08/02/2008 -
Anonymous User
Il Memoriale di Kozara (foto A. Rossini)
Per decenni, in tutta Europa, si è commemorato il secondo conflitto mondiale per scongiurare il ritorno della guerra. Al fine di garantire una pace duratura fu intrapreso il progetto di integrazione politica che oggi conosciamo come Unione Europea. Di fronte al crollo dei regimi comunisti, tale progetto, anziché ampliarsi all'Europa orientale che ne era rimasta esclusa durante la Guerra Fredda, ha subito una drammatica battuta d'arresto con la distruzione della Jugoslavia.
Cancellando l'illusione del "mai più" alla guerra e al genocidio in Europa, la parabola jugoslava ci ha mostrato come proprio la memoria della guerra possa essere usata per preparare il terreno ad una nuova carneficina. Partendo da questa constatazione, con "Il cerchio del ricordo" Osservatorio sui Balcani si è interrogato sulle politiche della memoria e sul bisogno di luoghi ed occasioni per elaborare i conflitti in Europa.
Nata dalle ceneri della guerra di liberazione dai nazi-fascisti e dalla guerra civile che era costata la vita a circa un milione di persone, la Jugoslavia di Tito aveva assegnato grande importanza alle commemorazioni della Seconda Guerra Mondiale investendo molte energie politiche e intellettuali nella costruzione di migliaia di monumenti ed aree memoriali in tutto il Paese.
Dalla fine degli anni '50 un gruppo di giovani e promettenti architetti e scultori viene coinvolto nella ideazione di alcuni dei più importanti memoriali della Seconda Guerra Mondiale. Liberi dai dogmi dell'estetica stalinista, artisti del calibro di Dušan Dzvamonja, Bogdan Bodganović e Miodrag Zivković realizzano straordinari monumenti che con il tempo divengono anche luoghi della memoria del comunismo che li ha eretti. Due generazioni di cittadini jugoslavi, infatti, visitano Sutjeska, Kozara e Jasenovac e lì apprendono i fondamenti dell'epopea partigiana e del grande progetto di costruzione di una società comunista.
Nello sforzo di lasciarsi alle spalle la tragedia della guerra che aveva distrutto la convivenza civile, il regime di Tito aveva improntato la ricostruzione del Paese attorno allo slogan della "fratellanza ed unità", suggerendo l'idea che i comunisti fossero i soli in grado di superare le lacerazioni prodotte da imperialisti stranieri e "traditori interni" appartenenti a tutti i gruppi etnici.
Tuttavia, la storiografia ufficiale, tesa a sottolineare l'equilibrio etnico tra vittime e carnefici in alcuni luoghi, mal si conciliava con la memoria storica locale. A Jasenovac, uno dei maggiori campi di sterminio in Europa, le vittime degli ustascia croati erano stati sì ebrei, rom ed oppositori politici, ma soprattutto serbi. Dopo aver a lungo esitato su cosa fare, sotto la pressione dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime, Tito decise l'istituzione di un'Area Memoriale al cui centro venne posto il "fiore" di Bodganovic´, simbolo di riconciliazione, del bisogno di memoria ma anche di oblio.
Subordinata al bisogno di legittimazione del regime, la storiografia jugoslava aveva inoltre taciuto sulle violenze commesse anche da parte dei partigiani durante la guerra. La narrazione ufficiale presentava solo coraggiosi eroi della patria e crudeli nemici sulle cui atrocità venivano istruite generazioni di visitatori dei musei della guerra.
All'assenza di compassione per gli sconfitti si accompagnava anche il mancato ripudio della guerra stessa. Mentre nelle opinioni pubbliche occidentali trovava crescente spazio la denuncia della sua assurdità, ad est la guerra continuava ad essere esaltata.
Quando la crisi del sistema comunista divenne irreversibile, le memorie degli sconfitti tornarono sulla scena e, con esse, i soggetti politici che si proponevano come loro paladini. A partire dagli anni '80, le nuove classi dirigenti, determinate a spartirsi il Paese, ebbero gioco facile nel mettere in discussione la lacunosa storiografia ufficiale per crescere il risentimento per i torti subiti in passato o alimentare la paura del ripetersi della storia. La società civile, in balia della manipolazione politico-mediatica, da parte sua, non ebbe forza sufficiente per opporsi alla deriva nazionalista.
Il documentario propone dunque una riflessione sul ruolo del regime comunista nell'impedire la maturazione politica delle due generazioni jugoslave cresciute in tempo di pace. A queste ultime, infatti, ci ricorda Rada Iveković, non fu concesso di elaborare uno sguardo autonomo sul passato e, senza strumenti critici a disposizione, esse finirono per accettare identità pre-definite e potenzialmente omicide.
Emerge chiaramente il problema dello scellerato uso pubblico della storia da parte delle nuove classi dirigenti ex-jugoslave. Impedendo la democratizzazione della sfera pubblica, in buona parte delle Repubbliche nate dalla dissoluzione della Jugoslavia la guerra ha sostituito il sistema autoritario della "fratellanza ed unità".
L'indagine condotta con il documentario si sofferma quindi sulla riscrittura della storia avvenuta durante e dopo la guerra. Migliaia di strade cambiano nome e nuovi monumenti vengono eretti dopo avere demolito o abbandonato all'incuria quelli costruiti in ricordo della Seconda Guerra Mondiale. La furia distruttrice dei simboli del passato a Mostar interessa persino i simboli del governo ottomano.
Accanto alla crescente tentazione di dimenticare le responsabilità per le guerre degli anni '90, nei Balcani di oggi emergono spinte importanti a trovare un diverso modo di rapportarsi al passato ed a costruire nuovi luoghi della memoria. L'esperienza del secondo dopoguerra spinge alcuni a concentrarsi sulla raccolta di dati su cui ricostruire una verità storica al riparo da manipolazioni ideologiche. Altri lottano per ottenere un luogo dove seppellire i propri morti ed elaborare il lutto della violenza subita richiamando la comunità internazionale alle sue responsabilità.
Il bisogno di commemorare si accompagna al desiderio che nessuno debba più subire la violenza di cui si è stati vittime. Tuttavia, nei Balcani come nel resto del mondo, per evitare di coltivare nuove illusioni serve una cultura politica determinata a ripudiare la guerra come strumento di risoluzione delle contese nazionali ed internazionali.
Infine, come ci ricorda il grande studioso Zvetan Todorov, dopo la Prima Guerra Mondiale la ripetizione ossessiva del "mai più" non impedì lo scoppiare della Seconda. Analogamente, l'esperienza del secondo conflitto mondiale non ha risparmiato all'Europa le guerre degli anni '90. È fondamentale quindi evitare che le commemorazioni del passato divengano una scusa per l'inazione o ci portino ad ignorare le sfide del presente.