© GagoDesign/Shutterstock

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Il Montenegro continua a non riconoscere il diritto di asilo a molti attivisti per i diritti umani che cercano protezione nel paese: ad essere svantaggiati sono soprattutto richiedenti asilo dall'area ex-sovietica: Bielorussia, Russia e Kazakistan

31/03/2025 -  Jovo Martinović

(Originariamente pubblicato da CIN-CG)

Nel periodo compreso tra il 2019 e il 2023, il Montenegro ha riconosciuto la protezione internazionale a cinquantuno stranieri. La nazionalità più rappresentata è quella russa (diciannove). Si tratta perlopiù di persone agiate.

Allo stesso tempo, il diritto di asilo viene negato a molti attivisti per i diritti umani e altri rifugiati che cercano protezione nel paese.

Alcuni di loro, intervistati dal Centro per il giornalismo investigativo del Montenegro (CIN-CG), affermano di aver sperimentato un clima di palese ostilità, alimentato da alcuni esponenti della leadership montenegrina, che non risparmia elogi per Aleksandr Lukašenko e Vladimir Putin.

Quando, nel 2024, ha presentato richiesta di protezione internazionale in Montenegro - temendo di essere perseguitato per motivi politici in Bielorussia -, V. I. (nome intero noto alla redazione) aveva un’immagine rosea del paese balcanico, membro della NATO e candidato all’adesione all’UE.

Un’immagine ben presto spazzata via da Radovan Popović, l’ormai ex viceministro dell’Interno, attualmente a capo della Direzione per gli affari amministrativi, cittadinanza e stranieri.

Con un provvedimento emesso il 5 giugno 2024, Popović ha respinto la richiesta presentata dal cittadino bielorusso perché, come si legge nel documento, “non sussiste il fondato timore di persecuzione nel paese di origine”. La decisione è stata confermata dal Tribunale amministrativo del Montenegro che, con la sentenza del 16 gennaio 2025, ha respinto il ricorso contro il diniego disposto da Popović.

V. I. ha ricevuto la notifica del provvedimento di diniego definitivo a fine febbraio con l’ordine di lasciare il territorio del Montenegro entro quindici giorni.

V. I. insieme alla sua famiglia era arrivato in Montenegro alla fine del 2020, avviando un’attività in proprio con un regolare permesso di soggiorno. Tuttavia, con lo scoppio della pandemia da Covid 19 si era trovato costretto a ritornare in Bielorussia per risolvere alcuni problemi legati all’azienda che gestiva nel suo paese.

Pur essendo riuscito a rimettere in piedi la sua attività, nella primavera del 2023 sono emerse ulteriori difficoltà. Dopo un primo accertamento fiscale, la sua azienda è stata sottoposta a diversi controlli. La banca gli ha improvvisamente revocato il credito senza alcuna spiegazione.

Ha saputo da un amico dell’intelligence bielorussa (la Bielorussia ha mantenuto il nome sovietico KGB) che la causa dei suoi improvvisi problemi era un video di venti minuti che aveva pubblicato su YouTube nell’agosto 2020 e di cui si era ormai dimenticato.

V. I. aveva girato quel video durante le grandi proteste scoppiate dopo le elezioni presidenziali rubate del 2020, appoggiando pubblicamente “quelli che lottano per la Bielorussia libera e per la democrazia”.

Nel video V. I. afferma che “le proteste sono state represse nel sangue da Lukašenko” e che “il popolo deve rispondere allo stesso modo”.

Nel luglio 2023 ha ricevuto una telefonata dal KGB con l’invito a presentarsi ad un colloquio. I servizi segreti non hanno voluto rivelare il motivo della convocazione che, secondo V. I., sicuramente sarebbe finita male.

Quindi, ha subito acquistato un biglietto per Istanbul con l’intenzione di fuggire in Montenegro passando per la Turchia, lasciando a Minsk il suo cellulare temendo che il KGB potesse monitorare i suoi movimenti. Successivamente, è venuto a sapere dai vicini che la polizia era venuta a casa sua a cercarlo. Sua moglie, contattata dagli agenti, ha affermato che non stavano più insieme e che V. I. era partito per la Russia.

Le torture, ampiamente documentate, subite da dissidenti e critici di Lukašenko, che ha messo dietro le sbarre circa 1300 oppositori politici, non sono bastate a convincere il ministero dell’Interno montenegrino che V. I. fosse in pericolo.

Radovan Popović e il collegio giudicante del Tribunale amministrativo di Podgorica (presieduto dalla giudice Tatjana Krpović) hanno concluso che il fatto che V. I. abbia paura di tornare in Bielorussia “non è un motivo sufficiente” per il riconoscimento dello status di rifugiato perché “manca l’elemento della persecuzione”.

Le autorità montenegrine ritengono che V. I. abbia dovuto chiedere asilo nel primo paese di transito, ossia in Turchia, ignorando il fatto che la famiglia del richiedente già da tempo viveva in Montenegro con un regolare permesso di soggiorno.

“Nonostante in Bielorussia si verifichino alcune violazioni dei diritti umani – si legge nella sentenza – il ministero dell’Interno ha stabilito che V. I. può tranquillamente tornare nel suo paese di origine e che al rientro la sua vita, la sua libertà e la sua sicurezza non saranno minacciate”.

Per le autorità montenegrine, la Bielorussia è un paese “economicamente sviluppato”. Popović ha elogiato Minsk per aver accolto 2.915 rifugiati sotto il mandato dell’UNHCR, 143 richiedenti asilo e oltre seimila apolidi, lodando anche la lotta del regime di Lukašenko contro la tratta di esseri umani.

Il ministero dell’Interno montenegrino ha preso una decisione analoga nel caso del cittadino russo N. T., la cui richiesta di protezione internazionale è stata respinta con un provvedimento emesso il primo settembre 2023. Questo giovane russo aveva chiesto asilo in Montenegro citando le difficoltà incontrate a causa della sua omosessualità e il timore di essere mobilitato e mandato al fronte.

Il ministero, senza aver valutato in modo approfondito la fondatezza della richiesta, ha motivato il diniego con frasi fatte, citando la Costituzione della Federazione russa che garantisce “il diritto alla dignità personale” e prevede che “nessuno possa essere sottoposto a torture, violenze e umiliazioni”.

“I cittadini della Russia – afferma il ministero – hanno il diritto di partecipare alla vita politica e al governo dello stato e di eleggere liberamente i propri rappresentanti”.

Decine di migliaia di cittadini russi, vittime di processi montati, torture e aggressioni fisiche, in patria e all’estero, orchestrate dal regime di Putin, la pensano diversamente.

Un altro caso paradigmatico è quello di Dinara Botayevna Smailova, attivista kazaka per i diritti umani, e di suo marito Almat Mukamedzhanov. La coppia non è ancora riuscita ad ottenere asilo in Montenegro.

Almat e Dinara (meglio nota come Dina Tansari) spiegano di aver sperato di trovare in Montenegro un rifugio.

“Il Montenegro è un paese membro della NATO e candidato all’adesione all’Unione europea, quindi pensavamo che saremmo stati protetti dalla persecuzione politica”.

Sono arrivati in Montenegro l’8 ottobre 2023, presentando subito la richiesta di protezione internazionale. Una settimana dopo, il 16 ottobre, le autorità kazake hanno avviato un nuovo procedimento penale contro Smailova (fino ad allora già sottoposta a cinque processi).

Il procuratore della città di Ust-Kamenogorsk ha accusato Smailova di aver commesso una “frode estremamente grave su larga scala” ai sensi dell’articolo 190 del Codice penale del Kazakistan. In un primo momento il procuratore non ha presentato le testimonianze delle presunte vittime, fornendo una copia delle dichiarazioni solo successivamente, alla fine di novembre.

Smailova è accusata di non aver segnalato le donazioni volontarie effettuate da sei persone per un totale di 23.000 tenge (44 euro). Nonostante le obiezioni della sua avvocata, Anara Kusainova, secondo cui la donazione di 44 euro non è soggetta a responsabilità penale o di altro tipo ai sensi dell’articolo 3 del Codice penale, nei confronti di Smailova è stato spiccato prima un mandato di arresto nazionale e poi, il 27 dicembre 2023, anche un mandato internazionale.

La condizione del marito di Smailova resta poco chiara. Secondo le informazioni disponibili, l’Interpol si sarebbe opposta al tentativo di emettere un mandato di arresto internazionale nei suoi confronti.

Nel luglio 2016 Dinara Smailova aveva rivelato sulla sua pagina Facebook di essere sopravvissuta ad uno stupro di gruppo, affermando di non avere alcuna intenzione di tacere su questo argomento, né sulla violenza diffusa contro le donne e i bambini in Kazakistan.

L’attivista aveva invitato le donne a parlare pubblicamente della violenza di genere. Nell’aprile 2017, Dinara e suo marito avevano lanciato una linea telefonica di assistenza per le vittime di violenza domestica e sessuale, fondando anche un movimento contro la violenza, “NeMolchi.KZ” [nessun silenzio].

Alla fine del 2019, grazie alle attività della fondazione e alle pressioni internazionali, il Kazakistan ha adottato una legge che prevedere sanzioni più severe per i reati di stupro e altre forme di violenza sessuale. Contemporaneamente è stata adottata anche una normativa più stringente in materia di prevenzione della violenza domestica e sessuale.

Nel 2018 Phumzile Mlambo-Ngcuka, direttrice di UN Women, ha conferito a Dinara Smailova un riconoscimento riservato alle “donne che hanno cambiato il mondo”. Nell’aprile 2020 Smailova è stata definita una delle cinque principali attiviste mondiali nella lotta contro il Covid.

Le relatrici speciali dell’Onu Mary Lawlor e Dorothy Estrada Tanck (presidente del gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla discriminazione contro le donne e le ragazze) hanno avvertito il Montenegro che il governo kazako negli ultimi sette anni ha sviluppato “un meccanismo di persecuzione e maltrattamento di Smailova”.

L’Onu ha invitato le autorità montenegrine a prendere in considerazione “i rischi a cui [Smailova] sarebbe esposta come attivista per i diritti umani se tornasse nel suo paese di origine”. Oltre all’ONU e altre organizzazioni internazionali per i diritti umani, anche molti media – come AP, RFE, BBC e Washington Post – seguono il caso dell’attivista kazaka.

In una lettera inviata al governo di Podgorica, Mary Lawlor ha spiegato che grazie a Smailova e alla sua fondazione NeMolchi.KZ sono state fornite oltre 35mila consulenze gratuite tramite un servizio telefonico sempre disponibile, mentre oltre 2.500 donne hanno ricevuto assistenza legale e sociale.

L’impegno di Smailova e Mukamedzhanov contro la violenza ha portato alla condanna di 240 stupratori. Inoltre, finora sono stati condannati dieci agenti di polizia per negligenza e omissione.

L’attivismo di Smailova non è visto di buon occhio dalle autorità autocratiche del Kazakistan, vicine al Cremlino. “Tra i membri della leadership al potere ci sono pedofili, stupratori e persone violente a cui non piace quello che facciamo, anche se non siamo politicamente schierati”, spiega Mukamedzhanov.

I problemi sono iniziati dopo che Smailova è stata invitata a intervenire alla 72° sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 21 settembre 2017. Dal podio dell’Onu a New York, dove l’attivista ha invitato le donne dell’Asia centrale “a non vergognarsi di parlare e di chiedere che i responsabili vengano perseguiti”.

Poco dopo il suo discorso, le autorità di Almaty, in Kazakistan, hanno convocato una conferenza stampa accusando l’attivista di aver divulgato informazioni riservate su donne vittime di violenza sessuale che si erano rivolte alla fondazione NeMolchi.KZ.

Con la scusa di difendere la reputazione dello stato, le organizzazioni non governative “patriottiche” hanno lanciato una campagna denigratoria contro Smailova e la sua fondazione, minacciando chiunque osasse parlare pubblicamente di violenza, omicidi e impunità.

In Montenegro, Smailova e suo marito non sono stati accolti a braccia aperte. Anche le organizzazioni montenegrine che si occupano della difesa dei diritti umani, in particolare di quelli delle donne vittime di violenza domestica, non si sono dimostrate pronte ad aiutare gli attivisti kazaki.

Il 24 aprile 2024, il ministero dell’Interno montenegrino ha informato i coniugi di non poter prendere una decisione sulla loro richiesta di protezione internazionale, presentata il 26 ottobre 2023, entro il termine di sei mesi stabilito dalla legge.

Il ministero ha motivato la sua decisione col fatto che l’esame della richiesta implica “la valutazione di una situazione complicata, ossia la necessità di fare chiarezza su alcune questioni legali complesse”. Quindi, il ministero ha prorogato di nove mesi il termine per prendere una decisione, affermando che avrebbe fornito una risposta definitiva agli attivisti entro il 26 gennaio 2025. La risposta non è ancora arrivata.

Ad aggravare ulteriormente la situazione sono le minacce a cui Smailova e suo marito sono esposti, nell’estate 2024 gli attivisti si sono accorti di essere pedinati. Allo stesso tempo, hanno iniziato a ricevere messaggi, nella loro lingua e in russo, in cui si diceva che erano stati localizzati e che non se la sarebbero cavata.

Rispondendo ai ripetuti appelli dell’Onu e del Consiglio per il controllo civile della polizia – che hanno invitato le autorità montenegrine a garantire la sicurezza degli attivisti kazaki in attesa di una decisione sulla loro richiesta di protezione internazionale – il 24 ottobre 2024 Danilo Šaranović, ministro dell’Interno, si è limitato a ribadire quanto affermato nella precedente lettera del ministero, secondo cui la scadenza per decidere sul caso sarebbe stata prorogata “per chiarire le questioni legali complesse”.

Quanto ai pedinamenti e alle minacce subite da Smailova e suo marito, il ministro Šaranović ha fatto sapere che “la direzione della polizia ne è a conoscenza”. Gli attivisti però affermano che nessuno li ha mai contattati in merito alle minacce denunciate.

Il caso del giornalista e attivista kazako Aidos Sadikov, assassinato a Kyiv all’inizio di luglio 2024, dimostra che simili minacce sono tutt’altro che innocue. I familiari di Sadikov hanno accusato il presidente del Kazakistan Qasym-Jomart Toqayev di aver ordinato l’omicidio.

URL: www.balcanicaucaso.org/eng/Areas/Montenegro/Montenegro-richiedenti-asilo-tra-ostilita-istituzionale-e-pregiudizi-236984