I Rom in Bosnia Erzegovina

Ad oggi non esistono stime ufficiali sul numero dei Rom presenti in Bosnia ed Erzegovina, anche perché con lo scoppio dell'ultimo conflitto gran parte di essi sono scappati, alcuni diretti verso l'Italia, altri verso la Macedonia e la Serbia.
Prima della guerra vivevano in Jugoslavia circa 850.000 Rom. Esistevano rom di quasi tutte le confessioni religiose presenti sul territorio, ortodossa, cattolica e musulmana, mentre l'intera comunità Rom, senza distinzione di appartenenza religiosa, festeggiava il "Djurdjevdan", che cade ogni sei maggio. Secondo il censimento del 1981, risulta che nella Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia il 47% della popolazione rom con più di 15 anni era analfabeta., il 29% aveva frequentato solo i primi quattro anni di scuola dell'obbligo, appena il 4,6 % aveva frequentato la scuola superiore, e la percentuale di coloro che avevano concluso gli studi superiori si abbassava ad un misero 0,2%.
I Rom vivono da sempre in quartieri separati dal resto della popolazione, cosa che avviene tutt'oggi sia in Bosnia sia nelle altre repubbliche della ex Jugoslavia, come ad esempio a Suto Orizario nei pressi di Skopje. In Bosnia i Rom vivono nelle periferie delle grandi città come Sarajevo, Mostar, Tuzla, o in piccoli quartieri "ghetto" di altre cittadine come Kakanj, Bihac o Zavidovici. La loro posizione sociale li relega quasi sempre in ruoli alquanto inferiori rispetto al resto della popolazione.
Dopo la guerra i Rom rimasti in Bosnia Erzegovina sono molto pochi. Come ci riferisce Haziri, a Mostar prima della guerra vivevano 120 famiglie (per una media di circa 10 membri per famiglia), mentre oggi ne sono rimaste solo 30. Tra i loro membri quasi nessuno lavora in modo stabile, e nessuno beneficia dell'assistenza sociale. Solo ultimamente l'Ufficio affari sociali di Mostar ha deciso di erogare delle sovvenzioni rivolte ai cittadini Rom disabili (invalidi, cechi ecc.).

Le organizzazioni Rom: deboli e divise

L'organizzazione Rom "Neretva" di Mostar è nata pochi mesi fa, e si è data il compito di rapportarsi con le istituzioni nella ricerca di soluzioni definitive ai problemi che sono emersi ultimamente nella zona. Ma purtroppo le organizzazioni locali di Rom non hanno tra loro rapporti molto buoni, cosa che si ripete anche in altri paesi dell'area. Non esiste un coordinamento nazionale per l'intera Bosnia (ed è anche per questo che non è possibile avere dati certi e aggiornati sul numero dei Rom ancora presenti nel paese), e pare non esserci nemmeno una reale volontà di collaborazione.
Tra le tante organizzazioni Rom oggi presenti sul suolo bosniaco, quelle che hanno i maggiori contatti con la comunità internazionale - e quindi anche maggiore accesso a finanziamenti - sono quelle guidate da Rom con una preparazione universitaria. Ma pare esistere un scollamento tra questi e il resto della comunità Rom, perché incapaci di comprendere la tendenza di gran parte dei propri membri a scegliere il nomadismo come impostazione di vita. E così, il disaccordo tra le varie organizzazioni che radunano i Rom della Bosnia Erzegovina non fa che aggravare la situazione, già di per sé difficile, dell'intera comunità. Forse la storia emblematica di Zarif Ahmetovic e della sua famiglia ha attirato l'attenzione pubblica sulle grandi problematiche di questo popolo, che da sempre ha fatto parte della storia bosniaca. Ma intanto nessuno sa dove sia andata la famiglia Ahmedovic...

La situazione dei Rom in Croazia

25/07/2001 -  Anonymous User

I dati

Secondo dati forniti dalle associazioni dei Rom, in Croazia vivono tra le 60 e le 150 mila persone appartenenti a questa comunità. Il primo dato è confermato anche da una ricerca dell'Istituto per le Ricerche Sociali applicate di Zagabria, coordinata da Maja Stambuk, mentre il secondo emerge dalle dichiarazioni di Nusret Seferovic, presidente del Consiglio delle associazioni Rom croate. Diversi invece sono i dati ufficiali: al censimento effettuato nel 1991 risultava che sul suolo croato vi erano soltanto sei mila cittadini Rom, e secondo le previsioni fatte dal gruppo di ricercatori della Stambuk, dall'ultimo censimento effettuato poco più di un mese fa - i cui dati definitivi verranno resi pubblici nel prossimo autunno - dovrebbe emergere un numero di Rom dichiarati tra le 12 e 18 mila. Numeri molto bassi, se si considera che lo stesso Seferovic indica in 12 mila i rom che vivono nella sola città di Zagabria. Questa vistosa differenza tra i dati reali e le cifre che emergono dai censimenti è da porre in relazione alla tendenza della maggioranza della popolazione rom a dichiararsi "croata" se appartiene alla religione cattolica oppure "bosniaca" se di religione musulmana. Il motivo non è concretamente dimostrabile, ma è verosimile che molti non si dichiarino espressamente "Rom" per paura del razzismo latente - ma a volte anche esplicito - e dei forti pregiudizi che gran parte dei cittadini croati mostrano nei loro confronti. Un esempio? Il portiere della squadra nazionale di calcio medaglia di bronzo ai Campionati Mondiale del 1998, Drazen Ladic, si è sempre dichiarato "croato", e con lui tutti i membri della sua comunità che tutt'oggi vive nella contea di Medjimurje, al confine con Slovenia ed Ungheria, semi-isolata dal vicinato croato.

Le organizzazioni rom

La popolazione Rom si è organizzata in circa 40 organizzazioni non governative, e in un partito chiamato "Partito Rom" il cui presidente è Stevo Djurdjevic, imprenditore di Bjelovar nella Croazia settentrionale. Le 40 organizzazioni si raggruppano in tre associazioni nazionali: l'Associazione delle organizzazioni Rom croate, il cui presidente è Vid Bogdan di Pitomaca presso Koprivnica (Croazia settentrionale), che collabora anche con il Partito Rom e raggruppa le tribù Bajasi, provenienti dalla Romania, e i Rom autoctoni croati sopravvissuti allo sterminio ustascia nel periodo della seconda guerra mondiale. Vi è poi il Consiglio delle associazioni Rom croate del già citato Seferovic, che raggruppa i Rom bosniaci e croati. In ultimo c'è il Consiglio di coordinamento delle associazioni Rom in Croazia, presieduto da Sead Hasanovic Braco di Kozari Bok (un sobborgo di Zagabria), che raggruppa prevalentemente Rom provenienti dalla Macedonia e dal Kosovo.
Le tre associazioni nazionali sono divise tra loro, e questo è uno dei problemi più acuti della comunità Rom. Sono in corso tuttavia degli sforzi per un riavvicinamento, anche se il lavoro è difficile. L'unico personaggio di rilievo che forse potrebbe guidare questa riconciliazione pare essere Veljko Kajtazi, atleta famoso (ex-campione internazionale di jiu jitzu) e professionista molto stimato. Kajtazi si è laureato all'università e oggi lavora come ingegnere elettronico; da lui dipende la riuscita dell'iniziativa di riavvicinamento, perché è l'unico tra i personaggi di rilievo della comunità Rom che non appartiene a nessuna delle tre fazioni concorrenti.
Rispetto ai funzionari di queste associazioni, circa il 90% è attivista di professione, cioè ricava il suo reddito esclusivamente dal lavoro nel settore non governativo. I finanziamenti provengono in primo luogo da donazioni estere, ma anche il governo eroga contributi attraverso l'Ufficio per le minoranze etniche. In particolare poi il Comune di Zagabria sostiene le associazioni Rom nel settore della cultura, dell'assistenza sociale e in misura minore dell'educazione.

Il lavoro e la casa

Circa il 25% della popolazione Rom ha un posto di lavoro fisso, la maggioranza in imprese statali. La manodopera non qualificata lavora nei cantieri navali, soprattutto nel cantiere "3 maj" di Fiume, e nei servizi comunali. Tra i pochissimi che hanno una formazione professionale (tecnici, ecc) la disoccupazione è praticamente inesistente. Kasum Cana, dell'Associazione Bogdan e presidente della sezione di Zagabria della Federazione del Partito Rom, parla addirittura di "discriminazione positiva" in questo contesto (pur statisticamente non significativo). Un altro 20% circa della popolazione è rappresentato da piccoli imprenditori - in particolare nell'ambito del commercio e dei servizi - a conduzione familiare e spesso senza operai dipendenti. Il resto della popolazione (circa il 55%) sopravvive grazie al commercio "in nero" e ad altre attività semi-legali o illegali, e una metà di essa si dichiara disoccupata. Per quanto concerne gli alloggi, il 30% dei Rom vive in case di proprietà, il 10% in appartamenti - in genere modesti - presi in affitto, il restante 60% in baracche e casupole per la maggior parte abusive. La differenziazione sociale nella popolazione Rom è enorme, e non esiste praticamente un ceto medio: i Rom o sono estremamente ricchi, secondo gli stessi criteri di valutazione utilizzati per la maggioranza della popolazione croata, oppure fanno parte della scala sociale più bassa e vivono ai margini della società.

L'educazione e i giovani

Soltanto il 10% dei giovani Rom frequenta la scuola dell'obbligo fino alla fine del corso di studi, che in Croazia dura otto anni. Ancora meno - 6-8% della popolazione giovanile - sono quelli che frequentano un corso di studi medio superiore, e in genere privilegiando gli istituti professionali. Sono rarissimi i Rom che frequentano il liceo e poi proseguono negli studi superiori. L'università è frequentata solo da qualche decina di giovani membri della comunità Rom croata.
D'altronde, il livello di integrazione dei giovani Rom nelle scuole è molto basso, e gli atteggiamenti di discriminazione a volte sono aperti, altre volte molto sottili. La discriminazione si rivolge soprattutto verso i bambini appartenenti al ceto più basso, che spesso hanno grandi difficoltà a esprimersi in lingua croata. Ad eccezione di un'iniziativa privata avviata a Kozari Bok (sobborgo di Zagabria) e in alcuni istituti nella Croazia settentrionale, nelle scuole non è previsto l'insegnamento aggiuntivo della lingua e della cultura Rom.

La condizione sociale dei Rom in Croazia

L'assistenza sociale è relativamente ben organizzata, e non vi sono casi ufficialmente registrati di discriminazioni nei confronti della popolazione Rom in questo settore, anche se va detto che pochi di loro rientrano tra le categorie dei beneficiari ammessi alle sovvenzioni statali. L'assistenza sociale in Croazia, infatti, viene offerta ai disoccupati con più di vent'anni di contributi alle spalle, e solo nei primi dodici mesi di disoccupazione...In alcuni casi le autorità mettono a disposizione delle famiglie Rom un'abitazione popolare, ma questa prassi non è molto seguita nemmeno nei confronti del resto della popolazione. A questo proposito il Sindaco di Zagabria, Milan Bandic, ha espresso l'intenzione di costruire nuove case per i Rom e risolvere così la situazione di coloro che attualmente vivono in casupole illegali. Moltissimi membri della stessa comunità Rom si sono dichiarati però contrari all'iniziativa, perché ciò li metterebbe in un'ulteriore condizione di ghettizzati.
Kasum Cana spiega questo atteggiamento anche con la violenza interna alla popolazione Rom: recentemente si è registrato un caso brutale di stupro di una minorenne di nazionalità Rom commessa da parte di vicini di casa, appartenenti alla stessa nazionalità. Questo ha provocato il rifiuto da parte della famiglia a cui la ragazza appartiene di vivere in prossimità della famiglia dei responsabili della violenza.

I rapporti con il resto della popolazione croata

Ci sono stati dei casi di discriminazione anche pesante nei confronti di cittadini Rom croati, e in particolare sette casi di violenza neonazista tuttora irrisolti tra il 1999 e il 2001. Rispetto a ciò il comportamento della polizia ha mostrato due volti: da un lato solo in un caso recente a Pola gli skinheads responsabili delle violenze sono stati arrestati, e solo per iniziativa della stessa comunità Rom che li ha segnalati alla polizia. "Al contrario - afferma Cana - quando qualche persona di nazionalità Rom commette un reato è subito scoperta ed arrestata". Dall'altro lato però, dopo le gravi aggressioni sempre da parte di skinheads nella scorsa primavera a Zagabria, la polizia ha iniziato a mostrare una certa efficienza. Ora infatti gli skinheads sembrano neutralizzati, e non attaccano più la comunità Rom.
Ciò nonostante, secondo Cana resta inaccettabile ad esempio che non si proceda contro un noto gruppo neonazista responsabile mesi fa di aver picchiato un ragazzo Rom, nel quale "milita" anche il figlio di un generale dell'Esercito croato. Cana sostiene che il Ministero degli interni dovrebbe essere più attivo nel fornire sicurezza alla popolazione Rom, e nell'isolare la destra radicale che minaccia i fondamenti della democrazia e dei diritti umani di tutta la popolazione croata.
Durante l'intervento della NATO in Kosovo, in Croazia è arrivato un gruppo di profughi di nazionalità Rom provenienti da quella regione. Tra loro vi sono una ventina di persone che hanno chiesto e ottenuto lo status di rifugiati, ma nel frattempo hanno già lasciato il paese e ora si trovano accolti in Svizzera. Soltanto uno di loro vive ancora a Zagabria, e riceve un aiuto sociale erogato dal quartiere comunale Maksimir. Recentemente sono arrivati a Zagabria anche alcuni membri della comunità Rom macedone, sistematisi poi presso famiglie di conoscenti o di parenti. Nessuno di loro ha chiesto lo status di rifugiato, in parte perché arrivati in modo illegale - cioè senza aver ottenuto il visto - e in parte perché sperano di avere un futuro nel proprio paese di origine o in occidente. Tutti - racconta ancora Cana - sperano di partire per l'Italia o la Svizzera, perché in Croazia non si può vivere con i soli aiuti umanitari.

Vedi anche:

The CHC Representatives Visit to the Roma Settlements in the County of Medjimurje

Zamir Association

New serbian Government wants to keep its promises

11/07/2001 -  Anonymous User

Before winning the elections in September 2000 Democratic Opposition of Serbia (DOS) promised many things, amongst which fighting against the corruption and crime in all segments of society and penalties for those who have suddenly grown rich over the last ten years.Today, when examining the present Serbian financial situation, everyone can notice that, as Finance Minister Bozidar Djelic said in parliament, "Serbia was a blend of methods of robbing the people, none of which was individually original, but the blend was unique...".
The New Serbian Government is on a way to start fulfilling its' promises.
On 20th June, after five days of debates, the Serbian Parliament has a law sanctioning a one-off tax on extra profit and extra property acquired from the beginning of the Milosevic regime (Danas, 21st June). Djelic' s previously mentioned statement therefore finishes as following "... the blend was unique and the law is therefore unique in legal practice in the world".
This law shall not be levied on those who were directly breaking the law, but on those who were in a position to benefit from the laws which previous regime was adopting to approve its mainly illegal actions. For instance, it was very common to buy foreign currencies by the "official exchange rate" much lower than the real one. This "official exchange rate" existed just for the previous government and their associates. In one period of Milosevic's regime for 1DEM one should have paid about 30 dinars on the street and they (the regime and its associates), at the same time were paying only 6 dinars according to their actually non existing "official exchange rate".
This is not the only example of how this "extreme legalist", as journalist of magazine NIN Tanja Jakobi calls them, misused their functions, robbed various founds, got numerous enormously large flats and houses, etc...

How the law on a one-off tax on extra profits will work?
The progressive rate is going to be from 30 to 90 percent on profit acquired from 1st January 1989 to the day on which the law comes into force. The lower end would tax profit of DEM 100.000 and the higher level would be applied to profit in excess of DM 10 million.
Also the tax will be paid for flats/houses bigger than 90 square metres (here it might be interesting to mention that the Serbian Radical Party suggested the limit to be 200 square metres. However this was rejected). Taxpayers are required to submit their tax forms within 30 days after the law comes into force. Special Government Commission will monitor the whole process while at the same time the part of the Republic Parliament will control its monitoring.
Not much time has lapsed since the Law was brought into the light, and already there are a lot of speculations about who are going to be these taxpayers. Among this guesses there are for instance Bogoljub Karic (called "Braca Karic") who has already found time to comment on the Law on extra profits. It is symptomatic that potential taxpayers, as well Bogoljub Karic speak of this law in the same way. Besides explanations that they are not the one who are going to be obliged to pay the tax, none of them is saying anything directly against it, however they do not miss a chance to give some "advice". Of course not one of them is defending themselves because all of them are waiting to see what are they exactly accused of.
For example Bogoljub Karic, in the Weekly magazine NIN (26th June), is giving examples of companies "Mercedes" and "Fiat" which were working under the fascist regime and were not punished afterwards. "They were even helped by new democratic government" explains one of the brothers Karic.
Djordje Antelj ("NIN", 21st June), Director and owner of the firm "Gemax", first commented on numerous accusations that his firm has been building various things without proper permits by saying that he works for every regime as long as he gets money. After that he said that he finds the Law on extra profits unnecessary because nowhere in the world there are retroactive laws.
Nevertheless it is true that this law is retroactive, however American experts for corruption told that in such an extremist situation something extreme need to be done.

It is actually very amusing to listen to these businessmen and ex-politicians during the rule of the former FRY president Slobodan Milosevic, so very untouchable then and now so full of various explanations and compromises. However people are still very sceptical and due to this scepticism it is plenty enough to mention that many people who were the closest associates of the previous regime joined the new streams of a new democratic government as nothing has happened. Probably the best example of such behaviour is Bogoljub Karic. The BK TV the media house that was reporting the same as RTS did during last ten years, and now it acts like it was all the time the greatest enemy of Milosevic.
The central person in the launching and adoption of Law on extra profits is Serbian Finance Minister Bozidar Djelic. In his interview to the weekly magazine Vreme (21st June) he explained that the Law on extra profits is necessary for people to start to trust again in state institutions, and for everyone to know that no one can act any more as it did in Milosevic's era. He also stated in the Parliament that the money gained by taxing the profits will be used for the poorest among the citizens, who paid have the dearest price during the last ten years.
All in all it is again on citizens to wait hoping that the real bad guys will be punished.

La questione del bilinguismo in Istria e i rapporti con la Croazia

02/07/2001 -  Anonymous User

Il bilinguismo che caratterizzava i ceti borghesi di Zagabria e Osijek, dove le nonne parlavano regolarmente con i nipoti in tedesco, è praticamente scomparso. Ma in Croazia è storicamente presente, e molto vivace, anche un altro bilinguismo: il bilinguismo croato-italiano, nelle regioni dell'Adriatico settentrionale (Istria e Quarnaro). Si tratta di un fenomeno numericamente più vasto dell'entità della comunità italiana: quest'ultima, nel censimento del 1991, conta poco più di ventimila abitanti (i risultati del nuovo censimento saranno pubblicati in autunno); da una ricerca effettuata nel 1996 dal docente di Sociologia dell'Università di Fiume Boris Banovac, risulta che il 7% della popolazione istriana si definisce etnicamente italiana, il 65% si sente croata e circa il 20% si definisce istriana o croato- istriana e sceglie, dunque, un'identità regionale.
In Istria e Quarnaro il bilinguismo è quasi totale.
Nell'ex-Jugoslavia, specialmente nei primi anni dopo la seconda guerra mondiale, c'era una forte pressione sulla minoranza italiana, il cui esito evidente fu l'esodo della maggior parte del gruppo etnico italiano, tra il 1948 e il 1955. Il bilinguismo era emarginato, ma questa operazione non ha avuto successo: Istria e Quarnaro hanno infatti mantenuto carattere bilingue (a differenza di Fiume, dove a seguito della vasta immigrazione il bilinguismo si è perso). Negli anni Settanta e Ottanta non si sono infine più registrati tentativi di emarginazione o abolizione.
Negli anni Novanta, nel periodo della Croazia indipendente governata dall'HDZ (Unione Democratica Croata), in Istria e Quarnaro c'è stato il rifiuto dell'omogeneizzazione nazionale croata: il numero dei voti per l'HDZ corrispondeva più o meno al numero degli immigrati di nazionalità croata. Ma neanche altri partiti con l'aggettivo 'croato' nella denominazione hanno ottenuto un successo di rilievo. L'IDS (Dieta Democratica Istriana), diventato un movimento regionalista, con mutati orientamenti politici e ideali (il presidente Ivan Jakovcic nel 1994 ha definito la linea politica del partito come democratico-cristiana, provocando molti dissensi, specialmente tra coloro che percepivano la propria collocazione a sinistra), deteneva il monopolio quasi assoluto nelle città e nei comuni istriani, così come nella parte quarnerina (Liburnia e isole apsartide) della Contea di Fiume (Contea litorale-goraniana). Molte assemblee comunali erano monopartitiche. Le giunte locali hanno introdotto il bilinguismo ufficiale nelle città dove era presente una minoranza italiana. L'Istria, in termini di popolazione e di strutture politiche dominanti, stava diventando per questo oggetto di attacchi durissimi da parte dell'HDZ (accuse di separatismo, irredentismo, e così via), ma l'IDS ha trovato tra i partiti croati d'opposizione alcuni alleati, in primo luogo l'HSS (Partito Contadino della Croazia), l'HNS (Partito Popolare Croato) e il LS ( Partito Liberale), ed è così diventata nel 2000 una delle componenti della nuova coalizione governativa.
Partecipando al potere centrale, l'IDS si è assunta la responsabilità per l'impotenza (o la lentezza) del nuovo governo, riguardo al superamento della crisi sociale ed economica e, più in generale, riguardo alla mancata modernizzazione del paese e abolizione dell'eredità negativa del periodo precedente. Nel periodo del governo HDZ era relativamente semplice ottenere l'appoggio dell'elettorato: era impossibile per l'autogoverno locale cambiare qualcosa di sostanziale perché tutto (o quasi tutto) dipendeva dalle autorità centrali. Dopo il 3 gennaio (data del crollo dell'HDZ), la situazione è cambiata, ma nella vita quotidiana non c'è traccia di superamento del passato. D'altra parte, alcuni casi di corruzione a livello locale (in primo luogo, il caso Quaranta a Pola) hanno aggravato la posizione dell'IDS. Forse proprio questo spiega non soltanto la decisione dell'IDS di passare all'opposizione, ma anche la decisione di approvare uno Statuto regionale istriano, che producesse dissensi a livello nazionale e mostrasse il vero stato d'animo dominante nel resto del paese. L'intento dell'IDS, con questa mossa, era quello di suscitare appoggio per il partito in difficoltà.
Uno tra gli elementi problematici nello Statuto istriano (su cui si attende la decisione della Corte Costituzionale) riguarda il bilinguismo ufficiale. Secondo lo Statuto, la lingua croata ed italiana sono definite lingue ufficiali, equiparate a livello regionale. Questo significherebbe che l'amministrazione pubblica dovrebbe svolgersi obbligatoriamente in entrambe le lingue. Chi non fosse in grado di scrivere un atto pubblico in italiano, non sarebbe quindi più idoneo a svolgere un servizio pubblico. La verità è che questo colpirebbe soltanto pochissimo personale amministrativo o più precisamente soltanto i nuovi immigrati. C'é un documentario famoso dagli anni Ottanta circolato a Degnano, presso Pola, con il titolo (anche in versione croata!) "Buon giorno, Mujo!" (Mujo è un tipico nome musulmano bosniaco, derivato da Muhamed). Questo mostra che anche gli immigrati bosniaci, macedoni, albanesi, ecc. sono nel corso degli anni diventati bilingue. Una dalle conseguenze dello Statuto sarebbe l'obbligo per la maggioranza croata di imparare l'italiano (attualmente non c'e nessun obbligo e vige la prassi di conoscere o imparare la lingua italiana, non tanto per ragioni di convivenza o intercultura, ma per i contatti commerciali, turistici e professionali (spesso per il lavoro nero oltre frontiera, a Trieste e in Friuli). Anche gli analisti molto favorevoli al regionalismo istriano, come lo scienziato politico Damir Grubisa (Novi list dell'8 giugno) sostengono che l'obbligo sarebbe contestabile. Secondo un funzionario istriano dell'SDP (Partito Social Democratico), Livio Bolkovic, l'applicazione dello Statuto produrrebbe diseguaglianza e discriminazione linguistica tra coloro che soni bilingue e coloro che parlano soltanto croato (in Istria non ci sono italiani, eccetto alcuni anziani, che non siano impadroniti della lingua croata).
Il vertice dell'IDS ha annunciato che nella seduta costituente dell'Assemblea istriana (dove, dopo le elezioni dal 20 maggio, l'IDS ha di nuovo la maggioranza assoluta) saranno precisati alcuni articoli dello Statuto, riguardanti proprio la questione della lingua ufficiale, secondo cui il bilinguismo ufficiale non sarà obbligatorio per le comunità senza minoranza italiana.
In ogni caso, l'intento provocatorio dell'IDS di mettere in luce lo stato d'animo dominante in Croazia ha avuto un successo enorme. Non soltanto la destra radicale (membri e funzionari dell'HDZ e partiti vicini), ma anche personaggi come il centrista Drazen Budisa (HSLS Partito Social Liberale) hanno dimostrato un livello altissimo d'intolleranza. Dice Budisa: "Noi non dobbiamo e non possiamo tollerare la de-croatizzazione dell'Istria. L'Istria non deve continuare ad essere un punto nevralgico del paese. Tutti insieme dobbiamo gridare: basta!" (Feral Tribune del 9 giugno; il cronista Ivica Djikic, che cita Budisa, interpreta la sua affermazione come espressione della paura che tramite il bilinguismo e la demilitarizzazione, l'IDS voglia cedere l'Istria ai "fascisti italiani". Nello stesso senso si esprime anche la presidentessa dell' HSLS in Istria, Jadranka Katarincic Skrlj, deputata in Sabor (Parlamento) grazie alla coalizione governativa, più che al sostegno elettorale istriano. Alcuni politici rilevanti croati non la pensano però così. Il presidente dell'LS e Sindaco di Osijek, Zlatko Kramaric, ha ripetutamente deplorato i metodi usati da Budisa (e anche dal presidente dell'HSS Zlatko Tomcic, ex-alleato dell'IDS) riguardo al bilinguismo e generalmente alla questione istriana. Ha poi dimostrato chiaramente il suo dissenso da Budisa anche Vesna Pusic, leader dell'HNS.
Il nuovo sindaco polese Luciano Delbianco, dissidente dall'IDS e Presidente del partito alternativo regionale IDF, sostiene che, benché non sia d'accordo con la formalizzazione del bilinguismo ufficiale tramite lo Statuto regionale, il bilinguismo è in Istria una cosa quasi naturale e che nessuno deve sentirsi minacciato se parla un'altra lingua. Un altro dissidente dell'IDS, Ivan Pauletta, fondatore storico del partito, pensa però che le vicende concernenti lo Statuto istriano mettano in evidenza un'ignoranza del pubblico politico ed intellettuale croato: secondo lui l'Istria non era italianizzata, ma slavizzata, così come la Dalmazia. La Croazia dovrebbe, secondo Pauletta, seguire alcuni esempi italiani: in Molise la lingua croata, parlata da 2500 persone, è legalmente definita una lingua protetta (intervista speciale sul Feral Tribune del 9 giugno). A Pauletta risponde nel numero seguente del Feral, Nela Rubic, dichiarando la sua approvazione dell'Istria bilingue ("L'Istria parla tutte le lingue, in Istria ciò è naturale e perciò ammirevole"), ma anche un dissenso rispetto al metodo con cui Pauletta legittimerebbe un primato linguistico.
Una reazione tipica arriva dalla caporedattrice del Glas Istre, Eni Ambrozic. Secondo lei le reazioni contro il bilinguismo istriano producono la diffusione d'una opinione maggioritaria in Istria molto sfavorevole a Zagabria, che non è in grado di capire la realtà istriana e di accoglierla. Eni Ambrozic ritiene che nulla sia cambiato nella posizione della maggioranza croata nei confronti dell'Istria, rispetto ai tempi dell'HDZ. Ma ci sono anche voci simili da parte di non-istriani. Due partiti croati (il LS e l'HNS già menzionati) hanno dimostrato che non condividono l'isterismo contro l'Istria in corso nel paese. Ma forse ancora più preziose sono le analisi fatte da alcuni intellettuali di rilievo. Oltre a Grubisa, già citato, vale non dimenticare Nenad Miscevic, filosofo fiumano (ex-professore a Zara, ora ordinario alla Università di Maribor, in Slovenia). Secondo Miscevic (Novi list, del 10 giugno), il problema del bilinguismo è da interpretare come assenza di volontà politica e culturale da parte della Croazia di seguire l'Istria nel processo di europeizzazione. Lo stesso atteggiamento che durante gli anni Ottanta la Jugoslavia aveva nei confronti della Slovenia è ora manifesto nell'atteggiamento della Croazia verso l'Istria. Il modello da seguire consisterebbe invece nell'esempio dell'Alto Adige. Senza una svolta in tale direzione, la Croazia sarebbe come la Romania rispetto al problema della Transilvania.
Ma chi rappresenta la Croazia maggioritaria riguardo al "problema istriano"? Budisa e Tomcic o Kramaric e Miscevic? Non ci sono ricerche empiriche valide. Ma sembra che la maggioranza croata sia assolutamente o quasi assolutamente indifferente e che l'isterismo di Budisa, così come l'europeismo di Miscevic, siano soltanto due opinioni minoritarie, la prima diffusa a misura del nazionalismo croato, la seconda a misura dell'affermazione del valore della multiculturalità nella società e nell'opinione pubblica croata. I futuri sviluppi dipendono dal tipo di contesto culturale, ideologico, politico e sociale che si costituirà nel paese nei prossimi anni.

Istria: terra di brava gente (slogan per le elezioni locali del maggio 2001)

02/07/2001 -  Anonymous User

L'uscita dell'Ids (Dieta democratica istriana) dalla coalizione di governo modifica per la prima volta dopo un anno e mezzo gli equilibri politici in Croazia. I risultati delle elezioni locali di maggio rappresentano il momento di disgregazione e di conflitto più esplicito tra il partito istriano e gli altri membri della coalizione di centro-sinistra.
Articolo di Emilio Cocco.

Montenegro: un viaggio da odissea

01/07/2001 -  Anonymous User

Il viaggio che dal nord Italia ci ha portato in Montenegro è stato qualcosa di catastrofico, con oltre trenta ore tra ritardi, attese e quant'altro. A dire il vero l'odissea è iniziata già al porto di Ancona. Davanti all'ufficio della questura locale ci aspettava una coda interminabile di persone, in attesa del controllo passaporti. Dopo circa mezz'ora di coda la fila si è divisa in due: da un lato i cittadini UE e dall'altro tutti gli altri. Purtroppo non mi sono accorto subito del fatto, e senza farci caso mi sono incolonnato nella fila dei cittadini UE. Mi sono ritrovato davanti al poliziotto, arrogantemente chiuso nel suo gabbiotto, con due passaporti in mano, uno UE (il mio) e uno non UE (di mia moglie). Ha accettato il mio passaporto italiano e ha rimandato mia moglie a rifare un'ora e mezza di coda, facendoci constatare che le difficoltà affrontate negli anni passati per poter viaggiare insieme esistono ancora, e confermando ciò che il Sindaco di Sarajevo aveva dichiarato pochi mesi fa nel suo intervento a "Civitas", sull'esistenza in Europa di cittadini di serie A e cittadini di serie B.
All'arrivo al porto di Bar, dopo un'attesa di circa quattro ore, fermi, immobili, sotto un sole cocente, un uomo in abito bianco - un ufficiale sanitario - ha invita tutti a disinfettarsi le mani e piedi con una sostanza viscosa. Chiediamo spiegazioni, e ci viene risposto che si tratta di una normale profilassi contro alcune forme virali. In particolare si tratterebbe di alcune malattie trasmesse dagli animali, tra le quali ha nominato Afta e altre malattie di cui non ho mai sentito parlare.
Sia alla discesa dalla nave, sia durante il tragitto in macchina verso nord, ho notato che quest'anno la polizia è più tranquilla e permissiva, e lungo la strada non abbiamo trovato alcun posto di blocco. Finalmente, verso le nove di sera siamo arrivati a Kotor. La città era completamente al buio, a causa di un black out che ha lasciato tutti senza energia elettrica per una manciata di ore. Qui ormai la gente non ci bada più di tanto, perché rimanere senza energia elettrica è diventata parte della routine quotidiana. Non va molto meglio nemmeno con l'acqua, che manca regolarmente dalle undici del mattino alle tre del pomeriggio, per poi essere riconcessa fino alle sette di sera e nuovamente tolta fino alla mattina successiva. Ma non ci si deve sorprendere, perché in Montenegro tutto questo fa parte della norma. Anche la situazione dell'agricoltura è pessima a causa della siccità. Non piove da circa due mesi e la vegetazione è completamente secca, grazie al sole che batte feroce portando la temperatura a 40 gradi durante il giorno e di notte non scende mai al di sotto dei 30 gradi.
Tuttavia sembra che la stagione turistica proceda molto bene, erano anni che non si registrava una presenza così alta di turisti, come risulta anche dalle dichiarazioni di uno dei più grandi proprietari alberghieri della zona - Nenad Bjelobrkovic. Molti sono arrivati anche dall'Albania, ed è la prima volta in dieci anni che si vedono numerose automobili con la targa "AL", sigla automobilistica internazionale di quel paese. Anche sulla nave in partenza da Ancona si notava la forte presenza di albanesi - il 90% del totale dei passeggeri - anche se molti di loro possedevano passaporto Jugoslavo. Quasi tutti gli albanesi sbarcati con noi si sono diretti a Ulcinj - città montenegrina al confine con l'Albania - dove c'è una forte presenza della minoranza albanese del Montenegro, da cui si capisce il motivo delle indicazioni bilingue usate dalla maggior parte degli esercizi commerciali.
Secondo dati emersi dalle agenzie turistiche tutti gli alberghi della costa montenegrina hanno raggiunto il pieno grazie anche all'arrivo di turisti dalla Serbia, dalla Bosnia Erzegovina, dall'Ungheria, dalla Cecoslovacchia e dalla Slovenia.

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30/06/2001 -  Anonymous User

A quattro giorni di distanza dalla domenica elettorale in Albania si definisce il quadro dei risultati. La Commissione Centrale Elettorale ha comunicato i seguenti risultati: su cento zone elettorali 30 sono state attribuite al primo turno al PS e 19 al PD, 9 zone non sono ancora definite a quindi si profilano 41 ballottaggi.
Rispetto a questi dati i socialisti si dicono sicuri di vincere ai ballottaggi perché esisterebbe una tradizione che favorisce al secondo turno i vincitori del primo. In secondo luogo i socialisti sostengono che un buon indicatore del risultato del secondo round e' che il PD ha perso zone che tradizionalmente gli appartenevano come Kukes e Shijak.
Il PS ha poi usato frasi sibilline circa la configurazione degli alleati al ballottaggio: se si profila con molta chiarezza un sostegno al PS da parte del Partito Social Democratico, dell'Alleanza Democratica e del Partito per i Diritti Umani, non sembra che il fronte della destra sia compatto. Le affermazioni si riferiscono al Nuovo PD, partito scissionista del PD che si e' affermato come terza forza politica albanese.
Dal canto loro i democratici sembra che contesteranno i risultati solo in alcune zone e che non metteranno in discussione l'intero processo elettorale. A questo proposito le dichiarazioni degli attori della comunità internazionale e degli osservatori dell'OSCE sono chiare: le elezioni albanesi rispettano gli standard dell'OSCE ed inoltre hanno dimostrato un netto progresso verso gli standard internazionali.
in ogni caso il PD ha consegnato a Gustavo Selva e al vice primo Ministro italiano Gianfranco Fini un dossier sulle irregolarità nel processo elettorale a carico del PS. Le dichiarazioni di Fini riportate in calce da Shekuli sono state: "Il governo italiano sta seguendo con attenzione il processo delle elezioni in Albania. La destra e il governo italiano sono decisi a dare pieno sostegno agli albanesi per superare questo momento molto delicato e molto importante per il futuro del paese".
La grossa partita che sembra profilarsi all'ombra del ballottaggio e' rappresentata dalle elezioni del Presidente della repubblica del prossimo anno. Il PD darebbe per scontata la propria sconfitta al ballottaggio e il raggiungimento del 51% da parte del PS che può tranquillamente fare il governo. L'obbiettivo del PD sarebbe a questo punto quello di ottenere il più alto numero di seggi possibile in modo da impedire agli avversari di raggiungere da soli la quota necessaria per poter eleggere il Presidente della Repubblica ossia la maggioranza dei 3/5. Il PD necessita di 55 deputati, con essi potrebbe bloccare per 4 votazioni successive l'elezione del Presidente e ciò comporterebbe per legge il ricorso ad elezioni anticipate.
E' proprio dietro questa partita che si staglia il ruolo del Nuovo PD. Questo partito dichiara apertamente di non aver deciso ancora chi sostenere l'8 Luglio ai ballottaggi e non e' detto che i loro voti non diventino preziosi al PS per le elezioni del Presidente.
Il complesso meccanismo elettorale ed in particolare l'attribuzione di seggi al proporzionale, che favorisce i partiti che hanno avuto meno voti al maggioritario, potrebbe favorire i disegni del PD.
Il Nuovo PD per il momento prende le distanze da Nano e Berisha e comunque si schiera all'opposizione di un governo socialista.


Ernesto Bafile - country coordinator ICS - Albania
© ICS - Osservatorio sui Balcani

Articolo

30/06/2001 -  Anonymous User

Il 28 giugno è una data particolare per la Jugoslavia. La storia attraverso i secoli ormai ce lo ha insegnato. Si tratta di "Vidovdan", il giorno di San Vito. Joze Pirjevec ha perfino intitolato un suo libro: "Il giorno di San Vito".
Cosa è accaduto nel fatidico giorno che riecheggia nelle canzoni popolari e che ha influenzato buona parte delle narrazioni epiche della cultura serba?
La prima data storica cui, con ogni probabilità, rimanda Vidovdan è il 28 giugno 1389 giorno della celeberrima battaglia di Kosovo Polje, dove la leggenda serba narra dell'uccisione del Principe Lazar, divenuto in seguito santo, da parte delle forze ottomane. Iniziò allora l'ascesa celeste del popolo serbo e da lì il Kosovo iniziò a far parlare di sé. Tuttavia la storia ci insegna ancora di più: il 28 giugno 1914 Gavrilo Princip, facente parte del gruppo Mlada Bosna, uccise a Sarejevo l'Arciduca Francesco Ferdinado e sua moglie, dando il via alla prima guerra mondiale. In tempi più recenti, il 28 giugno 1989, Slobodan Milosevic parlò ad una folla di un milione di persone riunite a Kosovo Polje, per la commemorazione del seicentenario della battaglia della Piana dei merli, annunciando che mai più nessuno avrebbe sollevato una mano contro il popolo serbo. Il 1989 fu l'anno in cui iniziò la disintegrazione della Jugoslavia di Tito e l'anno in cui ci furono parecchie proteste da parte della popolazione albanese per una indipendenza del Kosovo, purtroppo però finirono con la revoca dell'autonomia che gli era stata concessa da Tito nel 1974.
La storia jugoslava, che è sempre foriera di sorprese, segna infine il 28 giugno 2001 la data della consegna di Slobodan Milosevic al Tribunale Internazionale dell'Aja. Non scevro da polemiche e imminenti crisi tra i partiti di governo, quest'ultimo evento verrà impresso ben in evidenza nelle pagine della storia della Jugoslavia.
Che tutto ciò sia frutto di semplici coincidenze storiche o di logiche politiche mirate lasciamo che siano gli analisti a sentenziarlo, noi abbiamo solo voluto segnalare il ripetersi attraverso la storia di una data, il 28 giugno appunto, in cui ci si potrà forse anche in futuro aspettare qualcosa.

I Rom tra Albanesi e Macedoni

30/06/2001 -  Anonymous User

Lo scontro tra le due principali comunità nazionali schiaccia, e quasi fa sparire, così come era accaduto già due anni fa in Kosovo, gli altri gruppi etnici presenti sul territorio. Tra questi i Rom. La loro presenza nella regione è antica e, preciso onde evitare equivoci e romanticismi nomadici, stanziale. Salvo ovviamente gli spostamenti legati a conflitti, persecuzioni e ricerca di lavoro. Le statistiche ufficiali non offrono dati attendibili sulla consistenza numerica di questo gruppo etnico.

Fonte: Nando Sigona © KATER;