Si è conclusa la 36esima edizione del Trieste Film Festival, importante evento dedicato al cinema dell’Europa centro-orientale. Tra le opere premiate il lungometraggio “Toxic” del lituano Saulė Bliuvaitė e il documentario “Tata” di Lina Vdovîi e Radu Ciorniciuc
È andato al lituano “Toxic” di Saulė Bliuvaitė il premio di miglior lungometraggio del 36° Trieste Film Festival. Un’affermazione abbastanza prevista per il film che in agosto aveva vinto il Pardo d’oro del Festival di Locarno, prima di iniziare un lungo percorso festivaliero ed essere candidato all’Oscar, senza però raggiungere la nomination, al contrario della connazionale animazione “Flow” che ne ha ricevute due.
Menzione speciale della giuria all’ungherese “Fekete pont - Lesson Learned” di Bálint Szimler, anche questo già premiato a Locarno (menzione speciale nel concorso Cineasti del presente e Pardo per la migliore interpretazione ad Anna Mészöly) e premio del pubblico al romeno “Three Kilometres to the end of the world - Trei kilometri pana la capatul lumii” di Emanuel Pârvu (sarà presto distribuito in Italia da Academy Two), presentato in concorso a Cannes e candidato dalla Romania agli Oscar.
Nel concorso documentari tripla vittoria per il romeno “Tata” di Lina Vdovîi e Radu Ciorniciuc , premio della giuria, premio del pubblico e il premio Alpe Adria Cinema. La storia della regista, il cui padre Pavel era partito dalla Moldova per l’Italia nel 1999 senza fare ritorno. Venticinque anni dopo, il genitore la contatta perché sta male, così la donna parte con il collega Radu filmando ciò che accade e ricostruendo il passato, anche utilizzando le cassette vhs che a lungo si erano inviati per comunicare a distanza. Scopre che il padre viene picchiato e forzato mentre lavora nei giardini e nei campi, così inizia a cercare di riprendere di nascosto le angherie, le minacce e le percosse inflittegli per potersi rivolgere a un avvocato. Lina si ritrova in una situazione ribaltata: il padre violento, che a casa la picchiava al minimo errore e controllava tutto, comprese le chiamate telefoniche, in maniera invasiva e ossessiva, è diventato vittima e non riesce a difendersi. Mentre scopre di essere incinta (nascerà la figlia Aster), la regista ragiona sul fatto che la violenza paterna è parte di lei, tanto che lasciò l’ex marito dopo pochi mesi poiché somigliava troppo al padre. Gradualmente Lina riesce ad aprirsi con il genitore, parlargli, chiarire un po’ il passato, ora che i loro ruoli sono cambiati e la determinazione di lei può essere l’unica salvezza di lui. Una storia di emigrazione che potrebbe sembrare comune e che diventa esemplare, sia riguardo ai rapporti tra chi parte e chi resta sia alle condizioni di lavoro degli immigrati, costretti a stare in condizioni di inferiorità e maltrattamenti. In più è un’esplorazione senza troppi pudori di una vicenda familiare complessa e violenta.
Il premio Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa è stato assegnato a “The Sky above Zenica” della danese Nanna Frank Møller e del bosniaco Zlatko Pranjić. Un incisivo documentario di denuncia sociale realizzato tra il 2017 e il 2024 nei dintorni degli storici impianti siderurgici di Zenica comprati da Arcelor Mittal. I registi filmano i cittadini che si preoccupano della situazione degli scarichi nel fiume Bosna e delle emissioni nell’aria, documentando con immagini e denunciando i fatti. Si scopre che Mittal non ha mai rispettato accordi per i controlli, che gli impianti non dispongono di filtri per i fumi e non si misurano le emissioni di sostanze cancerogene come il benzene. Møller e Pranjić raccolgono le voci di malati, medici e professori universitari, alternandole con le immagini degli impianti dall’alto che ritornano a punteggiare il film in maniera un po’ angosciante, come la minaccia sempre presente. Intanto in città si costituisce l’Eko Forum per osservare la situazione, mentre la proprietà fonda la misteriosa nuova società Toplana a rendere ancora meno trasparenti i rapporti. Il film guarda all’equilibrio che sembra impossibile tra industria e lavoro da una parte e salute e ambiente dall’altra, in uno degli ultimi posti in Europa dove la questione è ancora aperta.
Nel concorso cortometraggi primo premio per “Night of Passage” di Reza Rasouli, la storia di tre rifugiati provenienti dall'Iran al confine austriaco, con menzione al kosovaro “On the way” di Samir Karahoda. Premio del pubblico dei corti al bellissimo croato “The Man Who Could Not Remain Silent” di Nebojša Slijepčević, Palma d’oro al Festival di Cannes e nominato all’Oscar.
Il premio Eastern Star 2025 è andato al grande regista ucraino Sergei Loznitsa, che ha presentato “Invasion ”, già passato a Cannes. Il primo cineasta che, con il documentario “Maidan” (2015) e il lungometraggio “Donbass” (2018), ha spiegato e testimoniato la situazione nel suo Paese e il precipitare degli eventi e sta continuando a filmare anche dopo l’invasione russa.
Il premio Cinema Warrior 2025 è stato assegnato a Ado Hasanović "per il suo cinema insieme intimo e militante, dove memorie familiari si uniscono alla memoria collettiva di un Paese, e per aver dato vita a un festival, il Silver Frame, nel cuore di Srebrenica, riportando la bellezza e il dialogo tra popoli in un luogo emblematico dei Balcani". La consegna è avvenuta in occasione della proiezione fuori concorso del suo bellissimo “I diari di mio padre ”. Il regista, bambino allo scoppio della guerra di Bosnia, lasciò quasi subito il paese di Glogova con la madre e il fratello, mentre il padre Bekir rimase nella zona di Srebrenica. Per oltre tre anni l’uomo tenne un diario e filmò la situazione, anche con gli amici Izet e Nedžad, con i nomi d’arte di John, Ben e Boys: realizzarono dei telegiornali e iniziarono a realizzare il film in video “La battaglia di Glogova” (fin dal titolo richiamava il cinema jugoslavo degli anni ‘60) tra finzione e documentario. Ado Hasanović, che vive e lavora in Italia, ha usato le immagini di allora insieme a quelle girate negli ultimi anni, quando il padre era ancora in vita e ricordava, pur a fatica per il “trauma”, gli eventi di quegli anni. Bekir fu uno dei pochi sopravvissuti alla “Marcia della morte”, partendo l’11 luglio 1995 e riuscendo ad arrivare il 16 a Nezuk “in territorio libero”. Un film lucido e commuovente insieme, un’altra testimonianza di una tragedia che conserva ancora storie strazianti ed esemplari e sulla quale c’è ancora da dire e raccontare.
Tra i lungometraggi in concorso esce subito in sala, distribuito da Emera Film, lo sloveno “Family Therapy” di Sonja Prosenc , una coproduzione tra Slovenia e Italia girata in gran parte in Friuli Venezia Giulia e candidata all’Oscar per la Slovenia. Una famiglia benestante - Alexandar, che ha mollato un lavoro molto remunerativo, e la moglie Olivia gallerista con la figlia Agata - che si è ritirata a vivere in una grande villa nella foresta, travolta nelle sue certezze dalla comparsa di un estraneo. I tre vanno in aeroporto a prendere Julien, figlio di una precedente relazione dell’uomo che è cresciuto all’estero. Sulla strada del ritorno avviene un episodio che rivela molto ed è prodromico per il seguito: l’auto passa accanto a quella in fiamme di un altro nucleo famiglia che cerca invano di richiamare l’attenzione e soccorso. Un menefreghismo che rivela l’egoismo e la diffidenza in cui sono chiusi i protagonisti e ancora più evidente all’arrivo nella grande costruzione: i protagonisti credono di essere immersi nella natura e negli alberi, ma sono chiusi dentro schermi di vetro e di cemento, chiudendo anche le porte interne per paura. Allo schema alla “Teorema” di Pasolini dell’estraneo in casa, si aggiunge quello di “Parasite” quando alla porta si presentano le persone della vettura incendiata che rivendicano di essere stati ignorati e di avere bisogno, facendone un caso di lotta di classe. Il film, suddiviso in capitoli, racconta un precipitare e una possibile redenzione, con un tono ironico, dato anche dalle musiche sopra le righe e dall’assurdità del concorso per il viaggio nello spazio. Gli animali, come la lepre e la cerva, rappresentano la natura che si prende gli spazi, che arriva anche dove gli uomini non vorrebbero, mentre le feste vanno a rotoli sotto la pioggia. Prosenc, una delle autrici di punta del cinema sloveno, mette molte suggestioni visive in un film dall’ottima regia, con tanti stimoli ma non del tutto risolti, forse perché non pienamente sostenuto dalla sceneggiatura, che finisce con l’essere un po’ schematica e prevedibile. Oltre a “Teorema” e “Parasite”, sembra un dramma familiare diretto da un regista greco in un paese nordico, tra programmaticità e freddezza. Buono il cast, con Katarina Stegnar e la figlia Mila Bezjak (nel ruolo di Agata), Marko Mandic, Judita Frankovich e Jure Henigman.
Presente fuori concorso il turco “Faruk” di Asli Ozge (“Men on the Bridge”, “Lifelong”), anche questo a partire da vicende personali: il protagonista è il padre della regista, novantenne rimasto solo in un appartamento a Istanbul dopo la morte della moglie. Il condominio è nel mezzo di una zona in trasformazione e Faruk sente le pressioni degli immobiliaristi e di altri inquilini che vorrebbero abbatterlo per ricostruirlo. L’anziano da una parte è un po’ nostalgico e legato al passato, ma non si vuole opporre al nuovo: non gli piace la direzione dei cambiamenti e sostiene che tanto non vedrà il nuovo palazzo finito. Tra gli inquilini si tengono incontri e assemblee per decidere tra i vari progetti e scegliere la società cui affidare i lavori, con Faruk che esprime precise richieste per il suo futuro appartamento. Nel frattempo è necessario trovare una nuova sistemazione e non è così facile trovare un affitto economico in un alloggio a misura di novantenne, sebbene ancora attivo e in grado di coltivare la sua passione per il ballo. Anche se tutti si sorprendono e gli dicono che non dimostra la sua età, dovrà ogni volta mostrare un certificato di idoneità. Il film è un ritratto di un anziano che viaggia su due linee che dialogano abbastanza bene: da una parte il processo purtroppo inarrestabile di gentrificazione a Istanbul (non diverso dalle altre grandi città), dove ogni rinnovamento edilizio comporta costi sociali altissimi e benefici economici per pochi, e un rapporto padre – figlia anche sorprendente. L’elemento più interessante è che non si tratta di un puro documentario: la regista lo dichiara fin dall’inquadratura iniziale e lo rinnova nelle riuscite scene delle visioni paterne e ciò lo rende più originale e interessante.
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