Auschwitz © Oleksii Konchenko/Shutterstock

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In occasione della Giornata della Memoria Božidar Stanišić ha scritto questo testo commemorativo sulla figura e l'opera dello scrittore Ivan Ivanji. Con "La mia bella vita all’inferno" Ivanji racconta la sua esperienza nei lager nazisti dove fu deportato nel 1944

27/01/2025 -  Božidar Stanišić

Rischiando di sembrare altezzoso, preciso di aver letto una moltitudine di libri sull’Olocausto, molti dei quali scritti da testimoni diretti del Male contro gli esseri umani la cui sola colpa era di essere ebrei e rom. Tuttavia, in nessuna delle testimonianze lette ho riscontrato un atteggiamento nei confronti della questione dell’Olocausto paragonabile a quello di Ivanji nel suo complesso mosaico della memoria Moj lepi život u paklu [La mia bella vita all’inferno].

“Non ho mai fatto un sogno legato al lager. Penso che oggi prevalga l’opinione che gli ex internati debbano lamentarsi il più possibile: ‘Ah, quanto è stato terribile!’”, scrive Ivanji nel suo libro testamento Bilo jednom u Jugoslaviji [C’era una volta in Jugoslavia].

Questo sarà uno dei miei contributi più brevi scritti in occasione della Giornata della Memoria. Un contributo in cui a parlare sarà innanzitutto Ivanji – le parole di un ebreo che gli altri hanno “spinto” a scoprire chi era e perché era “colpevole”. Parole in cui non vi è nulla di superfluo. Una nota per i lettori curiosi – solo un romanzo di Ivanji è stato tradotto in italiano: Čovek od pepela [La creatura di cenere di Buchenwald, traduzione dal serbo a cura di Paola Buscaglione Candela, Giuntina 2001]. Una pubblicazione passata quasi inosservata. In Germania invece Ivanji è noto come se fosse uno scrittore tedesco. È stato ospite di numerose iniziative dedicate alla memoria del campo di concentramento Buchenwald, anche come traduttore di opere di scrittori tedeschi.

Ripeto: non ci dobbiamo aspettare di trovare nel libro Moj lepi život u paklu – in cui l’autore si muove con una leggerezza straordinaria tra i vari momenti del Tempo del Male e le reminiscenze del Male – un semplice compendio di ricordi di Ivanji legati al campo di concentramento. Solo a metà libro iniziano a prevalere i motivi del lager e le reminiscenze di quei giorni, volti e vicende.

“Non c’è bisogno di inventare nulla quando gli agenti di polizia armati di fucili vengono a prendere un ragazzo di quindici anni”, ha affermato Ivanji, testimone del Tempo del Male, nell’autunno della sua lunga vita.

In Moj lepi život u paklu ha analizzato anche i motivi che lo hanno spinto a inserire elementi di finzione in alcuni dei suoi romanzi basati su eventi reali e situazioni vissute. “A volte i fili della verità e dell’immaginazione si intrecciano in un nodo inestricabile. Altre volte semplicemente non voglio o non riesco ad accettare i fatti...”. Magari ne parleremo un’altra volta.

Ivan Ivanji, primavera 1941. Dodicenne, viveva in quella che gli sembrava un’atmosfera idilliaca di una famiglia benestante del Banato di origini ebraiche, seppur non credente. Una casa dove si parlavano il serbo, l’ungherese e il tedesco, dove il padre di Ivan recitava Goethe come una ninna nanna. Tuttavia, a Petrovgrad [1] – come in tanti altri angoli d’Europa – quella famiglia era considerata innanzitutto una famiglia ebrea. Quanto ai nazisti, se avessero conosciuto almeno un po’ la figura di Goethe, forse non sarebbero stati nazisti. Ivan e sua sorella sopravvissero all’Olocausto. Invece i loro genitori – il padre ginecologo e la madre medico di base – furono vittima della prima ondata della persecuzione nazista in Serbia. Come emerso successivamente, la loro governante, una donna slovena di origine austriaca, era una spia della Gestapo. Ivan fu tradito e consegnato nelle mani dei persecutori da suo zio, nella cui casa si era nascosto.

In realtà Moj lepi život u paklu è un mosaico di racconti brevi che funzionano anche come unità narrative autonome.

Mi chiedo se qualche cineasta in Serbia (ma anche in Germania) abbia visto in quest’opera una storia, purtroppo fortemente tragica, degna di essere trasformata in un film? E qualche drammaturgo? Anche una trasposizione teatrale offrirebbe spunti di riflessione.

Ancora oggi, purtroppo, quando penso a Moj lepi život u paklu mi tornano in mente i tentativi, andati a vuoto, di proporre ad un editore che conosco bene di pubblicare una traduzione italiana di questo libro. Ricordo anche la lettera di Ivan Ivanji in cui mi consolava con la sua sagace ironia del tipo: “Dio li perdoni, sicuramente hanno autori che vendono meglio”. Gli sono grato per questo, non è mai troppo tardi per scoprire con chi abbiamo a che fare nel mondo della “cultura”. La saggezza dei grandi libri di memorie non è una malattia infettiva.

Ivan Ivanji si è spento l’anno scorso, il giorno in cui si celebra la vittoria sul nazifascismo, in Germania.“Alle sue condizioni”, ha scritto suo figlio Andrej, “ha approvato la copertina del suo ultimo libro Bilo jednom u Jugoslaviji […], ha partecipato ad una serata letteraria in un teatro a Weimar, ha inaugurato il Museo del lavoro forzato sempre a Weimar, ha rilasciato diverse interviste ai media tedeschi, a cena ha mangiato un piatto di asparagi accompagnandolo con vino bianco, “Al Cigno Bianco”, la taverna prediletta di Goethe […], è andato all’hotel preferito di Hitler, “Elephant”, dove amava soggiornare per fare un dispetto al Führer, si è sdraiato sul letto addormentandosi, per sempre, proprio il giorno in cui si ricorda la vittoria sul fascismo, il 9 maggio 2024, a 96 anni, nella città in cui i nazisti lo avevano deportato esattamente ottant’anni prima con l’intento di ucciderlo...”.

Non posso affermarlo con certezza, però credo che oggi Ivan Ivanji si opporrebbe alla proposta di Bruxelles di ribattezzare la Giornata della vittoria sul nazismo, denominandola “Giornata della Pace”.

Post scriptum

Recentemente, nel corso di una conversazione informale, alla domanda se, anche dopo quanto accaduto a Gaza, intendessi scrivere un articolo in occasione della Giornata della Memoria, ho risposto: “Certamente. Dovremmo forse cambiare il significato dei fatti e l’atteggiamento nei confronti dell’Olocausto?”. Poi ho aggiunto: “Saranno le persone, la Storia e l’Etica a giudicare le azioni dell'Israele imperialista”. Mi fermo qui, dictum sapienti sat est.

Frammenti dal libro di Ivanji La mia bella vita all'inferno

 

Riporto telegraficamente alcuni fatti necessari per fornire un’immagine esplicativa dell’andamento della mia bella vita scandita da brevi viaggi all’inferno. La zia Olga, suo marito Endre, mia sorella Ildi, come anche la nonna materna Gizela, sopravvissero al campo di concentramento di Bergen-Belsen e tornarono a Subotica. Lo zio Pišta, sua moglie e i loro due figli morirono soffocati dai gas di scarico, trasportati dal lager di Staro Sajmište per le vie di Belgrado su quel camion speciale delle SS, “dušegupka”, di cui si è già scritto molto, però per me questo è un capitolo concreto della mia storia familiare. Anche mia madre fu uccisa allo stesso modo. Mio padre fu internato nel campo di Topovske šupe, poi lo prelevarono e lo fucilarono come ostaggio. Avevo un altro zio, Saša, l’avevo visto solo una o due volte nella vita, dicono che era ricco e bello. Fu ucciso a Jasenovac insieme alla moglie e ai due figli. Un altro zio, Imre, ingegnere, sposato con una donna serba, Budimka, trascorse gran parte del periodo bellico dalle nostre parti, in un luogo sperduto, dove i suoi muratori lo nascosero. Riassumendo, mia nonna, una volta tornata dal campo di concentramento, non poté che constatare di aver perso tre figli, mentre altri due si salvarono, un bilancio assai positivo per una famiglia ebrea dalle nostre parti. Si può dire così? Beh, io lo posso dire, ma guai a chi si azzarda a utilizzare tali toni per parlare di quell’inferno che fu il prologo alla mia bella vita.

In ogni epoca – passata o contemporanea – il tempo del Male comprende momenti di impotenza e paura tremenda. Si pensi alle Sabine di fronte ai romani, agli ebrei di fronte alle SS, a Goethe davanti ai soldati sfrenati di Napoleone. Tuttavia, come già detto: l’ex campo di concentramento di Buchenwald lassù – la violenza – e la casa in Piazza Frauenplan a Weimar – Goethe – distano tra loro solo pochi chilometri in linea d’aria. In nessun altro posto al mondo il simbolo del Male assoluto e quello della grandezza umana assoluta sono così vicini l’uno all’altro. Da sedicenne, a Buchenwald, sulla collina di Etersburg, vicino a Weimar, non ne sapevo nulla. Non conoscevo nemmeno la leggenda della quercia di Goethe nello stesso campo. Di tanti fatti non sappiamo nulla, di molte leggende quasi nulla.

Il 16 settembre del 1939 il governo del Regno di Jugoslavia emanò due decreti riguardanti gli ebrei, di cui uno interessava anche me. Il primo decreto vietava agli ebrei qualsiasi commercio di generi alimentari. Allora? I miei genitori erano medici. Il secondo però riguardava proprio me, cioè “le persone di origine ebraica” e la loro istruzione nelle scuole superiori e nelle università. Nessuna scuola poteva accettare una percentuale di [alunni] ebrei superiore alla percentuale di ebrei sul totale della popolazione. Mio padre cercò di spiegarmelo, ritenendo che per via di tutti questi cambiamenti io dovessi essere particolarmente diligente e obbediente, ma io dissi: “Se mi vieteranno di studiare, diventerò il capitano di una nave”.

La notte di Capodanno 1941. L’ultima, ma anche la prima festeggiata in quel modo con papà. Stavo per compiere dodici anni, di certo non potevo sapere che una notte così non si sarebbe mai ripetuta, ma perché mio padre non lo aveva nemmeno intuito? Oppure lo aveva intuito? Non ricordo se nevicava. Sembra che proprio quei tasselli di memoria che dovrebbero rivelarmelo siano andati perduti. Sicuramente nevicava. Oggi mi sembra che prima del Tempo del Male tutto fosse ordinato e prevedibile. Se non a fine novembre, a inizio dicembre sicuramente cominciò a nevicare. Papà decise di trascorrere la notte di Capodanno solo con mia sorella e me. Non so dove fossero la mamma e la governante. Di sicuro cenammo, ma ormai non ricordo cosa. Di nuovo compare solo qualche tessera del mosaico. Tantissimi tasselli sono scomparsi. Papà aveva quarantadue anni. Giocammo a ramino. Cercammo di fondere il piombo. Lo scaldammo finché non divenne liquido, poi lo versammo rapidamente in acqua fredda. Le forme delle figure create in questo modo ci avrebbero permesso di predire il futuro, è un’antica usanza scandinava. Non riuscimmo però a ottenere nessuna forma riconoscibile. Il piombo che papà versò in acqua si dissolse in semplici pezzi. Concludemmo che somigliavano a sfere. Non ci passò nemmeno per la testa di interpretarli come pallottole. Oppure come proiettili. Né tanto meno pensammo che circa un anno e dieci mesi più tardi sarebbe stato fucilato. Papà.

Ma davvero nessuno di loro aveva intuito che il primo gennaio del 1941 preannunciasse… Cosa? Sulla melodia del bećarac [canto popolare della Slavonia ] si cantava: “Quanto sono contento che siamo neutri”. Ricordo che anche mio padre cantava questa canzone. A differenza di me, aveva una bella voce.

E la mamma, come si sentiva nel campo di concentramento? Allo Staro Sajmište? Mia madre. Cosa provò quando salì su quel camion Saurer e quando percepì l’odore di gas? Fu la prima a capire cosa stava accadendo in quel mezzo di “trasporto”? Fece in tempo a dirlo agli altri? Forse avvertì un senso si sollievo perché finalmente si intravedeva la fine? E le venne in mente mio nonno che prese dieci grammi di morfina per evitare che gli rovinassero gli ultimi giorni della vita. Non è difficile immaginare l’ultimo pensiero di una madre. Pensava ai suoi figli. Sono ancora vivi? Sopravvivranno? Aveva senso farli nascere per questa vita, in questo mondo? E mio padre, a cosa pensava prima di essere fucilato? Di fronte ad una fila di fucili?

Per un attimo [il figlio dello zio traditore, ndr.] sembra ancora più triste di prima, e dice: “Mio padre, ormai scomparso, era un uomo strano…”. Questa però non è una risposta adeguata, non esprime la sua posizione. Silenzio. Lo lascio riflettere. Infine aggiunge: “So che c’erano dei problemi tra voi due, ma io in realtà non li ho mai capiti…”. Problemi tra me e mio zio? Il mio arresto è un problema tra lui e me? Evito di essere sgarbato con chi viene a trovarmi, però questa è un’occasione unica per scoprire qualcosa in più sul capitolo più importante della mia vita, quindi continuo a tartassarlo con domande. Come ha vissuto lui l’arrivo dei poliziotti ungheresi che mi hanno prelevato da casa? Di cosa hanno parlato dopo la mia partenza? “Anche la mia vita è cambiata dopo la tua partenza”, dice mio cugino. “Sono un pochino più grande di te, però tu sei sempre stato più maturo”. Ecco che riaffiorano alcuni ricordi assai nitidi. Non ricordo però tutti i dettagli, anche se parliamo di una mattina fatidica. Forse la più fatidica della mia vita. Era mattina presto. Non ricordo se abbiamo fatto colazione prima. Probabilmente sì, perché penso di non aver avuto fame nel corso della giornata. Ad ogni modo eravamo tutti svegli e vestiti. Solitamente a colazione prendevamo caffè latte e pane al burro, a volte pane al lardo e peperoncino. Mancano alcuni tasselli del mosaico. Sulla porta c’erano due poliziotti in uniforme blu e un civile. Non ricordo se hanno suonato o bussato, probabilmente non ho fatto caso al loro arrivo perché non pensavo potesse riguardarmi. Mio zio parlava con loro a bassa voce nell’ingresso. Non ci ho prestato attenzione finché mia zia non ha detto: “Adesso devi andare con quei signori!”.

In Germania e Austria sono stato invitato decine di volte a parlare dei campi di concentramento, soprattutto nelle scuole, in Serbia quasi mai. È logico che nel paese responsabile dell’Olocausto l’interesse sia diverso che dalle nostre parti. Quindi, pur essendone rimasto sorpreso, ho accolto volentieri l’invito a venire al Terzo ginnasio a Belgrado per parlare con gli studenti che stavano approfondendo l’argomento nell’ambito di un progetto.

Sono ebreo solo perché Hitler mi ha perseguitato per il fatto di essere ebreo, ma con lui comunque non sono d’accordo su nulla. È inutile. Ovunque mi presentino, non perdono mai l’occasione di sottolineare che sono nato da “una famiglia di medici ebraica”. Questo, ovviamente, è vero. Io però, come in quell’antica barzelletta ebraica, vorrei rivolgere al Padreterno una preghiera: “Signore, siamo stati il tuo popolo eletto abbastanza a lungo, non è che ora potresti scegliere un altro popolo e lasciarci in pace!”.

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[1] Petrovgrad (1935-1946), fino al 1935 Bečkerek, e dal 1946 Zrenjanin (80mila abitanti), la terza città più grande della Vojvodina (Serbia).

Ivan Ivanji (Zrenjanin, 1929 – Weimar, 2024). Suo padre fu ucciso nel 1941, sua madre nel 1942, Ivan si salvò trovando rifugio nella casa di un parente a Novi Sad. Arrestato nel marzo 1944, fu rinchiuso ad Auschwitz e Buchenwald fino all’aprile 1945. Dopo aver terminato l’istituto tecnico a Novi Sad, ha studiato architettura, poi lingua e letteratura tedesca a Belgrado. Per più di vent’anni è stato interprete personale di Josip Broz Tito e di altri funzionari del governo. Pedagogo, giornalista, drammaturgo, traduttore e diplomatico, è stato anche scrittore. Tra le sue opere più significative spiccano i romanzi Čoveka nisu ubili [Non hanno ucciso l’uomo, 1954], Dioklecijan [Diocleziano, 1973, 2015], Na kraju ostaje reč [Infine resta la parola, 1980], Smrt na Zmajevoj steni [Morte sulla roccia del drago, 1982], Jedna mađarska jesen [Un autunno ungherese, 1986], Preskakanje senke [Saltare l’ombra, 1989], Konstantin [Costantino, 1988, 2013], Barbarosin Jevrejin u Srbimi [L’ebreo di Barbarossa in Serbia, 1998), Guvernanta [La governante, 2002), Balerina i rat [La Ballerina e la guerra, 2003], Čovek od pepela [L'uomo di cenere, 2006], Staljinova sablja [La sciabola di Stalin, 2008], Julijan (2008), Aveti iz jednog malog grada [Fantasmi di una piccola città, 2009] e Milijarder [Il miliardario, 2014], nonché accolte di racconti Druga strana večnosti [L’altro lato dell’eternità, 1994] e Poruka u boci [Messaggio in bottiglia, 2005]. Ha pubblicato anche una raccolta di saggi intitolata Nemačke teme [Argomenti tedeschi1975), e due libri di saggistica politica, Pisma iz Javane [Lettere dall’Avana,1984] e Titov prevodilac [L’interprete di Tito, 2005, seconda edizione aggiornata nel 2014). Un posto speciale nella sua opera è occupato dai libri di memorie, Moj lepi život u paklu [La mia bella vita all’inferno, 2016] e Bilo jednom u Jugoslaviji [C’era una volta in Jugoslavia, 2024]. Le sue opere sono state tradotte in tedesco, italiano, inglese, ungherese, slovacco e sloveno. Ha tradotto decine di libri di poesie, romanzi e opere teatrali di scrittori tedeschi e ungheresi di fama mondiale (Günter Grass, Gustav Meyrink, Endre Ady, Sándor Veress, Bertolt Brecht, Karl Jaspers, Magda Szabó...).


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