© Mo Photography Berlin/Shutterstock

© Mo Photography Berlin/Shutterstock

Alla 75esima edizione della Berlinale per la prima volta la Norvegia vince l'Orso d'oro, con "Dreams" di Dag Johan Haugerud, mentre viene insignito dell’Orso d’argento per la miglior sceneggiatura il bellissimo “Kontinental ‘25” del romeno Radu Jude, grande regista già vincitore nel 2021

10/03/2025 -  Nicola Falcinella

Il primo Orso d’oro della storia della Norvegia e l’ennesimo, meritatissimo alla Romania. La giuria della 75° Berlinale, presieduta dal regista americano Todd Haynes (noto per “Lontano dal paradiso” e “Carol”), ha premiato “Dreams (Sex Love) ” dello scandinavo Dag Johan Haugerud. Dopo il documentario sulla decolonizzazione “Dahomey” di Mati Diop vincitore lo scorso anno, nel palmares è entrata una commedia drammatica, protagonista una studentessa che fraintende (o fantastica) il comportamento di una professoressa.

Completamente ignorato dai giurati il documentario ucraino “Strichka chasu - Timestamp” di Kateryna Gornostai, che sembrava tra i favoriti. La regista, nota per il documentario “Evromaidan” del 2014 e per “Stop-Zemlia” (presentato sempre alla Berlinale nell’edizione online del 2021) ha filmato tra marzo 2023 e giugno 2024 tante situazioni in diverse zone dell’Ucraina, soprattutto scuole: lezioni, allenamenti sportivi, scuole distrutte, prove di cori e balli, spettacoli, interruzioni improvvise dovute agli allarmi aerei. Un film sulla vita che continua nonostante la guerra e sull’educare le giovani generazioni, i giovani che si preparano alle emergenze, al pronto soccorso. Lo sforzo contro il nemico, cercando di non cadere nell’educazione all’odio.

Un documentario di osservazione, senza interviste o spiegazioni, dalla struttura a mosaico che incastra diversi momenti (alcuni molto belli e incisivi), ma forse non permette di entrare dentro i personaggi e non abbastanza didascalico per chi conosce poco quella realtà. Un film buono, che sarebbe potuto esserlo anche di più, magari con qualche limatura senza perdersi in troppi rivoli. Così rischia di apparire un po’ come “la solita cosa da festival” sia nello stile sia nella materia trattata. Il titolo “marca temporale” sembra voler attestare che i fatti, a partire dall’aggressione russa, sono accaduti davvero. Prodotto in collaborazione con la ong Osvitoria che da anni si occupa di progetti di istruzione in Ucraina, è il primo film ucraino in competizione a Berlino da oltre 25 anni.

Il premio per la sceneggiatura è meritatamente a uno dei film più belli del concorso, “Kontinental ‘25 ” del romeno Radu Jude, già vincitore dell’edizione 2021 con “Sesso sfortunato o follie porno”. Il titolo si riferisce al nome di un hotel che una società tedesca vorrebbe costruire nel centro di Cluj, la storica città della Transilvania, abbattendo gli edifici esistenti e cacciando chi ci abita. Tra questi c’è Ion, un ex atleta alcolizzato che occupa uno scantinato e vive raccogliendo legna e oggetti nei boschi popolati di dinosauri. Mentre gli incaricati dello sfratto sono in pausa pranzo e cercano una soluzione al suo caso, l’uomo si suicida. La responsabile dell’ufficio comunale Orsolya, che cerca di avere un atteggiamento umano e comprensivo verso gli sfrattati, resta turbata dall’accaduto. Per elaborare il senso di colpa e di impotenza, la donna inizia un peregrinare che le farà incontrare un suo ex studente e un pope, da una parte cercando evasione e distacco e dall’altra risposte ai dilemmi.

Jude con il suo stile tra il grottesco e il realismo quasi documentario riflette sulle speculazioni edilizie, la gentrificazione che investe anche le città più piccole, il potere del denaro, l’emarginazione e la crisi dell’Europa, con frecciate anti-Putin che il regista ha ripreso anche durante il festival. Jude parla dell’assurdità del mondo contemporaneo e della tecnologia e condivide il senso di impotenza davanti alle ingiustizie e le difficoltà di resistere ai meccanismi dell’economia che sembrano imporsi su tutto e tutti e non guardano in faccia neppure gli ultimi. Un film che cita espressamente Roberto Rossellini e si colloca nel solco degli ultimi lavori di finzione di Jude (da menzionare anche “Do Not Expect Too Much From The End Of The World” del 2023): magari non è così nuovo e dirompente come i precedenti, ma è un gran film.

Fa il paio con “Timestamp” l’altro documentario “Chas pidlotu – Time to Target ” del regista russo Vitaly Mansky, presentato nella sezione Forum. Siamo a Leopoli, dall’estate 2022 al 2024, con location principale l’impressionante cimitero militare già d’epoca austriaca. Banda militare. Madri in Italia. Putin impiccato Tiro al bersaglio antistress in strada. Consegne di onorificenza alla memoria. Teatro opera e allarme missili. Le guide in città (anche se una dice che i gesuiti erano “monaci”). Vita normale allarmi e funerali. Immagini pulite composte, d’effetto, mette sempre la camera al posto giusto. Tanti funerali. Vetri rotti dai missili in un quartiere. L’Ucraina è stata davvero indipendente? L’andare al fronte. Il titolo è il tempo che intercorre da quando si dà il comando a quando il missile colpisce il bersaglio.

Nella neonata sezione parallela Perspectives, dedicata alle opere d’esordio, la coproduzione Slovenia / Italia / Croazia “Kaj ti je deklica - Little Trouble Girls ” della slovena Urška Đukić ha ricevuto il premio Fipresci della stampa internazionale. Un film che comincia con le prove di un coro femminile di una scuola religiosa. Spicca la sedicenne Lucia che vuole mettersi il rossetto, giocando a provocarsi con le amiche, nonostante la contrarietà della madre, che la educa a un basso profilo. Più tardi l’istituto organizza la tradizionale gita di alcuni giorni a Cividale (quasi tutto il film è ambientato in Friuli) per uno stage intensivo di esercitazioni, ma nel cortile del convento c’è un cantiere e un operaio attira le attenzioni delle adolescenti.

Un film interessante, un po’ tra Sophia Coppola e l’austriaca Jessica Hausner, per stile e atmosfere. Đukić affronta, anche con sfrontatezza, la scoperta di sé, l’innocenza, la malizia, il desiderio e il gioco tra ragazze. La regista insiste molto sui primi piani delle ragazze, soprattutto di Lucia, e tiene il resto fuori campo, così come torna spesso simbolicamente sui fiori e gli insetti. I sogni (la protagonista spesso si distrae perché sogna a occhi aperti), le fughe, la voglia di sperimentare, lo scontro con le istituzioni, ma pure la concretezza e la voce dell’esperienza (si veda il dialogo con la suora a proposito della castità) sono gli altri elementi di un film tutto rivolto sulle donne.

Nel Forum degli indipendenti è stato presentato “Restitucija, ili, San i java stare garde – Eighty Plus ” del serbo Želimir Žilnik. Un grande del cinema jugoslavo, tra gli animatori dell’Onda nera e Orso d’oro nell’ormai lontano 1969 con il dirompente “Rani radovi – Early Works”. Il regista si è confermato brillante, acuto e ironico nel racconto dell’ex musicista e insegnante Stevan, che aveva lasciato la Jugoslavia per trasferirsi in Occidente e godere di un certo benessere. Ormai ultraottantenne ma non ancora domo, l’uomo torna da Vienna nella regione rurale dello Strem per la restituzione delle proprietà di famiglia, che erano state confiscate dalla Federazione dopo la Seconda guerra mondiale. Si tratta di una villa che era appartenuta a nobili e dei terreni agricoli circostanti. Stevan si scontra con una burocrazia senza fine (comprese le visite mediche per dimostrare di essere capace di intendere e di volere, come avviene nel turco “Faruk” di Asli Ozge passato al recente Trieste Film Festival), oltre che con i vicini bizzarri, mentre scopre che la figlia e il genero vorrebbero impossessarsi dei beni immobili. Il regista si immedesima nel suo personaggio, che può permettersi ciò che vuole in completa libertà e ancora togliersi delle soddisfazioni: filma con tono lieve e giocoso, creando situazioni anche molto divertenti e una piega sentimentale, senza perdere aderenza e serietà e criticando un po’ tutti, nel passato e nel presente, la Jugoslavia, i Paesi nati dalla sua disgregazione, l’Europa e chi ne è restato fuori, come la Svizzera.

Sempre in Forum è stato presentata una delle belle scoperte della Berlinale, la produzione Germania / Lituania “The Swan Song of Fedor Ozerov ” diretta dal bielorusso Yuri Semashko. Siamo a Minsk durante le vacanze di fine anno e il venticinquenne Fedor non pensa ad altro che costituire una band per suonare le proprie canzoni. Intorno a lui, tutti sono spaventati per le minacce di guerra nucleare, a partire dalla sorella Nina che vuole manifestare in piazza. Oltre alle audizioni per trovare strumentisti, l’unica preoccupazione del giovane è ritrovare il maglione con le margherite che è convinto ispiri la creazione musicale. Il film è una tragicommedia stralunata, composta da strani incontri in un clima di paura. Tra questi l’uscita con Alina, conosciuta su Tinder: la ragazza non ha mai sentito nominare Leonard Cohen e, quando il protagonista le canta “Halleluja”, ella riconosce “la canzone di “Shrek””. “La maglia non serve per creare” dice Nina al fratello ossessionato, “E manifestare serve a fermare la guerra?” le risponde Fedor. Senza staccarsi dalla realtà e dai venti di guerra, il regista si avventura nel mito tanto da approdare a un “Orfeo ed Euridice” contemporaneo. Un’opera prima che è un piccolo gioiellino.


Hai pensato a un abbonamento a OBC Transeuropa? Sosterrai il nostro lavoro e riceverai articoli in anteprima e più contenuti. Abbonati a OBCT!