I lavoratori della Turchia sono tornati a celebrare il primo maggio nella piazza Taksim, a Istanbul. E' la prima volta dopo che nel 1977 scontri di piazza provocarono la morte di 36 persone. Nella stessa piazza, qualche giorno prima, sempre per la prima volta, si è commemorato il Giorno della memoria armeno
Nelle ultime settimane la centralissima Taksim a Istanbul è stata teatro di due eventi dalla portata storica. Il 24 aprile centinaia di persone rispondendo all’appello di un gruppo di intellettuali liberali hanno commemorato la “grande catastrofe” armena del 1915. Il primo maggio invece, sono stati i lavoratori a riempire una piazza che gli era stata vietata dal 1977, quando cecchini appostati intorno alla piazza uccisero trentasei manifestanti in circostanze ancora da chiarire.
Secondo i sindacati più di 500 mila persone hanno partecipato a una grande festa di piazza dove a fianco dei lavoratori hanno marciato attivisti della società civile e militanti di tutti i partiti della sinistra turca, dai kemalisti del Partito Repubblicano del Popolo, alle formazioni marxiste-leniniste radicali, passando per il Partito della Solidarietà e della Libertà e per i curdi del Partito della Pace e della Solidarietà. Un clima ben diverso rispetto a 33 anni prima quando la festa dei lavoratori si trasformò in quello che in Turchia è ricordato come il “Primo Maggio di sangue”.
La fine degli anni settanta furono per la Turchia anni convulsi, come ormai riconosciuto da molti storici in Turchia e denunciato da sempre dalla sinistra, il governo, lo “stato profondo” e i militari servendosi di gruppi neofascisti di tipo paramilitare intendevano stroncare il movimento sindacale che nato all’inizio degli anni settanta si andava sempre più rafforzando insieme alla sinistra extraparlamentare.
Il primo maggio 1977, alle diciotto, dopo l’intervento di Kemal Türkler segretario della DİSK (Confederazione Rivoluzionaria dei Sindacati dei Lavoratori, in turco) dagli edifici intorno alla piazza cecchini iniziarono a sparare sulle centinaia di migliaia di persone che stavano partecipando alla manifestazione, la folla impazzita cominciò a scappare in diverse direzioni, molti morirono schiacciati nella calca. La polizia attaccò i manifestanti in fuga e panzer entrarono nella piazza. Dopo il massacro furono arrestate 470 persone, ma nei giorni successivi vennero tutte rilasciate. Nessuno è stato processato per l’accaduto e i cecchini non sono mai stati trovati. L’unico fatto certo è che 36 persone furono uccise e 140 rimasero ferite. Per la sinistra turca invece non c’erano dubbi, un’organizzazione nota come “contro-guerriglia” creata dal governo di Süleyman Demirel con la collaborazione della CIA per contrastare l’influenza della sinistra marxista nel paese era responsabile del massacro.
Dal “primo maggio di sangue” ai lavoratori è vietato celebrare la festa del lavoro a Taksim, ufficialmente per questioni di sicurezza. Dal 2006 però i sindacati lottano per poter tornare in quella piazza per commemorare le vittime della strage. Gli anni scorsi il tentativo da parte dei lavoratori di raggiungere Taksim nonostante il divieto è risultato in violenti scontri con la polizia. Quest’anno però il prefetto di Istanbul Muammer Güler ha autorizzato la manifestazione.
Come scrive ironicamente Filiz Koçalı editorialista del quotidiano pro-curdo Günlük: “Nel 2007 siamo riusciti per la prima volta ad entrare a Taksim, nel 2008 ci siamo andati vicini, nel 2009 abbiamo di nuovo raggiunto la piazza. Quando dico 'noi' mi riferisco alla 'fortunata minoranza' che è riuscita ad entrare nella piazza tra i gas lacrimogeni e le manganellate. Con gli occhi che bruciano, senza riuscire a respirare, mentre lanciavano i lacrimogeni persino dentro gli ospedali entrare a Taksim è stata comunque una gioia. Ma quest’anno finalmente siamo riusciti a festeggiare il primo maggio senza manganellate né lacrimogeni”.
Il premier Tayyip Erdoğan il 3 maggio in un discorso in parlamento ha ribadito che l’autorizzazione è arrivata solo grazie alla volontà del governo, la mobilitazione dei sindacati degli scorsi anni non c'entrano, "siamo stati noi a concedere la piazza, nessuno ci ha costretti a farlo, se avessero avuto la forza di costringerci perché non l’hanno fatto prima?”. Pronta la risposta, in una conferenza stampa, di Süleyman Çelebi, segretario della DİSK: “lo dico senza esitazione, piazza Taksim è stata conquistata grazie a una grande lotta, il primo ministro con queste dichiarazioni sta solo tentando di strumentalizzare questa vittoria.”
Come avvenuto per le celebrazioni del primo maggio, l’equilibrismo politico del governo Erdoğan è evidente. Da una parte gli islamisti moderati si propongono come gli unici in grado di procedere nel processo di democratizzazione concedendo sempre maggiori diritti sociali e civili e lavorando per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con i paesi vicini, dall’altra però non vogliono scontentare l’opinione pubblica più sensibile agli slogan nazionalisti.
Esempio evidente di questo equilibrismo è la posizione della Turchia nel processo di riavvicinamento con l’Armenia. Il parlamento turco ha già ratificato i protocolli per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche firmati a Zurigo dai ministri degli Esteri dei rispettivi paesi lo scorso ottobre e ora chiede all’Armenia di fare altrettanto. Allo stesso tempo però Erdoğan continua a difendere con forza la posizione ufficiale turca riguardo ai fatti del 1915. Ultimo caso eclatante di questo approccio si è verificato prima del discorso del presidente americano Obama il 24 aprile, giornata nella quale in tutto il mondo si ricorda il genocidio armeno. Le autorità turche hanno minacciato il governo americano di ritirare l’ambasciatore a Washington, come era già avvenuto il quattro marzo, quando la commissione esteri del senato americano aveva votato una risoluzione dove si definiva il massacro degli armeni del 1915, un genocidio. Obama, quindi, per evitare di irritare un alleato strategico, ha evitato di usare il termine “genocidio” nel suo discorso parlando invece di “grande catastrofe”.
In Turchia però si fa sempre più forte il fronte di intellettuali, artisti e storici che violando il tabù della storiografia ufficiale parla di responsabilità turche e di massacro organizzato. Il 24 aprile per la prima volta dopo il 1916, centinaia di persone hanno commemorato anche in Turchia le vittime del genocidio. Novantaquattro anni prima 220 intellettuali, artisti e leader della comunità armena vennero arrestati ad Istanbul e deportati. Era il prologo di un massacro che privò la Turchia di una delle sue comunità più importanti e radicate.
Il primo maggio e il 24 aprile sono stati depositati sull’asfalto di piazza Taksim garofani rossi per ricordare le vittime innocenti di due massacri che sono ferite ancora aperte nella storia turca. Fino ad oggi in Turchia si è cercato di rimarginarle dimenticando i morti e negando i fatti. Quest’anno però due dei più grandi tabù turchi sono stati violati. E a farlo è stata quella parte sempre più grossa della società turca che è stanca del nazionalismo. L’anno prossimo capiremo se si è trattato solo di episodi isolati oppure dell’inizio di un percorso.
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