edificio di un carcere

Ex carcere di Horsens in Danimarca (© Kenneth Bagge Jorgensen/Shutterstock)

Il trattato che permette a Copenaghen di inviare in Kosovo fino a 300 detenuti, inclusi migranti soggetti a un ordine di rimpatrio, è il modello di esternalizzazione dei centri detentivi per il rimpatrio più vicino ai "return hubs" proposti dalla Commissione europea. I rischi di quel modello sono già evidenti

12/03/2025 -  Federico BacciniEmma Louise Stenholm

C'è uno spettro che aleggia sulla nuova strategia della Commissione europea sui rimpatri , che condizionerà il dibattito sulla politica migratoria dei 27 Paesi membri dell'UE nei prossimi mesi. È un accordo finora poco considerato nel dibattito pubblico europeo che, con tutti i suoi rischi e punti controversi, potrebbe fungere da modello per l'esternalizzazione dei centri per il rimpatrio di persone migranti provenienti da Paesi esterni all'UE.

È l'accordo tra Danimarca e Kosovo siglato nel 2021 – ma non ancora implementato –, che prevede per la Danimarca un parziale utilizzo della prigione kosovara di Gjilan. L'accordo permette, in sostanza, a uno stato membro dell'Unione europea di inviare detenuti dalla cittadinanza straniera in un Paese terzo esterno all'UE per scontare la pena, o anche nell'attesa del rimpatrio. "Si tratta del fenomeno della crimmigration: la migrazione viene sempre più trattata sotto un'ottica securitaria", avverte Silvia Carta, advocacy officer a PICUM, una rete europea di organizzazioni che si occupano dei diritti delle persone migranti prive di documenti.

Sia l'accordo bilaterale cercato dal governo danese sia la nuova proposta presentata dalla Commissione europea contribuiscono a suggerire ai cittadini che esiste un nesso quasi immediato tra migrazione e criminalità, e che queste persone vengono trasferite in centri per il rimpatrio "perché se lo sono meritate".

Questo nella realtà non è vero, spiega Carta, rimarcando che le deroghe in materia di diritti fondamentali per le persone considerate "un rischio per la sicurezza" possono essere usate "in maniera strumentale e discriminatoria, a prescindere dal fatto che la persona abbia ricevuto condanne in passato e conferendo ai rimpatri una funzione punitiva, al di là dei principi del diritto penale”.

Il primo passo verso l'esternalizzazione della detenzione

Era il 15 dicembre 2021 quando i governi di Copenaghen e Pristina siglavano il trattato per l'affitto di spazi carcerari in Kosovo "ai fini dell'esecuzione delle sentenze danesi". L'intesa prevede il trasferimento di 300 detenuti nell'istituto penitenziario di Gjilan – tutti cittadini stranieri che stanno scontando attualmente una pena in Danimarca, "comprese persone a cui è stato imposto un provvedimento di espulsione" e persone "in custodia" per l'esecuzione di tale provvedimento.

Secondo quanto previsto dal trattato, l'affitto dell'istituto penitenziario di Gjilan ha una durata iniziale di cinque anni, con la possibilità di prorogarlo per altri cinque. In cambio il governo danese destina a Pristina 15 milioni di euro per ogni anno di durata dell'accordo (fino a un massimo di 150 milioni), oltre a 5 milioni per ristrutturare la struttura carceraria e dotarla degli standard detentivi previsti dai regolamenti danesi.

Dopo la ratifica del 23 maggio 2024 da parte del Parlamento del Kosovo, l'accordo è ora formalmente in vigore, ma la sua attuazione deve ancora iniziare. "L'opinione pubblica non ha avuto informazioni e non c'è stato alcun dibattito sulla questione", spiega Fatmire Haliti, avvocata e responsabile di programma presso il Kosova Rehabilitation Center for Torture Victims (KRCT), sottolineando come non ci sia finora mai stata alcuna consultazione con le associazioni per i diritti umani o altri meccanismi di monitoraggio.

In una risposta scritta rilasciata a OBCT e Føljeton, il ministero della Giustizia danese sottolinea che, se un individuo non coopera con l'ordine di rimpatrio e "non può essere allontanato con la forza", il trattato prevede la possibilità di far rientrare il cittadino straniero in Danimarca, "temporaneamente o in modo più permanente". Tuttavia, alcune disposizioni prevedono che l'individuo possa essere tenuto in custodia nel carcere di Gjilan "se c'è una ragionevole possibilità che possa essere espulso nel suo Paese d'origine".

Un nuovo modello per la politica migratoria UE?

Uno dei punti più delicati dell'accordo Danimarca-Kosovo riguarda proprio il fatto che rende possibile nei fatti l'esternalizzazione del sistema detentivo di un Paese membro dell'UE, aggiungendo la prospettiva dell'espulsione "direttamente nel Paese d'origine dopo aver scontato la pena". Un modello che diventa ancora più rilevante ora che la Commissione europea ha presentato la sua nuova proposta di Regolamento UE sui rimpatri, che prevede anche i cosiddetti return hubs, o centri per il rimpatrio.

Si tratta di centri collocati al di fuori del territorio dei 27 Paesi membri dell'UE, dove le persone la cui domanda di asilo è stata respinta potrebbero essere inviate prima del rimpatrio, fatta eccezione per i minori non accompagnati e le famiglie con minori. Un accordo specifico con il Paese terzo disposto ad accogliere uno o più di questi centri dovrà stabilire "le modalità di trasferimento e le condizioni per il periodo di permanenza", che potrà essere "a breve o a lungo termine", specifica il testo legislativo.

A questo si aggiunge la questione del rimpatrio per chi è considerato un "rischio per la sicurezza" – una categoria molto estesa ("chi minaccia l'ordine pubblico, la sicurezza pubblica o la sicurezza nazionale") che può comportare una detenzione "separata" rispetto agli altri detenuti, senza un termine chiaro e con un divieto d'ingresso nell'Ue per ulteriori dieci anni.

La proposta della Commissione lascia ampio margine di manovra agli Stati membri, ma è evidente che il modello lanciato dalla Danimarca con il Kosovo è molto in linea con la nuova proposta legislativa di Bruxelles. A partire dal fatto che a Gjilan possono essere inviate anche persone che si trovano in custodia per via di un provvedimento di espulsione, indipendentemente dalla presenza di un procedimento penale a loro carico.

Tuttavia, "sappiamo che con le norme attuali non ci può essere la certezza che le procedure di asilo o di valutazione di altri rischi in materia di diritti fondamentali siano state compiute nel merito del caso individuale," avverte ancora Silvia Carta di PICUM. Il rischio, dunque, è che una persona venga immessa nella procedura di rimpatrio "senza aver avuto tutte le possibili garanzie, come il diritto a presentare ricorso".

L'accordo Danimarca-Kosovo ha già attirato l'attenzione di altri stati dell'Unione, come dimostra l'accordo di coalizione del nuovo governo belga guidato da Bart De Wever, che lo indica esplicitamente come un "esempio" da replicare. "Sappiamo che diversi Paesi hanno contattato il Kosovo in merito alla possibilità di firmare accordi simili a quello siglato con la Danimarca", conferma Fatmire Haliti, del Kosova Rehabilitation Center for Torture Victims. Allo stato attuale, tuttavia, Pristina "non dovrebbe stipulare ulteriori accordi", dal momento che il Paese "non è adeguatamente preparato per la loro attuazione".

L'impatto sui Paesi candidati

Oltre alle preoccupazioni per il rispetto dei diritti umani, c'è un altro fattore di rischio da considerare: l'impatto sui Paesi terzi che potrebbero finire per ospitare questi centri detentivi. "Attualmente ci sono oltre 200 detenuti nel carcere di Gjilan, ma gli altri centri di detenzione del Kosovo non hanno la capacità di accoglierli. Qualsiasi piano di trasferimento porterebbe quindi al sovraffollamento", avverte Haliti. Questo tema si lega alla questione dei doppi standard nelle condizioni detentive. "Mentre il carcere di Gjilan sarà migliorato per soddisfare gli standard danesi, negli altri penitenziari del Kosovo gli standard rimarranno inferiori, creando disuguaglianza nel sistema carcerario", continua l'avvocata kosovara, che ricorda come l'investimento danese di 5 milioni di euro per la ristrutturazione "è quasi pari al costo sostenuto per la costruzione dieci anni fa".

A tutto questo si somma un'altra questione che sta mettendo in agitazione le organizzazioni della società civile. "Se queste persone non potranno ritornare in Danimarca e non faranno richiesta di asilo in Kosovo, cosa succederà quando la condanna terminerà?", si chiede Orjana Demaliaj, responsabile di paese presso il Jesuit Refugee Service (JRS). In base all'accordo, i detenuti saranno ri-trasferiti in Danimarca "prima della loro liberazione", a meno che non ci sia un accordo tra Copenaghen e un Paese terzo per il rimpatrio "al momento della liberazione". Se questo è ciò che si legge sulla carta, la realtà può essere molto più sfumata.

Un cono d'ombra è rappresentato da tutte le persone che si trovano in custodia in attesa del rimpatrio, ma i cui Paesi di origine non accettano di collaborare sul trasferimento. L'esperienza sul campo indica che possono crearsi situazioni problematiche, in cui potrebbero cadere anche i casi più a rischio tra quelli inviati dalla Danimarca. "In Kosovo esistono centri di detenzione per stranieri che non hanno documenti di identificazione e non hanno presentato domanda di asilo, oppure che non hanno lasciato il Paese entro due settimane dopo il respingimento della domanda ma non hanno commesso reati", spiega Demaliaj.

Non sono centri pensati per il rimpatrio, e "da lì non si può uscire per un anno", continua l'esperta del Jesuit Refugee Service. Ciò che succede al termine dell'anno di detenzione è "l'inizio di un circolo vizioso", dal momento che "semplicemente si apre la porta del centro, e il governo afferma che è stata risolta la questione senza dare ulteriori informazioni". Mentre queste persone migranti continueranno la rotta balcanica – o finiranno di nuovo in un centro di detenzione, se fermate dalle forze dell'ordine –, Demaliaj punta il dito contro le istituzioni, a cui "interessa solo mettere una 'x' sui progressi nel Rapporto annuale sui criteri richiesti al Kosovo dall'Unione europea, anche in assenza di risultati".

Gli accordi per l'esternalizzazione della detenzione e dei rimpatri di persone migranti si inseriscono esattamente in questo quadro. "I Paesi candidati sono disposti a siglare qualsiasi tipo di intesa pur di fare bella figura" con i Paesi membri e con Bruxelles, "in modo da accelerare il proprio processo di integrazione", è l'accusa di Demaliaj. Un'aspra critica non viene risparmiata nemmeno all'Unione europea, "che sta sfruttando questa disponibilità" per i propri fini – e per un preoccupante cambio di rotta nella politica migratoria.

 

Questo articolo è stato prodotto in collaborazione con la testata danese Føljeton nell'ambito di PULSE, un'iniziativa europea coordinata da OBCT che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali.


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