
Una scena del film "Il ragazzo della Drina"
Un documentario che racconta un ritorno: quello di Irvin Mujcić, il "ragazzo della Drina" che, cresciuto in Italia decide di rientrare a Srebrenica, dove è nato e dove suo padre venne ucciso. “Tornare ti mette di fronte al trauma: finché non si fa questo passaggio, è impossibile andare oltre”
Tra pochi mesi, l’11 luglio, cadrà il 30° anniversario del massacro di Srebrenica, quando più di ottomila musulmani bosniaci furono assassinati dai soldati serbo-bosniaci agli ordini del generale Ratko Mladić. Crimine che la Corte internazionale di giustizia ha definito come genocidio.
È il tema del documentario svizzero “Il ragazzo della Drina” di Zijad Ibrahimović, nato in Bosnia e cresciuto in Canton Ticino, presentato alle recenti 60° Giornate cinematografiche di Soletta, tra le sei opere in concorso per il Premio Soletta. Il film, prodotto da Rough Cat di Nicola Bernasconi con il sostegno della Rsi, non ha ancora una distribuzione festivaliera all’estero, ma sarà distribuito nelle sale svizzere da Noha Film.
Il “ragazzo” del titolo è Irvin Mujcić,il cui padre fu ucciso quel giorno e il suo cadavere non è mai stato ritrovato. La moglie e figli piccoli avevano lasciato la città della Bosnia orientale nell’aprile 1992, poco prima che cadesse nelle mani degli aggressori, mentre l’uomo era restato nella loro casa e diventato interprete per i caschi blu olandesi.
È la stessa occupazione di Aida protagonista dell’ottimo “Quo vadis, Aida” di Jasmila Žbanić, che nel 2020 raccontò bene i fatti. La location principale di quella pellicola era costituita dal capannone industriale di Potočari nel quale i residenti della zona si erano riparati sotto il controllo dei soldati ONU dei Paesi Bassi, che però cedettero alle pressioni di Mladić, il quale fece deportare e massacrare gli uomini. La grande costruzione, simbolo del fallimento dell’intervento internazionale in quei mesi tragici, è cruciale anche nel film di Ibrahimović.
Il regista filma Irvin, cresciuto il Italia, nel ritorno a Srebrenica avvenuto il 5 dicembre 2014, un rientro “per restarci”, in un villaggio sulle colline circostanti che prima del conflitto contava 200 abitanti e ora soltanto quattro. Tra loro l’anziano Emin, che in guerra perse figlio, fratello e nipote e vive da solo di un’agricoltura di sussistenza, utilizzando vecchi attrezzi e la vecchia cavalla da tiro Charlotte.
Alla situazione - utilizzare le risorse disponibili con gli arnesi disponibili e conservando un approccio tradizionale - si adegua il giovane, il cui sogno è costruire un villaggio di case in legno in una radura della foresta.
Lo stesso bosco nel quale si inoltra per il taglio e la raccolta di legna e per seguire le tracce delle fughe e dei nascondigli dei bosniaci che trent’anni fa cercavano una salvezza. Si rinvengono ancora i segni dei passaggi, sotto forma di vecchie coperte abbandonate, resti di confezioni di cibo o di scarpe.
Irvin aveva trovato “un’ancora di sicurezza” in Italia, perdendo i contatti con il genitore e scoprendo più tardi la verità. Così la Bosnia costituiva il “trauma” difficile da affrontare, fino alla coraggiosa scelta di rientrare.
“Tornare ti mette di fronte al trauma: finché non si fa questo passaggio, è impossibile andare oltre” spiega il protagonista nel film. È il processo interessante che il regista compie in questo lavoro sorprendente, che si differenzia dai tanti che in questi decenni hanno cercato di raccogliere testimonianze e ricostruire le vicende.
“Il ragazzo della Drina” non resta nel territorio in qualche modo sicuro della memoria e del passato, ma prova a guardare avanti, passando anche dalle fosse comuni diventate di nuovo campi coltivati o dalla foresta silenziosa che parla forte di fuggiaschi, di paure e di morti.
La storia di Irvin è semplice e straordinaria, sta tra la tragedia e la speranza, il dolore del ricordo e la volontà di ripartire e trasmettere. Ibrahimović (già autore dei documentari “Custodi di guerra” e “Periferia del nulla”) unisce l’osservazione e la riflessione, non indugia ma riesce a commuovere. Senza citarlo, fa tornare alla mente “Il ponte sulla Drina” di Ivo Andrić, sempre ambientato sulle sponde del fiume simbolico che qui è chiamato “madre”.
Com’è stata l’esperienza della prima alle Giornate di Soletta?
L’abbiamo realizzato con l’intenzione di presentarlo nei festival, quindi sono contento dell’esito. Sono felice perché è stato apprezzato, penso sia piaciuto. I festival sono momenti di sollecitazione, ci vuole un po’ di tempo per elaborare emozioni e pensieri.
Questo non è il solito film sulla guerra in Bosnia Erzegovina e le sue conseguenze.
Forse la gente non si aspetta questo tipo di film a proposito di Srebrenica e della Bosnia. Di solito i documentari vogliono ricostruire la storia o in qualche modo vogliono educare, si appoggiano alle immagini degli archivi. Il nostro è un film diverso. Il punto è cercare di andare avanti, Irvin mostra una strada, singolare, poetica, utopica, forse folle. Non c’è un’istituzione che si occupa del ritorno o della reintegrazione, tutto avviene in modo molto individuale. Per esempio a Visoko c’è un milionario che si è messo a rifare la notte stellata di Van Gogh con la lavanda, sono cose inventive, un po’ pazze. È un caso affascinante, ovviamente con un altro respiro rispetto a Irvin. Tutto avviene in assenza di regolamentazioni urbanistiche. Il progetto di Irvin in un paese ben assestato non si sarebbe potuto intraprendere: l’assenza dello Stato avvantaggia gli avventurieri.
Com’è nato il film?
Non avrei mai fatto un film su Srebrenica, non ora, almeno. Sono stati fatti tanti film su quei fatti, è difficile approcciarsi. Il progetto è nato su suggerimento di un gruppo di giornalisti di Milano guidati da Marzio Mian: è arrivata la proposta al produttore Nicola Bernasconi, che me l’ha rilanciata e ho accettato diciamo per obbligo morale. Per me è stata una sfida, un film su commissione, con obblighi formali a cui non sono abituato. Conoscevo già la storia e il progetto di Irvin, conosco sua sorella Elvira, rispettavo l’idea, ne ero incuriosito.
E la sua struttura così insolita e particolare?
L’idea del film era di non entrare subito nel tema della morte e del massacro. Volevo però suggerire l’idea di sofferenza attraverso il cavallo, in un modo più universale. Diciamo che l’ho presa alla larga.
Quanto è stato coinvolto dalla storia?
Facendo il film cercavo solo le chiavi linguistiche e formali, mentre prima e dopo ne sono stato più coinvolto, sebbene le somiglianze tra la mia vicenda e quella di Irvin fossero già incluse e digerite. È la nostra storia, è insita in noi, ma non ci pensiamo tutti i giorni. Conosco tantissime storie che a un certo punto sarebbero importanti e meritevoli di essere raccontate.
Qual è la sua storia personale?
Sono nato a Loznica e cresciuto a Kozluk, vicino a Zvornik. Mio padre era artigiano, ha lavorato in giro per l’Europa, è arrivato nell’86 in Svizzera e nel 1992 siamo partiti anche noi. Ho vissuto gli inizi della guerra, poi siamo scappati in aprile: c’erano già stati massacri a Bijelica e Zvornik, siamo partiti in due macchine all’ultimo giorno utile. Ero un ragazzino, avevo 13 anni, non ricordo la paura piuttosto una sorta di curiosità. Ricordo nell’aria qualcosa di strano e nuovo, ricordo qualche mese prima l’avvenimento più scioccante, la ritirata dei serbi dalla Croazia. Stavamo giocando, sentiamo un frastuono, corriamo verso la strada e vediamo transitare una colonna di mezzi: sul carrarmato in testa avevano un’aquila viva e persone sull’esterno. C’erano camion, trattori, una colonna infinita, anche soldati feriti, sparavano in aria. Vedevi il malessere, l’agitazione, di quei militari. Non ho mai ricordato la paura, forse perché avevo l’incoscienza dei bambini.
Come avete vissuto la guerra a distanza?
Abbiamo vissuto la guerra e la sofferenza in un modo particolare, davanti al telegiornale, non si parlava d’altro, si cercavano in continuazione i parenti, si voleva sapere se fossero vivi o no. Già nel 1992 ci fu una rappresaglia contro gli uomini adulti, ho perso parenti e persone vicino alla famiglia, che frequentavamo. Sono stati uccisi quasi negli stessi luoghi. Mia nonna è di Bratunac, ci andavamo da bambini a trovare i parenti. Mai avrei pensato che un paesello avrebbe potuto assumere questa connotazione. Il massacro si poteva sicuramente evitare, Srebrenica era considerata un’enclave protetta.
E il futuro della Bosnia?
La Bosnia avrà un futuro, ha una cultura salda, storica. Dipende anche dai Paesi confinanti che hanno pretese territoriali e di influenze, la situazione geopolitica resta complicata. La Bosnia Erzegovina ha la sua essenza cosmopolita, universale, può inglobare pensieri: avrà sempre dei problemi ma sarà sempre un Paese libero. Il nazionalismo bosniaco è l’unico che include gli altri, è paradossale e potente, non gioca sulla discriminazione ma sull’apertura, la Bosnia è un modo di vivere, penso che sopravviverà, anche se con grandi difficoltà. Il non rendersi conto delle cose ci aiuterà. È curioso perché in Francia protestano sempre, in Serbia ora ci sono proteste colossali, mentre in Bosnia succedono cose molto gravi e non succede nulla. Abdulah Sidran disse che la nostra incoscienza ci salverà e credo ci sia qualcosa di vero. La Bosnia non ha mai attaccato nessuno, mentre ha più volte rischiato di essere schiacciata.
Il film parla del ritornare in Bosnia. Come lo vede?
Chi è cresciuto all’estero è rimasto all’estero. C’è un problema identitario e di non comprensione della situazione per chi è all’estero. L’ho vissuto in prima persona. Nel 2002 siamo tornati a riprendere le nostre proprietà in base agli Accordi di Dayton. Nel 2010 ho avuto una crisi esistenziale, sentivo di non appartenere né alla Svizzera né alla Bosnia e ho cercato un confronto con le radici. Con il tempo si perde il contatto con la terra d’origine, più stai lontano e più lo perdi. Il contesto politico non aiuta: il caos, la retorica e la paura che la guerra possa ricominciare fanno stare lontana la gente. Ci si va quasi per vedere la vita precedente. Invece per trasferirsi e rifarsi una vita in Bosnia bisogna avere consapevolezza, forza, determinazione.
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