
Pioggia sull'Adriatico - © Bits And Splits/Shutterstock
Dal ruolo della letteratura nel mondo di oggi alla natura del processo creativo, passando per la città natale di Durazzo e all'esperienza della migrazione, tutto attraverso il filo rosso del mare metafora onnicomprensiva della vita. Un'intervista allo scrittore albanese Arian Leka
(Originariamente pubblicato da Novosti , il 26 marzo 2025)
Arian Leka è per molti versi una figura peculiare nel panorama letterario dei Balcani e dell’Europa nel suo complesso. Con le sue poesie, come anche con i suoi racconti, saggi e romanzi, esplora in modo approfondito e coerente il fenomeno della migrazione e dell’esilio, con una particolare attenzione rivolta all’esperienza albanese, riflettendo sui molteplici rapporti e punti di svolta nella cultura e nella storia del Mediterraneo.
Il mare è una delle ossessioni letterarie di Leka: attraversa le sue opere come un filo rosso, apparendo a volte come uno spazio di speranza, altre invece come una tomba per quelli che, in cerca di una vita migliore, vengono inghiottiti dalle sue acque. In questa intervista, Leka parla dell’esperienza dell’emigrazione albanese, della letteratura ai tempi dell’intelligenza artificiale, della sua città natale, Durazzo, e dell’atto creativo come un gioco incessante e travolgente.
Nelle Poesie selezionate, il suo ultimo libro tradotto sul territorio dell’ex Jugoslavia (editore Srebrno drvo & Treći Trg, Belgrado, 2023) lei affronta il tema delle migrazioni, dello sfollamento e dell’esilio partendo dall’esperienza dell’emigrazione albanese nei primi anni Novanta del secolo scorso, collegando poi questa esperienza alle migrazioni di oggi dove tantissime persone, in fuga da guerre e altri disastri, vagano per il mondo in cerca della felicità. Perché questo tema per lei è così importante? Cosa la spinge a ritornarci in continuazione?
Questa edizione si basa su alcuni frammenti di un mio lavoro più ampio, Härte Memece për të mbyturit [Mappa muta per gli annegati] del 2019, che esplora alcuni temi letterari complessi tra cronache documentarie, poesia e prosa al confine tra realtà e finzione. Nel libro i momenti della mia vita personale e familiare si intrecciano con esperienze più ampie del popolo albanese e dell’umanità intera su uno sfondo dominato dal tema del mare. L’idea dell’esodo esercita una forza di attrazione immensa perché non si tratta solo di una fuga o una partenza che lascia aperta la possibilità di un ritorno. Si tratta di uno spostamento sostanziale, uno sradicamento che trasforma le vite e i paesaggi, come un terremoto sociale.
Per me l’esodo è un movimento fisico e una costante universale, metafora della vita. Un viaggio. La nascita stessa è un piccolo esodo, come anche l’immaginazione. Nel corso della nostra vita sperimentiamo quotidianamente piccoli esodi in ambito scolastico, sociale, lavorativo. La vita è un infinito susseguirsi di entrate e uscite, un rito di passaggio. Anche la morte è una forma di esodo. Queste partenze interiori, più intime, ci preparano a quella finale. Lo vedo come un big bang continuo, un ampio panorama di partenze: andare via di casa, fuggire dall’amore. In questo contesto, per me l’esperienza albanese è una lente che mi permette di avvicinarmi alle esperienze di altri popoli legati al mare, in particolare al Mediterraneo.
Storicamente, gli albanesi sono stati profondamente colpiti da questa forza di espulsione, come dimostrano gli esodi di massa. Nel libro ho utilizzato tre registri per raccontare l’emigrazione. Non partono solo i disperati, ma anche i cittadini appartenenti a classi sociali agiate, portando con sé pezzi della propria identità: colonne, ornamenti, gioielli, simboli araldici, stemmi di famiglia e persino fiori e animali, tutto ciò che può essere trasportato, lasciando indietro solo gli alberi, i paesaggi e le tombe.
Pur trattandosi di un libro sulle migrazioni, sui dispersi in mare tra migranti e trafficanti, in quest’opera esploro anche le infinite forme dell’esodo: fuggire da sé cercando di preservare le proprie radici e, al contempo, gettando il seme dell’Altro. Attualmente sto scrivendo una prosa su un altro esodo, quello del cosiddetto “uomo di transizione”, un’epoca, quella di transizione, che – paradossalmente – è lunga quanto quella socialista che l’ha preceduta.
Dai suoi libri e saggi emerge chiaramente che quella dell’emigrazione è una delle esperienze più traumatiche della società albanese post-socialista. Come si spiegano queste dinamiche? Come l’emigrazione ha influenzato la cultura dopo la caduta del regime di Hoxha?
Sento spesso parlare di “cortina di ferro”, un concetto che però implica la speranza che i muri, prima o poi, possano sparire o crollare. In Albania non c’erano cortine, solo barriere di cemento e vicoli ciechi. Nel corso della storia, di esodi come quello albanese tra il 1990 e il 1992 ce ne sono stati pochi, con furti di navi e tentativi di trasformare qualsiasi mezzo di trasporto in un’imbarcazione, mai visti prima. Persino i camion con le ruote venivano posizionati sui barili per trasformarli in imbarcazioni.
Gli effetti di quell’esodo sono paragonabili ad uno tsunami causato da un terremoto. Le conseguenze dirette – le carenze, l’isolamento, il distacco linguistico e culturale – continuano a farsi sentire anche quando la situazione economica migliora. La società resta spaccata. Quella che è nata dalla necessità di emigrare per motivi di lavoro si è trasformata in una fuga di persone istruite e “realizzate” in cerca di opportunità migliori, come se la vita potesse sempre essere trovata altrove, lontano dalla propria città natale.
Al pari dei personaggi del folklore, i giovani di oggi inseguono un destino ipotetico, il loro “kismet”. Questo fenomeno coinvolge ormai tutta la nostra regione. Vi è la sensazione che i nostri territori fungano da primi fornitori di manodopera per i paesi occidentali che offrono condizioni di vita migliori. Ecco perché questo argomento resta un tassello fondamentale della mia produzione letteraria.
Da letterato, lei è strettamente legato allo spazio culturale del Mediterraneo, che fa da cornice ai suoi libri. Cosa significa per lei Durazzo, la sua città natale?
Gli scrittori spesso vivono le esperienze analoghe a quelle delle piante endemiche e autoctone. Il luogo in cui sono nato ha plasmato la mia identità e mi ha instillato la convinzione che i piccoli spazi possano essere caratterizzati allo stesso tempo da un’intimità locale e dal cosmopolitismo. Questi spazi vanno preservati, a prescindere dal fatto che siano stati creati da popolazioni indigene o plasmati da stranieri. A determinare la mia concezione dell’effimero e dell’imperfetto è stata la città di Durazzo. C’è qualcosa di speciale nei luoghi dove il mare è sempre presente.
A Durazzo l’uomo sta faccia a faccia con il mare, eppure si tratta di due entità fondamentalmente diverse: il mare è vasto e orizzontale, mentre l’uomo si erge in posizione verticale come un punto esclamativo davanti al mare, un osservatore che ammira il mare. Questa dinamica ha profondamente influenzato la mia immaginazione. Durazzo è stata teatro di numerose forme di vita sociale, una città di provincia, ma anche una metropoli, una città antica e, al contempo, sperimentale, soprattutto durante il periodo socialista. Un angolo nascosto di quella pace tipicamente mediterranea e, allo stesso tempo, un luogo di ripetizione ritmica: una mostra di propaganda, la sede della prima comunità cristiana apostolica e il punto di partenza di una rivoluzione atea.
Parliamo di una città paradossale, colma di contraddizioni nel suo territorio ristretto, ma fertile. Un luogo dove abbondano le canzoni sui paesaggi, sulla nostalgia e sull’amore, mentre mancano quelle sul coraggio. Tutte queste dinamiche hanno plasmato la mia scrittura in modo intuitivo e istintivo. La mia casa permanente, la mia dimora sicura è nei miei ricordi. Molti aspetti intimi della mia esistenza – le passeggiate, le conversazioni, la scrittura, il nuoto, la musica, l’amore – hanno avuto inizio in quella città.
Il mare, come lei ha già sottolineato, è il fulcro della sua scrittura. Non si tratta però di uno spazio esotico dominato dal sole e dalla gioia. Ho l’impressione che per lei il mare sia una metafora onnicomprensiva, un luogo dove si intrecciano libertà e restrizioni, felicità e sofferenza. In un passaggio lei afferma che mare nostrum è diventato mare mortuum…
Oltre all’emigrazione, anche il mare occupa un posto fondamentale nella mia scrittura. Le variazioni su questo tema compaiono in quasi tutti i miei libri, in diverse forme letterarie, in particolare ne La nave dei sogni (2000) e ne Il libro del mare (2009). Ho cercato consapevolmente di evitare i cliché delle cartoline mediterranee, scegliendo invece di raccontare il destino umano al di là dei paesaggi mozzafiato – lontano dai tramonti e dal rosmarino profumato – e di esplorare la dura realtà della vita accanto al mare. I lavori legati al mare – quelli svolti da marinai, pescatori, etc. – sono tutt’altro che romantici.
Mi sono avvicinato al mare attraverso il prisma dei migranti, che compaiono sui nostri schermi solo dopo le tragedie. Questa cancellazione dei migranti è una nuova forma di ostracismo, un razzismo moderno. Lei parla di mare come una “metafora onnicomprensiva”, con la sua magnifica bellezza mediterranea e la sua duplice natura di mare nostrum e mare mortuum. Tuttavia, quel mare nostrum non si è trasformato da solo in mare mortuum. Siamo stati noi a trasformarlo in un mostro che si nutre di esseri umani, anzi, sembra preferire ingoiare navi intere. Nel libro Mappa muta per gli annegati mi confronto con le immagini che spesso rifiutiamo di vedere: il lato drammatico e oscuro del mare.
Tendiamo a cambiare canale quando sullo schermo appaiono immagini tragiche che disturbano il nostro comfort, suscitando in noi un’emozione profondamente umana, quella di tristezza, da cui che spesso fuggiamo. Di fronte a quelle immagini, ci rifuggiamo nelle nostre caverne moderne – case, uffici e centri benessere – dove “dipingiamo” gli spazi della “bella vita”, incorniciamo le immagini di un mare sereno, sembriamo felici e sorridenti. Tuttavia, è facile essere moralisti e parlare costantemente della scomparsa dell’empatia umana. È mai esistita un’epoca segnata dalla gentilezza e dalla comprensione? Anche nei libri di testo di storia non esiste l’età dell’oro. I periodi preistorici prendono il nome dalle armi, dagli utensili e dalle pratiche violente, pensiamo all’età del ferro e a quella del bronzo.
I suoi libri lasciano intendere che lei crede profondamente nella missione della letteratura, nonostante tutti i cambiamenti veloci e il clima di paura che regna nel mondo. Secondo lei, qual è il ruolo della letteratura oggi? Su quali presupposti si fonda la sua fiducia nel potere della scrittura?
Molti proverbi sostengono che la penna sia più potente della spada e che ciò che è stato scritto non possa essere cancellato. Vorrei crederci, ma la scherma non è il mio sport preferito. Per me è una chimera, che però non percepisco come una disperazione né come la rinuncia alla mia spada-penna. Dobbiamo essere realisti: gli scrittori non sono più quei “misteriosi autori delle leggi del mondo”. Oggi, anziché quelli pronti a ribellarsi, prevalgono “gli scrittori sacerdoti” che fanno parte della processione e delle liturgie letterarie. È chiaro dunque che a dettare il testo è la spada, anche se la penna può ancora esercitare un’influenza sui lettori.
Provengo da un paese che aveva vissuto sotto una dittatura, dove la penna degli scrittori albanesi, purtroppo, aveva ceduto ai dettami della spada ideologica. Essendo stato vietato il pluralismo politico, mancava anche il pluralismo estetico, a differenza dell’ex Jugoslavia. I talentuosi scrittori albanesi avevano trasformato le loro penne in spade, rappresentando il socialismo come un fenomeno meraviglioso che prometteva un futuro roseo e sicuro. Non è mia intenzione giudicare qualcuno, però è più facile trasformare una penna in una spada che viceversa. Non siamo stati fortunati ad avere scrittori come Krleža o Kiš, che hanno vissuto un esilio interiore. La letteratura conserva il suo significato e il suo potere, però dobbiamo evitare di creare una nuova utopia determinata dalla scrittura.
Per lei la letteratura è anche un gioco incessante e infinito, un luogo senza confini, un orizzonte nomade che supera ogni limitazione e restringimento dello spazio dello spirito. Cosa significa per lei il processo creativo? Cosa la spinge a scrivere?
Prima di tutto, per me la scrittura implica uno “stato di libertà”. Tuttavia, scrivere non significa sempre mettere le parole per iscritto. I periodi in cui non scrivo non mi preoccupano. Sono sempre la stessa persona e l’assenza della scrittura non sminuisce il mio essere scrittore. A definire il mio essere è quello che ho scritto, non quello che intendo scrivere. Sedersi alla scrivania è un atto banale. Mi sento scrittore non tanto davanti alla scrivania, sulla mia sedia, quanto nel mio luogo di lavoro, sulla “scena del crimine” a cui ritorno. Non importa se sto scrivendo, leggendo, guardando immagini, ricordando, ascoltando musica, fissando distrattamente un muro o approfondendo un argomento. In tutte queste situazioni mi preparo a scrivere.
Sono un nomade, mi muovo e rifletto continuamente. Non ho uno spazio di lavoro preciso. Il mio unico “studio creativo” era una cabina letto sulla nave Iliria, dove ho lavorato per quasi due anni. È successo solo una volta, trent’anni fa. Oggi scrivo in qualsiasi luogo. Spesso lavoro in alcuni locali tranquilli a Tirana, a metà tra bar e biblioteca, allestiti come spazi di lavoro per gli studenti. Questi luoghi offrono un clima di silenzio relativo, come una sala concerti dove si può udire un colpo di tosse, una frase sussurrata, qualche ronzio. A volte scrivo in macchina, più spesso a bordo degli autobus, talvolta mentre cammino, scrivo nella mia mente, che poi dimentica più parole di quante non ne ricordi.
Prendo appunti ovunque. A volte si tratta di appunti fotografici che preservano le tracce di quello che poi intendo elaborare nei miei scritti. Ho avuto anche la fortuna di avere un’intera città come “studio”, alcune volte Durazzo, altre una residenza letteraria. Alcuni libri li ho iniziati a Sarajevo, per poi lasciarli incompiuti in Cina, a Vienna, a Pécs o a Hong Kong. Prima di iniziare a lavorare, spesso mi circondo di fotografie e musica, ma non mentre scrivo. Sono ossessionato da immagini e suoni. Una volta pubblicati, non torno più ai miei manoscritti. Però prima di pubblicarli, li leggo ad alta voce.
Capita che i miei cari amici attori registrino alcuni frammenti dei miei racconti o delle miei poesie. Ascoltando quelle registrazioni, capisco dove ho sbagliato. Sono molto attento al linguaggio: evito parole arcaiche e preferisco un lessico contemporaneo. Voglio che i miei personaggi parlino in modo naturale permettendo così ai lettori di capire autonomamente chi sta parlando. Mi piace intrecciare diversi generi letterari e scrivere prosa con elementi poetici. Preferisco lavorare intorno a mezzanotte, quando un giorno finisce per dare vita ad un altro: è come girare le pagine di un libro.
Ho scritto molte pagine sulla mia città natale, concentrandomi però sull’essenziale ed evidenziando gli aspetti che legano Durazzo alle altre città. Non ho mai glorificato la mia città, forse per proteggerla, o per proteggere me stesso. I momenti di demotivazione prevalgono su quelli di motivazione. Come dice il proverbio: “La notte è un orologio che ticchetta. I giorni finiscono, non io”. Non cerco la cosiddetta ispirazione, bensì stimoli e impegni, aspettando di cogliere la cresta della mia onda e di cavalcarla. Ci ho provato molte volte, spesso ho fallito, sapendo però che, prima o poi, sicuramente ne uscirò vittorioso.
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